Data: 29/03/2016 15:00:00 - Autore: Law In Action - di P. Storani
di Paolo M. Storani - Stimo molto Lina Musumarra, pubblicista, relatrice a convegni, titolare di uno studio legale a Roma e grande esperta di diritto sportivo alla cui gradevolissima lettura Vi lascio, evidenziando che il contributo - con apparato di note - prende le mosse dalla recente pronuncia in tema di reato colposo della Cass. Pen., Sez. IV, sentenza n. 9559, decisa il 26 novembre 2015, depositata in Cancelleria l'8 marzo 2016.
Presiedeva Carlo Giuseppe Brusco, relatore il Cons. Giuseppe Grasso.
Il Procuratore Generale, in persona del Dott. Antonio Gialanella, aveva concluso per l'inammissibilità dei ricorsi ai fini penali e per l'annullamento con rinvio al giudice civile.
Il calciatore del Tempio, Serie Eccellenza, Girone Sardegna, aveva riportato la frattura della tibia sinistra a seguito dell'intervento effettuato da un avversario con violenza eccessiva.

"GIOCO DEL CALCIO: LA SCRIMINANTE DELL'ACCETTAZIONE DEL RISCHIO

Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 9559/26.11.2016" - Lina MUSUMARRA



Gli eventi lesivi causati nel corso di incontri sportivi e nel rispetto delle regole del gioco restano scriminati per l'operare della scriminante atipica dell'accettazione del rischio consentito.



Con la sentenza n. 9559 dell'8 marzo 2016, la Cassazione penale, sezione quarta, seguendo l'opinione più diffusa e convincente in materia, aderisce al principio enunciato, escludendo invece l'operatività di una tale scriminante nei seguenti casi:

"a) quando si constati l'assenza di collegamento funzionale tra l'evento lesivo e la competizione sportiva;

b) quando la violenza esercitata risulti sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco e alla natura e rilevanza dello stesso (a tal ultimo riguardo, un conto è esercitare un agonismo, anche esacerbato, allorquando sia in palio l'esito di una competizione di primario rilievo, altro conto quando l'esito non abbia una tale importanza o, ancor meno, se si tratti di partite amichevoli o, addirittura, di allenamento);

c) quando la finalità lesiva costituisce prevalente spinta all'azione, anche ove non consti, in tal caso, alcuna violazione delle regole dell'attività".

Si esclude, invece, l'antigiuridicità del fatto e quindi l'obbligo del risarcimento allorquando: "a) si tratti di atto posto in essere senza volontà lesiva e nel rispetto del regolamento e l'evento di danno sia la conseguenza della natura stessa dell'attività sportiva, che importa contatto fisico;

b) pur in presenza di una violazione della norma regolamentare, debba constatarsi assenza della volontà di ledere l'avversario e il finalismo dell'azione correlato all'attività sportiva".1

Tali conclusioni implicano l'opzione per la causa di giustificazione atipica "a cagione della difficoltà d'inquadrare la pur necessaria ragione che esclude l'antigiuridicità degli esiti di danno, derivanti dallo svolgimento di attività sportiva, in una delle fattispecie regolate espressamente dalla legge".

Si esclude, in particolare, la possibilità di invocare la scriminante del consenso dell'avente diritto, di cui all'art. 50 cod. pen., in quanto non può giungere "fino a giustificare lesioni irreversibili dell'integrità fisica e financo (in alcune discipline) la morte"; parimenti quella dell'esercizio del diritto, ex art. 51 cod. pen., la quale "non consentirebbe di escludere dall'area della penale responsabilità tutte quelle condotte che, pur commesse in violazione del regolamento che disciplina la singola disciplina sportiva, non risultino esuberare l'area del rischio accettato".

Costituisce, infatti, secondo la sentenza in esame, un sapere largamente condiviso "la constatazione che l'esercizio, specie con i caratteri agonistici delle gare di maggior rilievo, di una disciplina sportiva che implichi l'uso necessario (es. pugilato, lotta, ecc.) o anche solo eventuale (calcio, rugby, pallacanestro, pallanuoto, ecc.) della forza fisica, costituisce un'attività rischiosa consentita dall'ordinamento, per plurime ragioni, a condizione che il rischio sia controbilanciato da adeguate misure prevenzionali, sia sotto forma di regole precauzionali, che dall'imposizione di obblighi di cure e trattamento a carico delle società sportive operanti".

La Cassazione evidenzia, altresì, che "il rischio consentito non è misurabile in astratto. Il perimetro di esso è la risultante di un attento vaglio del caso concreto (…). Esso è proporzionale alle caratteristiche e al rilievo della competizione".2

Si è inoltre specificato che "l'area consentita è delimitata dal rispetto delle regole del gioco, la violazione delle quali, peraltro, deve essere valutata in concreto, con riferimento alle condizioni psicologiche dell'agente, il cui comportamento scorretto, travalicante, cioè, quelle regole, può essere la colposa, involontaria evoluzione dell'azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l'avversario, approfittando della circostanza del gioco".3

Nella fattispecie in esame l'infortunio è maturato in un frangente di gioco particolarmente intenso (gli ultimi minuti dell'incontro di una partita di calcio del campionato serie Eccellenza).

L'atto era manifestamente indirizzato ad interrompere l'azione di contropiede della squadra avversaria, mediante il tentativo di impossessarsi regolarmente del pallone.

La condotta del calciatore, giudicato colpevole dal giudice di merito del reato di cui all'art. 590, commi 1 e 2 c.p., viene ritenuta invece dalla Cassazione meritevole di censura solo nell'ambito dell'ordinamento sportivo, "non già perché smodatamente violenta (la pienezza agonistica qui era giustificata dal contesto dell'azione, dal momento di essa e dagli interessi in campo), bensì perché, mal calcolando la tempistica, invece che cogliere il pallone, aveva finito per colpire la gamba dell'avversario che già aveva allungato la sfera in avanti; ma certamente non sconfina dal perimetro coperto dalla scriminante" atipica dell'accettazione del rischio.

La sentenza impugnata viene dunque annullata senza rinvio poiché il fatto ascritto all'imputato "non costituisce reato".

1 Cass. civ., sez. 3, sent. n. 12012/2002.

2 Sul punto si richiamano Cass. pen., sent. n. 20595/2010; Cass. pen., sent. n. 44306/2008; Cass. pen., sent. n. 2765/1999.

3 Cass. pen., sent. n. 11473/2005.



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