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Data: 10/04/2016 15:55:00 - Autore: VV. AA. "Perché un uomo virtuoso si delizia per i paesaggi? Perché il frastuono del mondo polveroso e della clausura delle abitazioni umane sono quello che la natura abitualmente aborre; mentre, al contrario, la foschia, l'opacità, e gli spiriti ossessivi delle montagne sono ciò che cerca la natura umana, e che tuttavia raramente riesce a trovare." CHU XI (filosofo cinese del medioevo) di A. Trentini - Un tema che periodicamente si ripropone in ragione dei valori specifici in esso compendiati e che, in virtù di ciò, stimola riflessioni accese a seconda degli interessi espressi, riguarda la disciplina applicabile nel delicato ambito dell'abusivismo edilizio in caso di sopravvenienza all'edificazione di un vincolo di inedificabilità assoluta. La vexata quaestio si appunta sul "momento" in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria: vale il principio tempus regit actum o l'opposto principio della disciplina vigente all'epoca di costruzione del manufatto abusivo? L'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste o non sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo? La vigente disciplina dell'attività edilizia trova la sua fonte nel testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia di cui al D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, e più precisamente nella parte I del suddetto testo unico, rubricata "Attività edilizia". Completano la disciplina le singole leggi regionali e le norme regolamentari locali. Dal canto suo, la vigente disciplina dei beni culturali trova la sua fonte nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (il d.lgs. 42/04 ha abrogato il precedente d.lgs. 490/1999 (T.U. dei beni culturali), che a sua volta aveva abrogato le leggi n. 1089/1939 e n. 1497/1939. Per quanto riguarda i rapporti tra la disciplina dell'attività edilizia e la disciplina dei beni culturali, la norma di riferimento è l'art. 1, comma 2, del D.P.R. 380/2001, il quale stabilisce che "restano ferme le disposizioni in materia di tutela dei beni culturali ... contenute nel D.lgs. 42/2004". In tali termini si esprimono sul punto anche le leggi regionali. In pratica, nel caso di interventi materiali e/o strutturali su "beni culturali" (così sono qualificati anche i siti naturali/paesaggistici vincolati), si ha una sovrapposizione di discipline: la disciplina dettata dal D.P.R. 380/2001, volta ad assicurare il rispetto delle prescrizioni di carattere urbanistico (per un ordinato sviluppo edificatorio del territorio) mediante il controllo della conformità dell'attività edilizia, che in concreto si intende svolgere, alle leggi ed agli strumenti urbanistici vigenti; e la disciplina dettata dal Codice beni culturali, volta ad assicurare il rispetto delle prescrizioni poste a tutela dei beni culturali ossia dei beni immobili che presentano un interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico (in conformità al disposto dell'art. 9 della Costituzione). Da qui l'intenso dibattito – più di matrice dottrinale - sull'armonizzazione della disciplina in materia edilizia con quella in materia di tutela dei beni culturali, sul quale, invece, la giurisprudenza – sia amministrativa che penale – ha assunto un orientamento pressoché unitario e costituzionalmente orientato. La sentenza 11 febbraio 2016 n. 22, della Corte CostituzionaleL'occasione per ritornare sull'argomento – che già la scrivente ebbe modo di trattare nell'ambito del "Commento ragionato del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio" (Maggioli editore, 2005) – è data dalla recentissima sentenza della Corte Costituzionale n. 22 dello scorso 11 febbraio, con cui viene svolta una interessante disamina sulla ricostruzione dell'evoluzione dei vincoli paesaggistici ed ambientali svolta dal rimettente, a cui ricollegare problematiche mai sopite, ed oggi emergenti con ancor più enfasi, fra cui spicca fra tutte la tematica oggetto di focus. Nel caso di specie, latamente riconducibile all'oggetto d'indagine, la Corte Costituzionale era stata investitra dal TAR della Campania della questione di legittimità costituzionale dell'art. 142, comma 2 (rectius: comma 2, lettera a), del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), in riferimento all'art. 9 della Costituzione, "laddove, nel prevedere la deroga al regime di autorizzazione paesaggistica per tutte le zone A e B del territorio comunale, tali classificate negli strumenti urbanistici vigenti alla data del 06.09.1985, non esclude da tale ambito operativo di deroga le aree urbane riconosciute e tutelate come patrimonio UNESCO"; in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai parametri interposti di cui agli artt. 4 e 5 della Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale (d'ora in avanti «Convenzione UNESCO» o «Convenzione»), firmata a Parigi il 23.11.1972 e recepita in Italia con legge 06.04.1977, n. 184 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, firmata a Parigi il 23.11.1972). Il rimettente ha anche sollevato, con riferimento ai medesimi parametri, questione di legittimità costituzionale dell'art. 142, comma 1, del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nella parte in cui non prevede tra i beni paesaggistici sottoposti a vincolo ex lege i siti tutelati dalla Convenzione (d'ora in avanti «siti UNESCO»), ovvero degli artt. 134, 136, 139, 140 e 141 del Codice, nella parte in cui non prevedono per i medesimi siti un obbligo in capo all'amministrazione di apposizione in via provvedimentale del vincolo paesaggistico. Il TAR Campania, nel sollevare le questioni, aveva ritenuto che il sistema attuale non garantisca una protezione adeguata ai siti UNESCO, censurando, pertanto, l'art. 142, comma 2, lettera a), del Codice, nella parte in cui non dispone che la deroga ai vincoli legali del comma 1 – deroga prevista per il cosiddetto territorio urbano – non operi per tali siti. Ciò, per il remittente, determinerebbe la violazione dell'art. 9 Cost., atteso che, in presenza del riconoscimento del valore eccezionale del bene paesaggistico con la sua inclusione nella lista del patrimonio mondiale dell'UNESCO, la deroga lederebbe il bene paesaggio, che è un valore primario della Repubblica, assoluto e non disponibile. Invocando la necessità di una più stringente tutela paesaggistica per i beni in oggetto, il giudice rimettente richiama l'articolato della Convenzione UNESCO, poiché, sin dagli artt. 1 e 2, forniscono la definizione dei due grandi pilastri concettuali su cui essa poggia: rispettivamente, "il patrimonio culturale", che ricomprende monumenti, agglomerati e siti, e il "patrimonio naturale", che ricomprende monumenti naturali, formazioni geologiche e fisiografiche, zone costituenti habitat di specie animali e vegetali minacciate, siti naturali o zone naturali. Queste diverse