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Data: 10/04/2016 19:29:00 - Autore: Lucia Izzo di Lucia Izzo - È la colpa grave del magistrato a fondare la responsabilità prevista dalla legge 13 aprile 1988 n. 117, attraverso ipotesi specifiche tipizzare dall'art. 2 di tale normativa, tutte riconducibili al comune fattore della negligenza inescusabile che implica, tuttavia, la necessità di un quid pluris rispetto alla colpa grave delineata dall'art. 2236 codice civile, ossia una colpa "non spiegabile". Lo ha rammentato la Corte di Cassazione, sez. III Civile, nella sentenza n. 6791/2016 (qui sotto allegata). Il ricorso origina da un decreto con cui la Corte di appello di L'Aquila ha rigettato il reclamo, proposto ai sensi della legge n. 117 del 1988 da un'azienda avverso il decreto del Tribunale della stessa città che, a sua volta, aveva dichiarato inammissibile, ai sensi dell'art. 5 della suindicata legge, l'azione risarcitoria promossa dalla stessa società in relazione alla condotta del giudice unico del Tribunale di Ancona. Il giudice del gravame osservava che la decisione del giudice unico, seppure ritenuta erronea in secondo grado, si era comunque estrinsecata in una attività interpretativa di norme di diritto sottratta all'area della responsabilità di cui alla legge n. 117 del 1988. Gli Ermellini evidenziano che è jus receptum che la responsabilità prevista dalla legge 13 aprile 1988 n. 117, ai fini della risarcibilità del danno cagionato dal magistrato nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, è incentrata sulla colpa grave del magistrato stesso, tipizzata secondo ipotesi specifiche ricomprese nell'art. 2 della citata legge (nel testo, applicabile ratione temporis alla presente controversia, previgente alla novella di cui alla legge n. 18 del 2015). Tali ipotesi specifiche sono riconducibili al comune fattore della negligenza inescusabile, che implica la necessità della configurazione di un quid pluris rispetto alla colpa grave delineata dall'art. 2236 cod. civ., nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti come "non spiegabile", e cioè priva di agganci con le particolarità della vicenda, che potrebbero rendere comprensibile, anche se non giustificato, l'errore del magistrato. In altri termini, i presupposti della responsabilità si hanno se nel corso dell'attività giurisdizionale si concretizzi una violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma stessa ovvero una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico o con l'adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o ancora lo sconfinamento dell'interpretazione nel diritto libero. Ciò è quanto si riscontra nella pronuncia impugnata dalla società ricorrente resa dal giudice unico di Ancona che ha postulato l'inefficacia, in astratto, di successive "contestazioni" dei vizi dell'immobile costruito ai fini dell'interruzione del termine annuale di prescrizione di cui all'art. 1669, secondo comma, cod. civ. ("Il diritto del committente si prescrive in un anno dalla denunzia"). In sostanza il giudice ha escluso che la prescrizione di quel termine annuale potesse essere interrotta perché altrimenti esso non maturerebbe mai, venendo in tal modo a disconoscere la funzione stessa dell'istituto dell'interruzione di cui all'art. 2943 cod. civ. Ciò che, dunque, viene in rilievo nel caso in esame, portando ad accogliere il ricorso, è una abnorme ed inspiegabile trasposizione dell'istituto della decadenza in quello della prescrizione. |
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