Data: 08/04/2016 06:00:00 - Autore: Lucia Izzo
di Lucia Izzo - Ammesse le intercettazioni ambientali tramite "captatore informatico" (trojan) installato sul tablet dell'indagato per associazione di tipo mafioso. 
Il Tribunale di Palermo, sezione per il riesame, ha confermato, attraverso un'ordinanza dello scorso 11 gennaio (qui sotto allegata), il provvedimento del G.I.P. che aveva applicato nei confronti dell'indagato la misura della custodia cautelare in carcere, in quanto sussistenti gravi indizi di colpevolezza.

In sede di riesame, la difesa ha proposto istanza ex art. 309 c.p.p. deducendo l'inutilizzabilità delle risultanze delle intercettazioni ambientali disposte con decreto autorizzativo, in violazione degli artt. 15 Cost., 8 CEDU, 266, co. 2 e 271 c.p.p., nonché  l'insussistenza di gravi indizi di colpevolezza, con conseguente richiesta di annullamento del titolo.

In particolare la difesa ritiene che l'autorizzazione al P.M. di "disporre le operazioni d'intercettazione di tipo ambientale delle conversazioni tra presenti che avverranno nei luoghi in cui si trova il dispositivo elettronico in uso" sia illegittima perché l'avere legato la captazione ad un apparecchio elettronico (tablet), ovunque esso si trovi, la estenderebbe anche in un luogo di privata dimora, aggirando l'obbligo di motivazione sulla attualità dell'attività criminosa in quel luogo.

A ciò si aggiunge la ritenuta genericità dell'autorizzazione ("all'interno dei luoghi in cui è ubicato il seguente apparecchio") che, non circoscrivendo e individuando i luoghi della captazione e così consentendola "in qualsiasi luogo si rechi il soggetto, portando con sé l'apparecchio", non sarebbe ammissibile, richiedendo l'art. 15 della Costituzione, l'art. 266, co. 2, c.p.p. e l'art. 8 CEDU che nelle intercettazioni ambientali venga specificato il luogo delle conversazioni al fine di dare garanzia effettiva, con riserva di legge e riserva di giurisdizione, alla compressione di valori inviolabili quali la libertà e la segretezza delle comunicazioni.

Sul tema, invero assai delicato, il giudice ha precisato che, quanto alla prima doglianza, siccome si procede per il delitto di cui all'art. 416 bis c.p., non sia affatto obbligatorio motivare sul fatto che vi sia fondato motivo di ritenere che nella privata dimora si stia svolgendo l'attività criminosa.

Per risolvere la seconda questione, invece, il Collegio ritiene che il provvedimento autorizzativo del G.I.P. contenga comunque nel caso concreto, sufficienti e specifiche garanzie contro un'indiscriminata intrusione dell'attività investigativa nella libertà e segretezza delle comunicazioni, delineandone con precisione le coordinate ed i confini.

Dal contenuto della motivazione del decreto di autorizzazione all'intercettazione, infatti, non solo si evince la specificazione del rapporto di pertinenzialità tra il dispositivo intercettato ed il reato per cui si procede (consumato proprio attraverso le comunicazioni telematiche e quelle tra tutti i soggetti presenti al momento dell'uso del suddetto tablet), ma anche dei luoghi, che si indicano "nella stanza" in cui il dispositivo "è ubicato in quel momento"; si escludono, quindi, tutte le altre stanze della privata dimora dell'indagato e, contrariamente all'assunto difensivo, si aumentano le garanzie di privacy che avrebbe, di contro, offerto un'intercettazione ambientale al domicilio tout court.

Tale delimitazione garantisce che le conversazioni intercettate abbiano ad oggetto non vicende private della famiglia o dei loro ospiti (si ricorda, a tal proposito, che il trojan inserito in un pc non arriva ad intercettare a dieci metri di distanza), ma solo e soltanto l'attività criminosa svoltasi per mezzo e, per così dire, intorno al tablet usato per l'attività criminale, delimitando, quindi, ulteriormente l'ambito spaziale di intrusione nell'altrui sfera riservata.

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