tipologie di beni ("siti" in senso lato) sono accomunate dalla circostanza di presentare un valore (storico, artistico, estetico, estetico-naturale, scientifico, conservativo, etnologico o antropologico) "universale eccezionale". I successivi artt. 4 e 5 della Convenzione pongono, nel porre obblighi in capo agli Stati firmatari, tra cui spicca,quello di garantire "l'identificazione, protezione, conservazione, valorizzazione e trasmissione alle generazioni future del patrimonio culturale e naturale" situato sul loro territorio, lasciano tuttavia liberi gli Stati medesimi di individuare "i provvedimenti giuridici, scientifici, tecnici, amministrativi e finanziari adeguati per l'identificazione, protezione, conservazione, valorizzazione e rianimazione di questo patrimonio". La Consulta, nel ripercorrere le motivazioni delle ordinanze di rimessione del TAR Campania, riconosce che "nel nostro ordinamento i siti UNESCO non godono di una tutela a sé stante, ma, anche a causa della loro notevole diversità tipologica, beneficiano delle forme di protezione differenziate apprestate ai beni culturali e paesaggistici, secondo le loro specifiche caratteristiche. Per i beni paesaggistici, in particolare, il sistema vigente, che si prefigge dichiaratamente l'osservanza dei trattati internazionali in materia (art. 132, comma 1, del codice dei beni culturali e del paesaggio), appresta anzitutto una tutela di fonte provvedimentale, laddove essi rientrino nelle categorie individuate dall'art. 136, comma 1, del codice, tra cui vi sono, appunto, i centri e i nuclei storici (lettera c) e le bellezze panoramiche o belvedere da cui si goda lo spettacolo di quelle bellezze (lettera d). Questi beni possono poi essere oggetto di apposizione di vincolo in sede di pianificazione paesaggistica (art. 134, comma 1, lettera c, del codice), come si evince anche dall'art. 135, comma 4, ove è previsto che «Per ciascun ambito i piani paesaggistici definiscono apposite prescrizioni e previsioni ordinate», tra l'altro, «alla individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio, in funzione della loro compatibilità con i diversi valori paesaggistici riconosciuti e tutelati, con particolare attenzione alla salvaguardia dei paesaggi rurali e dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell'UNESCO». I siti Unesco, infine, sono assoggettati alla tutela di fonte legale di cui all'art. 142, comma 1, del codice dei beni culturali e del paesaggio, se e nella misura in cui siano riconducibili alle relative categorie tipologiche". Tuttavia, dopo aver condiviso tale ricostruzione, sancisce che "in presenza di un così articolato sistema di tutela (con effetti peraltro diversi quanto a decorrenza del vincolo, sede delle prescrizioni d'uso, derogabilità e trattamento sanzionatorio), la soluzione invocata dal rimettente non appare in alcun modo costituzionalmente necessitata, essendo riservata al legislatore la valutazione dell'opportunità di una più cogente e specifica protezione dei siti in questione e delle sue modalità di articolazione", dichiarando inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 134, 136, 139, 140, 141 e 142, commi 1 e 2, lettera a), del d.lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), sollevate, in riferimento agli artt. 9 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione ai parametri interposti di cui agli artt. 4 e 5 della Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, firmata a Parigi il 23.11.1972 e recepita in Italia con legge 06.04.1977, n. 184 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, firmata a Parigi il 23.11.1972). La pronuncia in questione si inserisce in un ambito di dibattito molto acceso che spazia dalla indiscussa necessità d'interesse pubblico di salvaguardare e valorizare le aree sottoposte al vincolo paesaggistico, all'interesse privato di (eseguire o) sanare eventuali opere edilizie eseguite in zone vincolate, soprattutto nel caso in cui il vincolo sia stato apposto successivamente all'esecuzione degli abusi. L'autorizzazione paesistica e la sanatoria edilizia. Il quadro normativo.La normativa vigente sull'autorizzazione paesistica risulta dal combinato dell'art. 146, comma 12, e dell'art. 167, comma 4, del d.lgs. 42/2004. E' una normativa particolarmente severa, in quanto esclude la sanatoria ambientale per le opere non preventivamente assentite, con l'eccezione di alcune fattispecie marginali. La finalità della norma è di costituire un più solido deterrente contro gli abusi dei privati, e muove dalla consapevolezza della prevalenza dei vincoli paesaggistici, ambientali, culturali, rispetto alla materia edilizia, pur nella valenza specifica e autonoma fra titolo edilizio e titolo paesaggistico, per la diversità dei valori in ciascun ambito tutelati. Se il regime previgente riconosceva un certo rilievo al "fatto" compiuto (abuso edilizio), alterando i rapporti di forza tra la parte pubblica e quella privata a favore di quest'ultima, il regime attuale fa invece prevalere l'interesse pubblico a un'utilizzazione controllata (e quindi preventivamente assentita) del territorio caratterizzato da valori o fragilità ambientali. Da qui ne consegue che possono determinarsi nelle fattispecie concrete asimmetrie tra la situazione urbanistico-edilizia (che potrebbe ammettere la sanatoria ordinaria mediante la verifica di conformità dell'art. 36 del d.P.R. 380/2001), e la situazione ambientale (dove la mancanza formale dell'autorizzazione paesistica rappresenta un ostacolo insormontabile alla sanatoria). Il Codice dei beni culturali prevede casi nominati in cui consentire l'autorizzazione paesistica in sanatoria in deroga al divieto di cui all'art. 146, comma 12, del d.lgs. 42/2004 (art. 167, comma 4, del d.lgs. 42/2004, come sostituito dall'art. 27 del d.lgs. 24.03.2006, n. 157), Quanto al rapporto tra la tutela dei valori paesaggistici e la pianificazione urbanistica, e relativi strumenti attuativi, la Corte costituzionale ha affermato con giurisprudenza costante il valore "primario e assoluto" della tutela del paesaggio, con la conseguente affermazione della prevalenza dell'impronta unitaria della tutela paesaggistica sulle determinazioni urbanistiche, pur nella necessaria considerazione della compresenza degli interessi pubblici intestati alle due funzioni. Conforma di ciò si trova nell'art. 145, comma 3, del Codice dei beni culturali, per il quale le previsioni dei piani paesaggistici "non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici…". L'iniziativa economica privata, altresì costituzionalmente tutelata, non può dunque essere immotivatamente compressa ma, in quanto attuata nel contesto e per mezzo della strumentazione urbanistica, deve essere correlata al rapporto di questa con i sovraordinati valori della tutela del paesaggio. Si rende, dunque, evidente la prevalenza dell'impronta unitaria della tutela