Data: 17/04/2016 17:55:00 - Autore: Angelo Casella
di Angelo Casella - Il programma di austerità e di riforme demolitive dello stato sociale imposto dalla Ue agli Stati membri ha un (monumentale) precedente storico ed una (pur dimenticata) cornice teorica.

Il precedente storico

Negli anni '70, gli organismi finanziari internazionali, nel quadro di una precisa strategia politica, esercitarono forti pressioni su tutti gli Stati latino-americani perché stipulassero importanti prestiti, proponendo fantasiosi piani faraonici di sviluppo che li avrebbero (dicevano) resi autonomi dalle importazioni. I costi dei prestiti, venne loro garantito, sarebbero stati coperti dal rendimento degli investimenti.
Naturalmente, non fu così. Gli (intuibili!) squilibri finanziari dei piani di sviluppo crearono subito pesanti difficoltà al Paesi debitori e, nel 1982, il Messico dichiarò ufficialmente di non poter fare fronte ai rimborsi.
Ciò bastò perché gli enti finanziatori immediatamente aumentassero i tassi dei prestiti a tutti i Paesi debitori, dal 4 al 20%, provocando, innanzitutto, un forte aumento del loro debito pubblico complessivo (da 223 miliardi di dollari nel 1980 a 443 nel 1991) cui fece riscontro un gigantesco trasferimento di denaro verso gli stessi enti, e, secondariamente, un abbassamento del reddito medio pro-capite di tutta l'area ai livelli degli anni '70.
Ancora dietro precise sollecitazioni, a questo punto molti Paesi stipularono con il FMI nuovi prestiti, da questo peraltro condizionati alla adozione di precise riforme neoliberali intese a ridurre la presenza dello Stato nell'economia, ed a modificare profondamente l'ordine sociale stabilito:
a.- drastica riduzione delle spese di bilancio,
b.- riduzione dei servizi pubblici ed aumento dei relativi costi per l'utenza,
c.- estese privatizzazioni,
d.- cessioni di beni pubblici,
e.- aumento delle imposte,
f.- eliminazione delle barriere, dirette e indirette, agli investimenti esteri.
Come si può constatare, queste regole hanno sopratutto una valenza politica atta ad attribuire posizioni di privilegio e dominante potere decisionale ai detentori di grandi capitali finanziari.
Sono state intenzionalmente provocate delle crisi finanziarie nei Paesi debitori, allo scopo di obbligarli a sovvertire il loro modello sociale per sostituirlo con un altro, conforme ai principi ed ai "valori" del neoliberalismo.
Soprattutto, si tratta dello stesso schema di regole che viene ora imposto ai Paesi Ue (ed ancora una volta con il sostegno del FMI, che opera in stretto contatto con la Commissione europea e la Bce).
Vedremo però che, nel caso della Ue, vi è qualcosa di più e di diverso.
E' opportuno qui rammentare che l'imposizione delle richiamate "condizioni" costituisce prassi costante del FMI, che ad esse fa sempre riferimento per qualunque prestito, quale che sia il Paese richiedente e il luogo del pianeta ove esso si trovi (per maggiori dettagli, v.: John Perkins, Confessioni di un sicario dell'economia).

