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Data: 16/06/2016 17:00:00 - Autore: Lucia Izzo di Lucia Izzo - Offese "indubbiamente gravi" quelle a sfondo sessuale rivolte dal marito all'ex moglie, e quel che è peggio è che le accuse alla madre sono avvenute innanzi alle figlie minori, cagionando alle piccole "sofferenze e penose condizioni di vita, in costante ansia al momento di dover uscire con il padr"e. Nonostante ciò, non può parlare di "maltrattamenti" poichè si è trattato di tre episodi isolati e quindi difetta il necessario requisito dell'abitualità. Lo ha disposto la Corte di Cassazione, II sezione penale, nella sentenza n. 24375/2016 (qui sotto allegata) accogliendo il ricorso di un uomo contro la sentenza del Tribunale di Milano che aveva rideterminato la pena a lui inflitta in 9 mesi di reclusione, modificando l'originaria imputazione, a causa della sequela di ingiurie nei confronti della moglie alla presenza delle figlie minori. Per il giudice a quo, come confermato dalle dichiarazioni della madre e delle testimoni della comunità in cui all'epoca si trovano le bambine, il comportamento dell'uomo integra il reato di cui all'art. 572 c.p. che prescinde da una volontà vessatoria diretta nei confronti dei figli minori che ne siano vittime. Tuttavia, l'uomo ne esce pulito dopo l'intervento della Cassazione che, in prima battuta, rileva ex officio la sopravvenuta abrogazione del reato di ingiuria e, in secondo luogo, accoglie la doglianza con la quale il ricorrente lamenta l'assenza dell'abitualità dei comportamenti. Il delitto di maltrattamenti, spiegano i giudici, può essere configurato anche nei confronti dei figli allorquando la condotta sia rivolta contro la sola convivente e madre dei minori, poiché lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all'interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere dei soggetto attivo, i quali ne siano tutti consapevoli, a prescindere dall'entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi. D'altronde, nel delitto di maltrattamenti in famiglia, il dolo è generico, sicchè non si richiede che l'agente sia animato da alcun fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva Tuttavia, costituisce principio di diritto acquisito quello secondo il quale, ai fini della sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia punito dall'art. 572 cod. pen., è necessario che gli atti di vessazione fisica o morale siano ripetuti nel tempo e connotati dal requisito della abitualità. Si tratta infatti di una fattispecie necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), i quali acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo. Nel caso di specie, le condotte maltrattanti, consistite in pesanti offese a sfondo sessuale all'indirizzo della moglie e madre delle figlie in presenza di queste ultime, venivano poste in essere durante il periodo nel quale la ex moglie e le minori erano ospitate in una Comunità, in un arco temporale brevissimo (dal 12 dicembre 2009 al 7 gennaio 2010) e, per quanto più rileva, in sole tre occasioni. Ritiene il Collegio che, avendo riguardo al contesto storico ed ambientale delle condotte (durante una telefonata e gli incontri in comunità) e, soprattutto, al fatto che le offese, indubbiamente gravi, venivano formulate in tali sporadiche occasioni, non possa ritenersi sussistente il requisito dell'abitualità. Pertanto, la sentenza è annullata senza rinvio.
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