paesaggistica sulle determinazioni urbanistiche, pur nella necessaria considerazione della compresenza degli interessi pubblici intestati alle due funzioni (Corte Cost., sent. n. 367/2007; sent. n. 226/2009 e n. 101/2010). Parimenti tutelata dalla Costituzione come principio fondamentale è la tutela del paesaggio (art. 9), con carattere, però, di preminenza rispetto agli altri beni giuridici che vengono in rilievo nella difesa del territorio, di tal che anche le previsioni degli strumenti urbanistici devono necessariamente coordinarsi con quelle sottese alla difesa paesaggistica. Questa differenza trova ragione nel fatto che la difesa del paesaggio si attua eminentemente a mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che "la miglior tutela di un territorio qualificato sul piano paesaggistico è quella che garantisce la conservazione dei suoi tratti naturalistici, impedendo o riducendo al massimo quelle trasformazioni pressoché irreversibili del territorio propedeutiche all'attività edilizia (come gli sbancamenti, le perforazioni funzionali alla realizzazione delle fondamenta, i terrazzamenti ed in genere tutte le opere funzionali alla costruzione di edifici in territorio collinare); non par dubbio che gli interventi di antropizzazione connessi alla trasformazione territoriale con finalità residenziali, soprattutto quando siano particolarmente consistenti per tipologia e volumi edilizi da realizzare, finiscono per alterare la percezione visiva dei tratti tipici dei luoghi, incidendo (quasi sempre negativamente) sul loro aspetto esteriore e sulla godibilità del paesaggio nel suo insieme. Tali esigenze di tipo conservativo devono naturalmente contemperarsi, senza tuttavia mai recedere completamente, con quelle connesse allo sviluppo edilizio del territorio che sia consentito dalla disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei proprietari dei terreni che mirano legittimamente a sfruttarne le potenzialità edificatorie" (Cons. Stato, Sez. VI, sent. n. 1129/2013). Il perno della normativa è l'istituto dell'autorizzazione preventiva. In tale accezione, ed in linea generale, qualunque "alterazione dello stato dei luoghi" realizzata su beni paesaggistici deve essere sottoposta a preventiva autorizzazione. Allo scopo l'art. 181 del Codice dei beni culturali e ambientali punisce a titolo di contravvenzione, con le pene previste dall'articolo 20 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità da essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni ambientali. La disciplina di settore (esclusa dall'applicazione delle norme regionali al riguardo, poiché esterne all'ambito legislativo concorrente), impone dunque l'autorizzazione preventiva e nulla prevede circa la possibilità di un'autorizzazione paesaggistica "a sanatoria", che sia cioè successiva alla realizzazione dell'opera sul bene protetto, cosa possibile, invece, nella materia edilizia. A prescindere, quindi, da alcuni isolati orientamenti sorti alla fine degli anni '90-inizio 2000 (riguardanti prevalentemente i vincoli assoluti e relativi, causati dalla convulsa attività legislativa in materia, che aveva in una certa fase, e per brevissimo tempo,introdotto la "autorizzazione paesaggistica postuma" dopo il Testo Unico n. 490/1999, ad opera del decreto Melandri n. 283/2000, durata per pochi mesi), l'opinione prevalente, ora come allora, aveva escluso la possibilità di un'autorizzazione in sanatoria per gli abusi edilizi anche nei casi di sopravvenienza del vincolo, rafforzata sulla base della semplice e corretta argomentazione per cui quando il legislatore ha voluto una tale possibilità – come nella materia urbanistica edilizia – l'ha detto, quando invece non l'ha voluta – come nella materia paesaggistica - ha taciuto e non ha previsto un simile istituto. A tacitare ogni possible "fuga" interpretativa, il Codice ha messo dal 2004 una pietra tombale sull'argomento in ossequio alla preminenza dell'interesse paesaggistico su quello al mero corretto assetto urbanistico edilizio del territorio. Lungi dall'essere un fatto patologico, l'inutilizzabilità dell'accertamento di conformità edilizio in tali casi dovrebbe essere espressione fisiologica della preminenza del bene interesse paesaggistico ambientale. Di talché la stessa giurisprudenza è ritornata conforme ai propri storici orientamenti. Circa l'ambito eminentemente "edilizio", giova precisare quanto segue. Innanzitutto, l'obbligo di richiedere il titolo abilitativo per realizzare nuove edificazioni è stato introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento dal regio decreto-legge 25 marzo 1935, n. 640. L'obbligo, poi ribadito dall'art. 31 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, non riguardava tuttavia tutto il territorio comunale ma solo il centro abitato. Ad opera della legge 6 agosto 1967, n. 765, l'obbligo è stato esteso a tutto territorio comunale. Il nostro ordinamento giuridico conosce due ipotesi di sanatoria degli abusi edilizi: una, di natura eccezionale, definita "condono edilizio", introdotta per la prima volta dagli artt. 31 e ss. della L. 47/1985 (a cui hanno fatto seguito altri due condoni: L. 724/1994 e L. 326/2003), e una sanatoria c.d. "ordinaria", ovvero proponibile in qualunque tempo al ricorrere di determinate circostanze fattuali e normative, definita "accertamento di conformità", introdotta dall'art. 13 della citata L. 47/1985, confluita attualmente nell'art. 36 del T.U. dell'edilizia (DPR 380/2001). In particolare, le condizioni per la sanatoria ordinaria previste dal testo dell'art. 36 del DPR 380/2001 impongono che l'opera realizzata in assenza o difformità del titolo edilizio, sia conforme tanto alle norme vigenti al momento della sua realizzazione quanto a quelle vigenti alla presentazione della domanda di regolarizzazione. Essa determina la legittimazione ex post di abusi edilizi formalmente regolari ma per i quali manchi il solo assenso legittimante della pubblica amministrazione. Già in precedenza, con l'art. 13 della L. 47/1985, la disciplina introdotta della c.d. "doppia conformità" (i.e. opere conformi tanto alla disciplina vigente al tempo della loro realizzazione, quanto alla disciplina vigente al momento di presentazione della domanda di regolarizzazione), evidenziava come l'intento del legislatore fosse diretto ad escludere la possibilità di conseguire la sanatoria in presenza di opere conformi agli strumenti urbanistici del momento dell'istanza, ma non all'epoca di realizzazione, al fine di disincentivare il disvalore collegato a tali comportamenti. Attesa la rigidità di tale lettura della norma, si fece largo un orientamento giurisprudenziale teso ad interpretare il testo, alla luce di canoni economico-sociali ritenuti in contrasto con il principio di economicità dell'azione amministrativa. Si tratta del noto indirizzo conosciuto come "sanatoria giurisprudenziale", per la