Il riferimento teorico

Mentre in America latina si vedono applicati i principi del neo-liberalismo, che vorrebbe lo Stato fuori dall'economia, nella Ue ci si ispira ad una diversa dottrina, battezzata ordo-liberalismo.
Questa concezione, nata in Germania negli anni '30, pretende che sia lo Stato stesso ad organizzare la società, secondo un preciso ordine economico basato sulla concorrenza e l'iniziativa privata. Insomma, la legge della giungla dovrebbe essere imposta come norma istituzionale. Padri ne sono (tra gli altri) Walter Eucken e Franz Bohm.
Madre, invece, (ovvero il terreno di coltura), è quell'eterno miraggio tedesco della Grande Germania Uber alles, con il quale quella classe dirigente, sfruttando il bisogno di rivalsa (o il senso di inferiorità?) del popolo tedesco, lo ha sempre menato per il naso portandolo ai disastri storici che conosciamo tutti.
E' bensì vero che un pò tutti i popoli barbari al di là delle Alpi hanno sempre sofferto di un certo senso di inferiorità nei confronti del nostro Paese. Sia per l'immensa eredità, giuridica, artistica e culturale, di Roma e del Rinascimento, sia per l'incommensurabile patrimonio d'arte (pari a circa 50% del totale mondiale). Era del resto consuetudine delle classi colte di quei Paesi, formare il bagaglio culturale delle nuove generazioni con il "Gran Tour" nel nostro Paese, riferimento culturale di tutta l'Europa, e non solo (Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani).
Una inferiorità che trapela da una certa costante aggressività nei nostri confronti, evidenziata da una prontezza particolare a sottolineare i nostri difetti (e tacere dei loro) ed uno sforzo costante ad acquisire un maggiore sviluppo economico.
L'ordo-liberalismo ha trovato la sua applicazione pratica nella stessa Germania, con il consenso del partito social-democratico (che avrebbe dovuto invece contestarlo duramente). Ma tutti gli schieramenti politici, i sindacati e la stessa popolazione si mostrarono favorevoli, sempre in nome del Supremo Obbiettivo Nazionale, tutti ordinatamente schierati con fede, disciplina e obbedienza, caratteristiche tipiche del popolo tedesco (Tacito, De Germania). E ciò, anche se tutti i costi e gli svantaggi del Piano ricadevano solo sul popolo e sulle classi lavoratrici. Non se ne preoccupò quel governo, diligente e solerte tutore del finanz-capitalismo locale (in Germania vi è una forte simbiosi tra banche e industria). Anzi, recentemente, la Merkel ha sintetizzato la situazione affermando che "la democrazia è bella, ma deve essere conforme al mercato" (!!).

