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Data: 04/05/2016 16:00:00 - Autore: Lucia Izzo La casa coniugale in comproprietà non produce alcun reddito e pertanto non può essere considerata indicativa di proprietà immobiliare in capo al coniuge al fine di ridurre o revocare l'assegno divorzile che il giudice ha stabilito nei suoi confronti. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sesta sezione civile, nell'ordinanza n. 8158/2016 (qui sotto allegata). Il ricorrente aveva chiesto che venisse riformata la sentenza che, definitivamente pronunciando sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio con la moglie, aveva posto a suo carico un assegno divorzile pari a 450 euro da corrispondere mensilmente alla consorte, un ulteriore assegno di euro 400 per il mantenimento di ciascuno dei figli maggiorenni, ma non autosufficienti, oltre al rimborso del 50% delle spese straordinarie, assegnando la casa coniugale all'ex moglie. Tuttavia, la Corte d'Appello adita aveva ritenuto congrue le somme stabilite dal tribunale per l'assegno divorzile e di mantenimento, confermando le precedenti statuizioni, da qui il ricorso in sede di legittimità. Il ricorrente contesta, tra l'altro, che nella determinazione dell'assegno divorzile i giudici di merito non avrebbero esaminato la sua situazione reddituale, peggiore rispetto a quella della ex moglie, nonché le condizioni economico patrimoniali della stessa e in particolare le sue proprietà immobiliari in cui rientra anche la casa coniugale di cui la coppia era comproprietaria. Per gli Ermellini, tuttavia, la dedotta omessa valutazione relativa ai cespiti immobiliari è del tutto infondatamente prospettata. In ordine alla casa coniugale, precisano i giudici, la comproprietà non è produttiva di alcun reddito che possa, quindi, essere valutato al fine di una riduzione dell'assegno dovuto all'ex moglie. Per quanto riguarda la generica indicazione della proprietà d'immobili in Siria, l'impossibilità di valutarne la rilevanza patrimoniale, alla luce della situazione attuale in cui versa il paese, giustifica ampiamente l'omesso rilievo operato dal giudice del gravame. Infondate sono anche le censure circa le condizioni patrimoniali della donna: la Corte evidenzia che il reddito da lavoro dipendente di quest'ultima non le consente di conservare un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, da qui la legittimità dell'assegno divorzile anche per quanto riguarda la sua quantificazione. Pertanto, il ricorso va rigettato integralmente.
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