quale "la concessione in sanatoria è istituto dedotto dai principi generali attinenti al buon andamento e all'economia dell'azione amministrativa, e consiste nell'obbligo di rilasciare la concessione quando sia regolarmente richiesta e conforme alle norme urbanistiche vigenti al momento del rilascio, anche se l'opera alla quale si riferisce sia già stata realizzata abusivamente; pertanto, tale generale istituto resta fermo anche successivamente alla previsione espressa della concessione in sanatoria di cui all'art. 13 della L. 28 febbraio 1985 n. 47". Tale "sanatoria giurisprudenziale", in quanto interpretativa ed estensiva, era ritenuta concordemente diretta a regolarizzare solo amministrativamente la costruzione abusiva, senza eliminarne le eventuali conseguenze penali. Come già rilevato, il DPR 380/2001 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) ha sostanzialmente riproposto, all'art. 36, il testo dell'art. 13 della L. 47/1985, senza tener in alcun conto la teoria della "sanatoria giurisprudenziale", segno evidente che la lettura interpretativa data dai giudici non era voluta dal legislatore. L'art. 36 del T.U. Edilizia è, dunque, insuscettibile di ampliamento in via interpretativa e/o analogica, e il rilascio del titolo in sanatoria postula la conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia a quella in vigore alla data della presentazione della domanda. In materia sanzionatoria edilizia, il nostro ordinamento prevede sanzioni amministrative, aventi natura "afflittiva" o "retributive", poichè finalizzate e a punire il trasgressore, e sanzioni reali, cosiddette "ripristinatorie", in quanto dirette a ricostituire lo stato dei luoghi violato. Costituisce esempio di scuola di sanzione di natura "afflittiva", la misura pecuniaria prevista dall'art. 167, comma 5, del d.lgs. 42/2004: nel caso di realizzazione di opere prive di autorizzazione paesaggistica, ma sostanzialmente compatibili con il paesaggio, è sanzionato il comportamento di chi ha posto in essere trasformazioni dello stato dei luoghi in assenza della prescritta autorizzazione; mentre se l'opera realizzata in assenza di autorizzazione paesaggistica è incompatibile con il paesaggio, l'unica misura ammessa dall'art. 167 del D. lgs. 42/2004 è l'ordine di demolizione, che ha in tal caso natura di sanzione "ripristinatoria". L'azione amministrativa, in considerazione della natura dei provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, deve essere esercitata tenendo conto della ponderazione tra l'interesse pubblico al ripristino della situazione violata e l'interesse del privato a subire il pregiudizio minore possibile. Ciò accade, in specie, quando l'accertamento dell'intervento abusivo avvenga dopo un notevole lasso di tempo, ove la sanzione ripristinatoria deve essere sorretta da un impianto motivazionale particolarmente rigoroso. In conclusione, si può correttamente affermare che il ripudio in sede normativa della codificazione della "sanatoria giurisprudenziale", costituisce la risposta più severa che il legislatore poteva dare al fenomeno dell'abusivismo edilizio, per il quale alla sanatoria si applica la legge vigente al momento in cui si accerta l'abuso e non quella esistente al momento della sua realizzazione, attesa la natura di illecito permanente. In tale direzione la più recente giurisprudenza amministrativa nomofilattica, che ha osservato che "in materia di sanzioni amministrative non vige il divieto di retroattività e che, al fine di individuare la disciplina sanzionatoria applicabile agli abusi edilizi, deve aversi riguardo non all'epoca della costruzione abusiva ma della scelta da parte dell'Autorità tra la demolizione e la sanzione alternativa, perché ha ritenuto che i poteri del Sindaco in materia di abusi edilizi non si estinguono per decorso del tempo, stante la natura di illecito permanente derivante dalla mancata spontanea demolizione" (Cons. St., sez. V, sent. 7 agosto 2014, n. 4213). Severità che assume i contorni del rigore quando l'abuso edilizio è accertato in zone sottoposte a vincoli, anche sopravvenuti. L'orientamento della giurisprudenza. Il vincolo sopravvenuto all'abuso.Si è detto del favor del legislatore verso un regime particolarmente severo nel caso di richiesta di sanatoria per opere realizzate in assenza o difformità dal titolo edilizio. Ebbene, quando l'abuso edilizio accertato sia stato realizzato in assenza o difformità del titolo edilizio in zona vincolata (al momento dell'accertamento dell'illecito), in linea con le precauzioni maggiori che ammantano tali beni, la disciplina normativa e la relativa applicazione di essa in sede curiale sono estremamente rigide. In caso di vincolo paesaggistico, com'è noto, è precluso il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001, poiché il divieto di autorizzazione paesaggistica postuma è espressamente previsto dall'art. 146 del d.Lgs. 42/2004. A tale principio fanno eccezione solo i limitatissimi casi previsti dal comma 4, dell'art. 167 d.lgs. cit., che, in un'ottica di apicale protezione dei valori paesaggistici, esclude dalla compatibilità paesaggistica interventi già realizzati, che abbiano comportato "creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati". La disposizione è di meridiana evidenza: in presenza di opere che abbiano determinato creazione o aumento di volumi, il rigetto dell'istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica costituisce esito vincolato del procedimento, indipendentemente dal tempo di apposizione del vincolo rispetto all'opera eseguita. D'altra parte, per poter ottenere la sanatoria di immobili abusivi situati in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, è sempre necessario acquisire il parere favorevole delle amministrazioni preposte alla sua tutela a prescindere dal requisito della anteriorità dell'opera rispetto al vincolo stesso (TAR Milano, II, sent. n. 1891 del 5/8/2015). A sostegno di questa conclusione, il TAR Milano ritiene vi siano due elementi. Il primo, di carattere sostanziale, fa leva sul fatto che è necessario vagliare l'attuale compatibilità dell'opera abusiva con il vincolo sopravvenuto. Il secondo, di carattere formale, ma strettamente connesso al primo, si basa sul principio tempus regit actum, principio che obbliga l'autorità competente a tenere conto del regime giuridico vigente al momento di valutazione della la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo paesaggistico. Sulla base di ciò, in linea di massima, chi presenta una domanda di sanatoria di un'opera abusivamente realizzata in zona assoggettata a vincolo paesaggistico non può pretendere di sottrarsi dalla valutazione di compatibilità invocando l'anteriore realizzazione dell'opera medesima rispetto al suddetto vincolo. Questa conclusione, però, si fonda sul presupposto che l'opera sia abusiva. Se l'opera è stata invece legittimamente realizzata, la