L'introduzione in Germania

Fu così che, nel 2003, il Cancelliere Schroder poté recepire i principi dell'ordo- liberalismo (da qualcuno chiamato nazi-liberalismo), varando un imponente piano di riforma, battezzato Agenda 2010, basato sulla riduzione della spesa per lo stato sociale ed il ridimensionamento delle prestazioni di assistenza, al fine di dirottare più risorse verso la crescita (a spese della popolazione attiva). Una serie di leggi attuative (dette leggi Hartz, dal nome del ministro proponente, ex dirigente Volkswagen...) tagliarono pensioni, indennità di disoccupazione e in generale tutte le forme di assistenza.
Più di un progetto economico, si tratto' di un vero programma politico, con gli aspetti di una lotta di classe. Le conseguenze furono che i redditi più elevati fruirono di riduzioni di imposta e di facilitazioni all'evasione, mentre la quota salari sul Pil scendeva dal 68 al 58%, con la differenza affluita a rendite e profitti. Sopratutto, è stata bloccata la crescita dei salari reali, schiacciando oltre un terzo dei lavoratori sotto la soglia di povertà. Pur con una produttività (ovviamente) in crescita, ed immensi profitti per le grandi aziende, i lavoratori poveri in Germania sono arrivati a 11 milioni, pari ad un quarto della forza lavoro complessiva (la percentuale più alta d'Europa).
Con l'unificazione, la Germania ha anche fruito di un colossale flusso dalle aziende dell'Est, di semilavorati a basso prezzo. Una situazione complessiva che, unitamente alla compressione dei salari e al calo della domanda interna, ha determinato – per i prodotti dell'industria tedesca – un tasso reale di scambio notevolmente più basso (secondo la comune valutazione addirittura del 20%), rispetto ai Paesi Ue, verso i quali più intensi sono sempre stati i rapporti commerciali.
Questa politica di esasperata incentivazione delle esportazioni, è da notare, viola i Trattati europei e, in particolare, il principio stabilito dal c.d. Excessive imbalance procedure che prevede che un Paese debba essere sottoposto a indagine quando evidenzia una bilancia commerciale fortemente eccedente.
Nessuna procedura è peraltro mai stata attivata contro la Germania.
Comunque, tutto ciò ha provocato un forte surplus delle partite correnti tedesche, che ha costretto i Paesi importatori a consistenti esborsi, in buona parte realizzati con titoli pubblici, che sono poi finiti nelle banche tedesche.
Anche qui, come già in America latina, emergono forzature inquietanti ma significative. Nel 2009, quando la Grecia chiese un finanziamento al FMI, questo - unitamente alla Germania - la obbligò a comprare da quest'ultima, accettando in pagamento titoli pubblici, costosissimi sommergibili ed altri armamenti. Ben sapendo che ciò l'avrebbe condotto ad una crisi del debito, ma consegnando il Paese alle "condizioni" che già conosciamo ed alle quali il prestito venne sottoposto.
Tutti questi titoli sono andati a sommarsi, nelle casse delle banche tedesche, alle colossali quantità di titoli tossici (e quindi non vendibili) da queste dissennatamente creati negli anni pre-crisi per accumulare profitti, e determinando squilibri contabili vertiginosi (che hanno indotto quel governo a fornire loro aiuti per 600 miliardi di euro e che le rendono estremamente fragili).
Si è così venuta a determinare una situazione fortemente critica, per tutto il sistema produttivo tedesco (data la forte commistone fra banche e imprese), che rendeva imperativo che almeno di questi titoli sovrani fosse garantito il pagamento, evitando che qualche Paese debitore dichiarasse default, e facesse crollare il sistema.
Per questi motivi, il nazi-liberalismo è stato imposto dalla Germania alla Ue, affinché gli Stati membri provvedessero a specifiche riforme atte a ridurre la presenza pubblica nell'economia, così da assicurare solidità ai bilanci (dando a credere che queste regole fossero necessarie per salvare l'euro e la Ue, quando invece sono servite solo a provocare una recessione senza precedenti).
Ma, al di là di queste pur impellenti esigenze contingenti, in gioco c' è la ristrutturazione della società secondo il modello disegnato dalla teoria ordoliberale.
Silenziosamente, e progressivamente, un identico quadro normativo è stato recepito e posto in atto in Italia sotto la spinta delle pressioni Ue.
L'aliquota fiscale massima è scesa dal 72 al 43%, il reddito dei cittadini più ricchi è salito dal 7% dal 1980 al 10% nel 2008. Il 10% più ricco possiede il 45% della ricchezza del Paese. Con interventi normativi graduali (da Dini alla Fornero), le pensioni sono state quasi azzerate, diverse successive leggi hanno consegnato il lavoratore nelle mani del datore di lavoro. Identico procedimento di erosione e di stravolgimento culturale ha subito l'istruzione (dalla Moratti a Renzi): azzoppata quella pubblica, è stata facilitata quella privata. Tagli e riduzioni hanno colpito duramente anche la sanità, in attesa di quella completa privatizzazione attesa con ansia da assicurazioni, imprese farmaceutiche e fondi di investimento.
Perfino inutile a questo punto ricordare (Gallino) che le riforme punitive dello stato sociale hanno violato e violano espressamente la Costituzione (in particolare gli artt. 36 e 38) laddove essa statuisce il diritto del lavoratore "ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sè e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa", e dove viene sancito il diritto dei lavoratori medesimi a che "siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria".
