Data: 10/04/2016 18:00:00 - Autore: Lucia Izzo
di Lucia Izzo - Il lavoratore ha diritto di accedere al proprio fascicolo personale e può a tal fine ricorrere al Garante della Privacy: si tratta di un diritto tutelabile in quanto tale perché inerente a una posizione giuridica soggettiva che trae la sua fonte dal rapporto di lavoro.

Inoltre, il dipendente può anche chiedere l'intervento del giudice affinché controlli che le valutazioni datoriali di rendimento e capacità professionale, espresse con le note di qualifica, siano formulate nel rispetto dei parametri oggettivi previsti dal contratto collettivo e degli obblighi contrattuali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375, cod. civ., oltre che della inerente necessaria trasparenza.

Lo ha disposto la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza 6775/2016 (qui sotto allegata), accogliendo la domanda di una lavoratrice.
La dipendente aveva subito un intervento all'occhio che non le consentiva di riprendere le sue mansioni comportanti l'uso di videoterminali.
Trasferita, per motivi di salute, a un nuovo servizio, rilevava che le proprie schede di valutazione annuali contenevano giudizi critici e di inadeguatezza, mentre in precedenza aveva sempre ottenuto giudizi lusinghieri sulla propria prestazione professionale: pertanto, la donna contestava tali valutazioni sfavorevoli, chiedendo ripetutamente all'azienda di conoscerne le motivazioni. 

Non ricevendo risposta alle proprie richieste, la dipendente si è rivolta al Garante per la protezione dei dati personali onde ottenere che venisse ordinato alla datrice di lavoro di metterle a disposizione il proprio fascicolo personale con i documenti ivi custoditi. 
Nonostante l'intervento dell'Autorità, la lavoratrice otteneva solo un accesso parziale e le venivano messi a disposizione dati incompleti e documenti mancanti all'interno della sua cartella personale.
Da qui il ricorso in sede giurisdizionale per chiedere al giudice di ordinare all'azienda di metterle a disposizione tutti i dati personali ovunque conservati, anche presso società terze e di consentirle di integrare ai sensi dell'art. 13, lettera c, della legge n.675 del 1996, i propri dati personali in caso di mancanze; a queste si aggiungevano le richieste di risarcimento del danno.

Chiamata a decidere della faccenda, la Corte premette che, essendo stato il giudizio introdotto con ricorso dell'agosto 2002, la disciplina ratione temporis applicabile è quella della legge 31 dicembre 1996, n. 675, nel testo aggiornato con le modifiche che rilevano. 
Per gli Ermellini, il diritto soggettivo del lavoratore di accedere al proprio fascicolo personale è tutelabile in quanto tale perché si tratta di una posizione giuridica soggettiva che trae la sua fonte dal rapporto di lavoro (arg. ex Cass. SU 4 febbraio 2014, n. 2397). 

L'obbligo del datore di lavoro di consentirne il pieno esercizio, prima ancora che nella legge n. 675 del 1996 (nella specie applicabile ratione temporis), deriva dal rispetto dei canoni di buona fede e correttezza che incombe sulle parti del rapporto di lavoro ai sensi degli artt. 1175 e 1375 cod. civ.; ciò del resto è confermato dal fatto che, da tempo, la contrattazione collettiva dei diversi settori prevede che i datori di lavoro debbano conservare, in un apposito fascicolo personale, tutti gli atti e i documenti, prodotti dall'ente o dallo stesso dipendente, che attengono al percorso professionale, all'attività svolta e ai fatti più significativi che lo riguardano e che il dipendente ha diritto di prendere visione liberamente degli atti e documenti inseriti nel proprio fascicolo personale

Ciò non esclude, ma anzi rafforza, il diritto del lavoratore di rivolgersi al Garante per la protezione dei dati personali tutte le volte in cui intenda ottenere, in tempi ragionevoli, alcuno dei provvedimenti, di natura provvisoria o definitiva, previsti dall'art. 13 della legge n. 675 del 1996 cit. al fine di ottenere, ad esempio, l'integrazione dei dati personali detenuti dal datore di lavoro con documenti ulteriori, che attestino valutazioni di merito o che comunque a suo avviso rilevino in ogni caso, restando salva la discrezionalità del datore circa le modalità di utilizzo di dette integrazioni. 

Ha sbagliato, quindi, la Corte d'Appello a ritenere che vi fosse una duplicazione di domande a carico della donna: infatti l'alternatività tra Garante e autorità giudiziaria è un problema che riguarda esclusivamente le domande aventi un "identico oggetto", che devono essere intese come quelle che se, in ipotesi, pendenti contestualmente davanti a più giudici, possono, in via generale, essere assoggettate al regime processuale della litispendenza o della continenza.

Ne consegue che tutte le volte che, in sede giurisdizionale, si fa valere l'inottemperanza da parte del gestore dei dati personali rispetto ai provvedimenti assunti dal Garante e/o viene proposta una domanda di risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale (che ha causa petendi e petitum specifici e del tutto diversi rispetto alle ragioni fatte valere con il ricorso al Garante di cui si è detto) non può certamente ipotizzarsi l'applicazione del suddetto principio di alternatività delle tutele.

Stante il diritto soggettivo del lavoratore, concludono i giudici, che gli consente di accedere al proprio fascicolo personale tenuto dal datore di lavoro, costui ben può adire l'autorità onde ottenere il controllo della conformità del procedimento seguito per la formulazione delle suindicate valutazioni ai suddetti parametri, gravando sul datore di lavoro l'onere di motivare le note di qualifica medesime, per permettere lo svolgimento di tale controllo giudiziale.

Il giudizio non è limitato alla mera verifica della coerenza estrinseca del giudizio riassuntivo della valutazione, ma ha ad oggetto la verifica della correttezza del procedimento di formazione del medesimo, sicché esso richiede di prendere in  esame i dati sia positivi che negativi rilevanti al fine della valutazione, non potendo invece tenersi conto di quelli estranei alla prestazione lavorativa, comportando la violazione del suddetto obbligo datoriale la conseguenza, che, la valutazione stessa debba ritenersi non
avvenuta.

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