successiva introduzione del vincolo non può ovviamente avere alcuna ripercussione sul regime giuridico ad essa applicabile, sempre in osservanza del principio tempus regit actum (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 22.07.1999 n. 20; Cons. Stato., sez. VI, 07.05.2015, n. 2297; Cons. Stato, 17.01.2014, n. 231). Allo stesso modo, il TAR citato ha ritenuto che, ai sensi dell'art. 167, comma 4, lett. a), del dlgs n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'art. 10 della legge 6.7.2002, n. 137), "l'accertamento di compatibilità paesaggistica può riguardare esclusivamente <<… lavori (…) che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati…>>. Ancora più recentemente è intervenuto il Consiglio di Stato (sentenza n. 3652 del 23/7/2015), che ha ribadito che "alla funzione di tutela del paesaggio è estranea ogni forma di attenuazione della tutela paesaggistica determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione: tale attenuazione, nella traduzione provvedimentale, condurrebbe illegittimamente a dare minor tutela, malgrado l'intensità del valore paesaggistico del bene, quanto più intenso e forte sia o possa essere l'interesse pubblico alla trasformazione del territorio. Invero, il parere in ordine alla compatibilità paesaggistica non può che essere un atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, dove l'intervento progettato va messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della compatibilità fra l'intervento medesimo e il tutelato interesse pubblico paesaggistico: valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto". In altre parole, se l'istanza di sanatoria di un abuso edilizio in zona priva di vincoli e/o interessi postula la valutazione della conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia a quella in vigore alla data della presentazione della domanda – sicché una diversa interpretazione si rivelerebbe di fatto abrogatrice della norma in parte qua perpetrando una violazione di legge. Infatti, "se l'art. 36, comma 1, cit. fosse unicamente volto a salvaguardare il privato istante dalle conseguenze sfavorevoli (nel senso di una sopravvenuta modifica in peius del ius aedificandi) dell'inerzia dell'amministrazione nel concludere l'avviato procedimento di sanatoria, sarebbe stato sufficiente il riferimento testuale "al momento della presentazione della domanda". In realtà, il legislatore, con l'espressione "sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda", ha individuato l'intero arco temporale lungo il quale si sia protratto l'abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti peggiorativi del ius superveniens non possono non ricadere su costui, ma anche oltre il quale gli stessi effetti restano imputabili all'inerzia dell'amministrazione nel provvedere e non sono più su di lui riversabili" (P. Giannone, in ambientediritto.it) – non può certo esistere un minus tutorio quando l'istanza di sanatoria riguardi un abuso in zona tutelata (al momento della domanda). Sempre in tal senso il TAR Salerno (sez. I, sent. n. 1756 del 28/7/2015), ha ribadito che "l'art. 167, comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica a sanatoria quando il manufatto realizzato in assenza di valutazione di compatibilità abbia determinato la creazione o l'aumento di superfici utili o di volumi e che la lettera di tale norma non consente ulteriori interpretazioni. Addirittura è stato ritenuto pacifico, alla luce dell'art. 167 d.lgs. n. 42/2004, che "l'accertamento di compatibilità paesaggistica preordinato alla sanatoria di opere realizzate abusivamente è subordinato dalla mancata creazione di superfici o volumi utili o all'aumento di quelli legittimamente realizzati. Sul punto, l'intero impianto critico di parte ricorrente si fonda sull'assunto, in fatto, che la modifica del perimetro del locale realizzato nella parte interrata retrostante (inglobando una preesistente intercapedine) non concreterebbe un aumento della superficie utile. L'assunto, tuttavia, non appare plausibile, essendo evidente che, per quanto modesta, interrata e preesistente, la ridetta intercapedine costituisce di per sé una superficie utile, idonea a determinare un obiettivo incremento volumetrico del locale garage, di per sé ostativo, alla luce del rigoroso parametro normativo di riferimento, all'auspicato accertamento di conformità in sanatoria. In diversa direzione, non può assumere rilievo la circostanza che le opere siano interamente interrate, posto che anche in tal caso risultano compromessi, dall'aumento volumetrico, i valori ambientali e paesaggistici" (TAR Campania, sent. n. 1719 del 27/7/2015; Cons. Stato, IV, sent. n. 2297 del 7/5/2015). Come si evince da questa ampia disamina, l'orientamento giurisprudenziale (con cui poi bisogna fare i conti), è oltremodo restrittivo e non si discosta dal dato letterale della norma speciale di settore. Emerge quindi che è sufficiente per il rigetto della sanatoria edilizia l'esistenza del solo vincolo paesaggistico alla data di valutazione della stessa, dal momento che non vi è prevalenza all'edificazione rispetto ai valori paesaggistici ed ambientali, né nella legislazione, né in giurisprudenza. Al contrario, sin dal 1999 l'adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha avuto modo di affermare che "il vincolo ambientale gravante sulla zona è stato imposto in epoca successiva non solo all'esecuzione delle opere, ma anche alla stessa L. n. 47 del 1985 e, per altro, i manufatti oggetto delle prime due istanze di sanatoria risalgono ad epoca anteriore al 1967 e ricadono in zona agricola, cosicché al momento della loro esecuzione non erano soggetti a licenza edilizia, né per essi avrebbe dovuto essere avanzata domanda di condono". Il Plenario Consesso svolge un'analisi estremamente approfondita tanto da poterle assegnare, considerando le norme vigenti, anche sovranazionali in materia ambientale e del paesaggio, valore pro futuro. In specie, analizza i diversi orientamenti a quel tempo prevalenti, anche ed in considerazione del Testo Unico del 1999 e del "decrteto Melandri" del 2000. Secondo un primo orientamento l'acquisizione del parere anche se le opere sono state realizzate in data anteriore all'apposizione del vincolo era ritienuto obbligatorio (C.S., V, 23 marzo 1991 n. 326; id., 22 dicembre 1994 n. 1574; id., 4 maggio 1995 n. 696; id., 13 febbraio 1997 n. 158; Sez. VI, 9 ottobre 1997 n. 1461). Alla base di tale linea interpretativa, riconosce l'A.P. che versavano "non solo ragioni desunte dalla formulazione letterale del citato art. 32, primo comma, L. n. 47/1985, nel quale non è precisato che il vincolo imposto debba essere anteriore all'esecuzione delle opere abusive, ma anche rilievi di carattere sostanziale, quali: la funzione correttiva dell'automatismo del condono edilizio da riconoscersi al parere in questione; la presenza di interessi pubblici