Egualmente superfluo rammentare, visto l'atteggiamento di sorda determinazione delle istituzioni Ue, che le ripetute riforme sono in aperto contrasto anche con gli stessi Trattati europei, che esplicitamente tutelano fondamentali diritti, civili, economici e sociali. Valga per tutti lo Statuto firmato a Roma, ma sono da citare altresì il Patto per i diritti economici, sociali e culturali, la Carta europea dei Diritti fondamentali, la Carta sociale europea, la Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, l'art. 6 del Trattato dell'Unione europea, l'art. 9 del Trattato sul funzionamento dell'Unione.
Non sarebbe inutile a questo punto un promemoria da inviare sia ai nostri politici (che probabilmente i Trattati non li hanno mai letti), sia agli esponenti istituzionali europei.
In ossequio dunque a sollecitazioni esterne, sono state demolite le pensioni (pagate peraltro dai contributi di impiegati e imprese per oltre il 90%), distrutto il diritto del lavoro con le sue tutele per i lavoratori, nonché la scuola, la sanità, i trasporti, ecc., secondo un disegno complessivo che prevede di:
- creare un'occupazione precaria molto estesa che, seminando insicurezza, disincentivi le richieste di aumenti salariali.
- ridurre le imposte sui redditi elevati.
- comprimere i redditi da lavoro.
- tagliare le indennità di disoccupazione, (disincentivano!).
- ridurre i sostegni al reddito di inabili e disoccupati.
- trasformare la scuola in una impresa e l'istruzione in uno strumento, non per formare cittadini consapevoli, ma "capitale umano" per le imprese, curando la cancellazione di ogni istanza di pensiero critico.
E qui è la base delle sciagurate riforme Moratti, Gelmini e Giannini, con il taglio, tra l'altro, di oltre 90 mila docenti, 30 mila ausiliari e 10 miliardi di fondi.
Il tema dell'istruzione è oggetto di particolare ed insistita attenzione da parte dei fautori nel neo-ordo-liberismo.
Il sistema scolastico deve funzionare come una fabbrica, nella quale ognuno deve produrre competenze utili al Pil.
Il modello di cittadino che si vuole realizzare è quello "dell'uomo competititvo, che cerca solo di raggiungere il massimo della ricchezza e del potere, che si sottomette ai rapporti di mercato, allo sfruttamento ed alla autorità esterna" (Chomsky).
Qui però andiamo oltre un sistema di norme vincolanti e principi regolativi. L'intento è di plasmare le menti delle nuove generazioni, modellandovi direttamente lo schema di vita e di principi del neo-ordo-liberalismo, così da sottrarlo a qualunque analisi critica. Una operazione paradossale che ricorda quella ideata da Huxley nel suo The brave new world, anche se attuata, questa volta, non a livello embrionale, ma nella fase dell'apprendimento.
Un progetto raccapricciante che non solo rinnega la vera essenza dell'uomo, cioè la libertà e la sua coscienza di questa libertà (Schelling), che di per sè rinnega l'automatismo del mercato che "non potrebbe esistere neppure un istante senza annientare la sostanza umana" (K.Polanyi) ed il suo scopo: raggiungere "lo sviluppo più alto e correlato alle sue facoltà" (Humboldt), ma altresì disconosce la finalità propria della società: creare condizioni e forme sociali tali da garantire la libertà, la diversità e l'autorealizzazione dei cittadini.
L'Ocse, non richiesto, ha addirittura predisposto uno schema di valutazione dei sistemi scolastici nazionali e delle università, ed ogni anno se ne esce con delle graduatorie mondiali (!), basate naturalmente sui parametri e criteri che esso stesso ha stabilito e che ormai conosciamo.
Per fortuna, il nostro Paese non è (finora...) elencato fra gli primi della classe.
Analogie e convergenze, per non dire evidenti identità, tra Europa e America latina, nonchè la regia per entrambe del FMI (e il concorso di altri enti internazionali), sottolineano questo disegno unico e fortemente sovversivo.
Scopre impietosamente queste trame un recente documento (fornito da Wikileaks), che rivela un preciso piano del FMI per provocare un'altra crisi del debito in Grecia, in quanto le riforme già richieste tardano ad essere introdotte: "sottoposto alle giuste pressioni, il governo cederà, come è già successo in passato, quando è rimasto senza soldi" (Thomson, direttore FMI per l'Europa, in videoconferenza con la responsabile dell'ente in Grecia, Delia Velculescu).
Si vogliono, al più presto, imposizioni fiscali ridotte, vincoli ambientali minimi, bassi salari, privatizzazioni totali, abolizione dei servizi pubblici, controllo dell'istruzione e riduzione dell'area sociale della scolarizzazione, nonchè una totale libertà di investire in qualunque area e settore.
Ben oltre la Grecia, dunque, l'obbiettivo finale, in linea con la globalizzazione già in atto, è di pervenire, a livello planetario, a formare ovunque, in tutti i Paesi, dei modelli sociali e normativi uniformi, finalizzati a consentire l'ottenimento dei massimi profitti per il grande capitale nel quadro dei migliori presupposti possibili per qualsiasi tipo di investimento.
Dietro le spalle dei cittadini e del tutto al di fuori di un loro anche minimo concorso, si sta stravolgendo il loro plurimillenario sistema di vita spontaneo e la cultura che ne è alla base, operando profonde modifiche nel loro modo di vivere, nelle loro scelte più elementari, nel loro progetto di vita, nelle loro potenzialità ed obbiettivi, nella loro stessa salute.
Con la complicità di politici stolidamente distratti, si pensa di trasformare l'umanità in una Disneyland di automi.


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