di valore primario (culturali, ambientali o paesaggistici e altri), che non possono essere compromessi in via definitiva; la natura oggettiva del vincolo, la gestione del quale non richiede altro che la sua esistenza". In senso opposto vi erano due isolate decisioni (VI Sez., 30 settembre n. 1030/1995 e n. 356/1997), che avevano ritenuto il parere di cui si tratta non necessario ove il vincolo sia posteriore all'esecuzione dell'opera. Per il Supremo consesso "questo secondo orientamento valorizza l'espressione "aree sottoposte a vincolo" di cui all'art. 32, osservando che essa si riferisce ad un fatto accaduto, vale a dire alla già avvenuta sottoposizione a vincolo, e sottolinea come il legislatore abbia inteso significare che solo a partire da questo momento la qualità dell'area espressa dal vincolo assume rilevanza ai fini della sanatoria delle opere che su di essa siano state realizzate". L'A.P. smonta tale assunto sostenendo che "l'impiego dei participi passati "eseguite" e "sottoposte", nell'espressione "opere eseguite su aree sottoposte a vincolo" utilizzata dal legislatore nel primo comma dell'articolo, non rappresenta sicuro riferimento alla sola ipotesi di opera abusivamente costruita su area già gravata da vincolo nel momento della sua realizzazione. Non è infrequente, nella lingua italiana, l'uso del participio passato con funzione semplicemente oggettivante; uso che, nella specie, non necessariamente esprime l'esistenza di una relazione temporale tra le due qualità, rispettivamente, dell'opera e dell'area". A questi si aggiunge un ulteriore orientamento, espresso in sede consultiva (Sez. II, par. n. 403/1998), che riconosce alla sanatoria straordinaria di cui agli artt. 31 e seguenti della L. n. 47 del 1985 il carattere eccezionale di atto assimilabile a quelli di clemenza generale, tale da giustificare la deroga al principio tempus regit actum" secondo il quale la legittimità degli atti amministrativi si valuta con riguardo unicamente alle norme vigenti ed alla situazione esistente al momento del loro venire in essere. Proprio il sumenzionato parere n. 403/1998 conferma il principio tempus regit actum nella valutazione delle domande di sanatoria "ordinaria" laddove ritiene che nel caso di carattere eccezionale potrebbe giustificarsi una deroga, ioncompatibile, quindi, con il carattere ordinario. Così ricostruiti i termini, l'Adunanza plenaria ha sancito che, in mancanza di indicazioni univoche desumibili dal dato normativo, la soluzione vada ricercata nei principi generali in materia di azione amministrativa, tenuto conto della valenza attribuita dall'ordinamento agli interessi coinvolti nell'applicazione della disposizione legislativa di cui si tratta. E dato che il legislatore è intervenuto più volte sull'art. 32 della legge n. 47/1985 (con l'art. 4 del D.L. 23 aprile 1985 n. 146; con l'art. 12 del D.L. 12 gennaio 1988, n. 2, peraltro, dichiarato costituzionalmente illegittimo da Corte Cost., 10 marzo 1988 n. 302; con l'art. 2, comma 43, della legge 23 dicembre 1996 n. 662), perfino con una disposizione interpretativa (art. 1 L. 27 dicembre 1997 n. 449), senza mai provvedere, tuttavia, in ordine al dubbio che qui s'intende sciogliere, ciò non può essere del tutto privo di significato. Se a ciò si aggiunge che nemmeno con l'art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 il legislatore ha sentito la necessità di regolare diversamente (rectius espressamente) la materia – pur consapevole del dibattito giurisprudenziale culminato con la sentenza dell'Adunanza plenaria di due anni prima – è evidente che il principio secondo il quale chi presenta una domanda di sanatoria di un'opera abusivamente realizzata in zona assoggettata a vincolo paesaggistico non può pretendere di sottrarsi dalla valutazione di compatibilità invocando l'anteriore realizzazione dell'opera medesima rispetto al suddetto vincolo, costituisce ben più di un semplice obiter dictum. Anzi, "la circostanza, poi, che, quando ha inteso considerare anche il vincolo sopravvenuto al compimento dell'opera, il legislatore lo ha fatto esplicitamente, come nell'art. 32, comma 4, non depone per una lettura in senso opposto della norma che di tale specificazione sia priva. Il silenzio mantenuto in proposito, invece, ben può essere significativo proprio dell'intento di non attribuire alcuna rilevanza al momento in cui il vincolo risulti imposto". Ma il punto decisivo, l'Adunanza plenaria lo affronta nel momento in cui ritiene che "La disposizione non può essere caricata di un significato che non ha: è difficile, infatti, considerare del tutto inesistente un vincolo d'inedificabilità totale per il solo fatto che sia sopravvenuto all'edificazione e ritenere, pertanto, che l'abuso commesso sia senz'altro sanabile". I limiti e le modalità di salvezza dei valori primari del paesaggio e dell'ambiente non possono, d'altra parte, avere altra fonte che la norma positiva la quale, almeno nella disposizione generale relativa ai vincoli, non offre alcun elemento di definizione. A giudizio dell'A.P., "Confortano l'assunto quanto meno due considerazioni: la prima, (...) la seconda, che fa perno sull'esistenza, nello stesso art. 32 (si veda il comma quarto), di una più dettagliata disciplina della tutela che, a fronte della generale sanatoria, il legislatore ha inteso riservare a taluni specifici vincoli (si potrebbe dire, "minori" rispetto a quelli paesaggistico-ambientali, storico-artistici, ecc.). Il vero è che la cura del pubblico interesse, in che si concreta la pubblica funzione, ha come sua qualità essenziale la legalità: è la legge che attribuisce la funzione e ne definisce le modalità di esercizio, anche attraverso la definizione dei limiti entro i quali possono ricevere attenzione gli altri interessi, pubblici e privati, con i quali l'esercizio della funzione interferisce. Compito, questo, per altro, che nessun'altra norma può svolgere se non quella vigente al tempo in cui la funzione si esplica ("tempus regit actum"). Ne consegue che la pubblica Amministrazione, sulla quale a norma dell'art. 97 Cost. incombe più pressante l'obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone. La disposizione di portata generale di cui all'art. 32, primo comma, relativa ai vincoli che appongono limiti all'edificazione, non reca alcuna deroga a questi principi, cosicché essa deve interpretarsi "nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo. E appare altresì evidente che tale valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente". Sulla base di tali argomenti logico-giuridici-normativi, il Supremo consesso ha ritenuto infondata la doglianza relativa all'irrilevanza del vincolo sopravvenuto rispetto all'opera abusiva realizzata. Anche la visione "costituzionalmente orientata" della materia ancorata all'art. 9 della Cost., inserisce la "tutela del paesaggio" nelle disposizioni fondamentali. In tale scia, il Giudice delle leggi, superando il significato meramente estetico di "bellezza naturale", ha configurato il paesaggio nella sua unitarietà come il "complesso dei valori inerenti il territorio", e l'ambiente come bene "primario" ed "assoluto". A tale orientamento dell'A.P. la giurisprudenza odierna è uniformata nel ritenere sufficiente per il rigetto della sanatoria edilizia l'esistenza del solo vincolo paesaggistico alla data di valutazione della stessa. Al riguardo la sentenza sopra citata (CdS sez. IV n. 2488/2013), ha sancito che "per potere ottenere la sanatoria di immobili abusivi situati in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, è sempre necessario acquisire il parere favorevole delle amministrazioni preposte alla sua tutela; e ciò a prescindere dal requisito della anteriorità dell'opera rispetto al vincolo stesso". Il sistema normativo regionale in materiaL'ambito d'indagine lambisce trasversalmente più materie, ricadenti in ambiti di competenza normativa pure diversi. L'affermazione europea e internazionale dell'ambiente (e del paesaggio) come "valore" ha fatto emergere l'esigenza che lo Stato ne mantenesse, a scopo di garanzia, le funzioni di indirizzo e di coordinamento nel rispetto di quel principio di leale collaborazione con cui la Corte costituzionale ha inteso valorizzare l'esigenza di uniformità della disciplina sul territorio nazionale, pur non trascurando le competenze regionali concorrenti in materie che, seppur connesse con la materia ambientale, richiedevano interventi localizzati. Due i principi di fondo: il primo, secondo cui spetta allo Stato predisporre una programmazione di carattere generale, fissando direttive e principi a cui le Regioni devono uniformarsi; il secondo, quello che assegna alle Regioni la potestà di apprestare una maggior tutela "compatibile", nel senso che non sarebbero illegittime norme regionali più restrittive di quelle statali se rispettose del limite di compatibilità. La tutela dell'ambiente e dei beni culturali, di cui il paesaggio è componente, è cosa diversa dal governo del territorio, come si ricava inequivocabilmente anche dall'art. 146, comma 8, del Codice dei beni culturali, secondo cui l'autorizzazione paesaggistica è atto distinto e presupposto della concessione edilizia e di ogni altro titolo legittimante l'intervento edilizio. Essa appartiene alla legislazione esclusiva statale, di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s) della Costituzione (tutela dei beni culturali), rimanendo attratta alla competenza concorrente la "valorizzazione". La previsione di una autorizzazione paesaggistica è un elemento di garanzia che attiene alla "tutela" dei beni culturali, e non alla loro "valorizzazione", sicché la potestà amministrativa regionale può esercitarsi solo nei limiti della legislazione statale di principio. La norma ha unicamente la funzione di integrare quanto organicamente previsto, nell'esercizio della funzione legislativa esclusiva dello Stato, dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. Ciò premesso, quasiasi previsione legislativa regionale relativa al governo del territorio – anche in zone vincolate – non potrebbe che far salvi i principi di cui al Codice dei beni culturali. Al contrario, e in controtendenza con la vigente legislazione statale e con la giurisprudenza costante, alcune regioni hanno epsresso "pareri" piuttosto discutibili in materia, ritenendo sanabili gli abusi edilizi in zona vincolata secondo le leggi vigenti all'epoca in cui erano stati realizzati e, addirittura, con semplice SCIA. Alcune considerazioni in merito a detti pareri. La prima. Si determinerebbero conseguenze aberranti per le quali un semplice abuso edilizio in zone non vincolate verrebbe valutato secondo le disposizioni della data di sanatoria indipendentemente dal periodo storico di realizzazione, mentre quelli più "gravi" perchè in zone vincolate sarebbero valutati alla data di realizzazione (sempre che sia possibile accertarla), rimanendo senza conseguenze sul piano giuridico e con palese disparità di trattamento. La seconda. La valenza permanente dell'abuso edilizio resisterebbe solo per quelli realizzati in zone non vincolate, venendo derubricato quello in zone sottoposte a vincolo, perdendo così il carattere sostanziale dell'esigenza di vagliare la compatibilità "attaule" con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente. La terza. La tesi espressa da certe regioni della non necessarietà di sanatoria paesaggistica nei casi di vincolo sopravvenuto appare semplicistica, laddove si vorrebbe addirittura legittimare con SCIA (in materia sottratta alla competenza legislativa e per lo più dalle medesime norme regionali esclusa, salvo essere citata nei pareri), abusi edilizi in zone vincolate, determinando così la distinzione tra abusi edilizi in zone vincolate "modesti" (sanabili con SCIA) e "non modesti" (non sanabili con SCIA), distinzione non contemplata dal Codice, la cui unica scriminante è per i manufatti che non "creano" o "aumentano superfici utili o volumi" (la lettera di tale norma non consente ulteriori interpretazioni,ha sancito il Cons. Stato, cit.). Secondo un primo orientamento, alcune regioni avevano correttamente sostenuto che la sanatoria è subordinata al previo accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell'art. 167, commi 4 e 5, Cod. BB.CC. (...); la valutazione della compatibilità paesaggistica (...) deve essere effettuata in conformità alla normativa paesaggistica alla data della presentazione della domanda; l'intervento potrà essere sanato solo quando rientri nei casi tassativamente indicati dal cit. art. 167; ai fini dell'accertamento di compatibilità il Comune deve acquisire il parere della Commissione per la qualità ambientale e paesaggistica, e ciò in ossequio al principio tempus regit actum, in base al quale la valutazione deve essere effettuata sulla base della legislazione vigente al momento della sanatoria. Sorprendentemente, in un momento storico di maggior attenzione verso i valori del paesaggio ed ambientali cui ha fatto seguito un orientamento curiale via via consolidatosi in senso protettivo, un recentissimo revirement ha portato la medesima regione ad esprimere sul medesimo tema un parere diametralmente opposto al precedente, ritenendo che "non necessiti la sanatoria paesaggistica per gli abusi commessi prima dell'imposizione del vincolo". Le motivazioni di tale "ravvedimento" si fondano su una giurisprudenza estremamente datata, oltre che su norme che paiono non aderenti alla materia e, per certi versi persino inconferenti, ricalcando tesi superate di un'altra regione, rimasto sino ad oggi isolato. Vale dunque la pena di svolgere alcune considerazioi sui pareri de quibus – per la loro peculiarità e unicità – oltre che per il richiamo, come decisive ai fini dell'inversione di orientamento, di argomentazioni, che conviene di seguito comunque valutare e (tentare di) confutare. In primo luogo è stato sostenuto che applicare il principio tempus regit actum alla valutazione di domande di sanatoria di abusi edilizi compiuti quando il vincolo paesaggistico non era ancora stato apposto, in luogo delle norme vigenti all'epoca della commissione del fatto, contrasterebbe con la L. 689/1981, che prevede l'assoggettabilità a sanzioni amministrative in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. La L. 689/81 (afferente ad altro argomento: la sanzione pecuniaria caratterizzata dal principio personalistico tipico di una legge di depenalizzazione, nettamente diverso dalla sanzione ripristinatoria, che ha carattere reale), sul punto pare doveroso riconoscere al meccanismo deflattivo consistente nel pagamento di una sanzione pecuniaria in forma ridotta ex lege 689 un ambito di applicazione ratione materiae notevolmente esiguo, avendo la disciplina degli abusi edilizi per lo più carattere speciale e non omologabile al sistema sanzionatorio previsto, per la generalità delle violazioni amministrative, dalla L. 689/81). Nel caso di specie si tratta invece di valutazione di compatibilità paesaggistica ai fini della sanatoria che nulla ha a che vedere con l'ambito delle sanzioni pecuniarie, differenziandosi sia perchè l'art. 167, comma 5, Codice, prevede la sanzione demolitoria in caso di abusivismo, sia per l'autorità giudiziaria compentente. L'unico punto di contatto potrebbe essere il fatto che, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria, si applica la L. 689/81, salvo che nell'applicare tale regola, con riguardo all'individuazione del dies a quo, occorre tener conto della particolare natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, sicché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni. Al riguardo, è stato sostenuto in giurisprudenza che "…il principio di autonomia delle due tipologie di violazioni (edilizia e paesaggistica), evocato nel menzionato precedente, deve essere inteso nel senso che l'intervenuta sanatoria dell'abuso edilizio non fa ex se venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa violazione paesaggistica, ma non anche che la stessa non abbia alcuna incidenza sulla permanenza della violazione…(omissis)…con conseguente individuazione del dies a quo nel momento in cui viene eliminata la violazione con l'emissione degli atti di sanatoria" (CGA, sent. n. 123 del 13.03.2014 e Sezioni riunite parere n. 188/2011). Sicché, se l'abuso edilizio (ovunque perpetrato, con disvalore maggiore nel caso in cui sia in zona vincolata) ha natura permanente, non vi è chi non veda che l'unico atto che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio osservato, è l'intervenuta sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell'opera con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità che l'accompagnava dall'atto della sua realizzazione, focalizzando il dies a quo nel momento della domanda, essendo il momento della condotta illecita un momento non cognito dalla'amministrazione. E' poi evocata la L. Galasso n. 431/1985. La legge Galasso fu la risposta "urgente" all'enorme degradazione che stava colpendo le coste del Mezzogiorno a causa del selavaggio abusivismo sui litorali e sugli alvei dei fiumi, con i relativi disastri naturali. La "Galasso" era relativa ai beni tutelati per legge (ogni intervento edilizio nelle zone "di particolare interesse ambientale" inviduate ex lege,) e non da singoli provvedimenti di vincolo, sistema mantenuto nel Codice in vigore. Tuttavia, ai fini che qui rilevano, si reputa inconferente. Infine, viene richiamata la norma dilegge regionale in materia di varianti in corso d'opera a titoli edilizi rilasciati prima dell'entrata in vigore della legge n. 10/1977, ritenendo che, per salvaguardare il legittimo affidamento dei soggetti interessati (e fatti salvi gli effetti civili e penali dell'illecito), le opere edilizie eseguite in parziale difformità di titoli abilitativi rilasciati prima dell'entrata in vigore della n. 10/77 "possono essere regolarizzate attraverso la presentazione di una SCIA e il pagamento delle sanzioni pecuniarie previste dall'art. 17, comma 3". La norma regionale, tuttavia, chiude con l'esclusione delle discipline nazionali speciali, in quanto non derogabili dalla norma regionale ("Resta ferma l'applicazione della disciplina sanzionatoria di settore, tra cui la normativa antisismica, di sicurezza, igienico sanitaria e quella contenuta nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004"). Infatti, come già evidenziato, l'art. 117, comma 2, lett. s), del Titolo V della Costituzione annovera la "tutela dei beni culturali" tra le materie di competenza esclusiva dello Stato, assegnando all'art. 117, comma 3, Cost., la sola "valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozionee organizzazione di attività culturali" tra le materie di legislazione concorrente. Conclusione Dall'esame che precede pare dunque essere chiarita la pacifica soluzione sulla quale la giurisprudenza amministrativa si è attestata. L'esistenza del vincolo va valutata al momento della domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca della sua introduzione e, quindi, anche per le opere eseguite anteriormente all'apposizione del vincolo stesso, avendo cura di precisare che i vincoli di inedificabilità sopravvenuti alla realizzazione dell'intervento edilizio non operano quali fattori di preclusione assoluta, ma costituiscono vincoli relativi che impongono un apprezzamento concreto di compatibilità nei limiti e nelle forme allo scopo normativamente previsti. Quindi, anche se il vincolo paesaggistico è successivo all'abuso edilizio del quale si chiede la sanatoria, al fine del rilascio del titolo edilizio è necessario tener conto di tutti i vincoli esistenti sull'area sulla base della normativa vigente e, quindi, sia dei vincoli originari che di quelli sopravvenuti rispetto all'epoca dell'abuso e delle qualificazioni giuridiche che la stessa vincolistica impone, al fine di garantire la compatibilità dei manufatti con la più recente valutazione dell'interesse pubblico generale al corretto utilizzo del territorio. Infine, due sole parole sul coinvolgimento della Soprintendenza ai sensi dell'art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, nei casi di assenza dei presupposti di legge. L'art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42 del 2004 prevede che l'autorità preposta alla gestione del vincolo, si pronunci " previo parere vincolante della Soprintendenza". Le considerazioni che precedono si rendono necessarie poiché accade sovente che il diniego di sanatoria venga emesso e comunicato all'interessato senza che fosse stato richiesto il parere della Soprintendenza, ex art. 167 d. l.vo 42/2004. Avv. A. Trentini |
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