Data: 15/07/2016 17:30:00 - Autore: Francesco Marangolo

di Francesco Marangolo - Data la rilevanza della questione, per i diritti costituzionalmente garantiti e la profondità – ed implicita efficenza – dello strumento preso in considerazione ai fini d'indagine, la Sezione Sesta penale della Corte di Cassazione ha deciso di rimettere alle Sezioni Unite la soluzione in tema di captatore informatico e conseguente utilizzabilità - e liceità - delle risultanze probatorie.

Le S.U. – con una soluzione facilmente prevedibile sin dall'ordinanza di remissione – hanno optato per una via ermeneutica che, di fatto, va ad introdurre un vero e proprio nuovo strumento di indagine – estremamente invasivo – oltre a limitare il controllo giurisdizionale (e di legalità) in merito ai luoghi in cui le intercettazioni in oggetto (qualificate come "ambientali" dalla stessa Corte) possano essere effettuate e, consequenzialmente, utilizzate in giudizio; la delicatezza dello strumento di'indagine – l'intercettazione in genere, ambientale o telefonica – sul tema della violazione e tutela dei diritti costituzionali, richiede dei limiti di utilizzabilità delle risultanze probatorie, determinati dalla scelta di garantire come inviolabili alcune sfere personali del soggetto.

La tecnica in questione – invio in remoto di un virus autoinstallante, il c.d. "trojan horse" che permetta di acquisire informazioni (registrare conversazioni e video, tra l'altro) tramite l'utilizzo dell'apparecchio (smartphone, tablet, PC) "infettato" – è stata, in via preliminare, individuata come incompatibile con una definizione pregressa dei luoghi in cui l'attività di intercettazione avverrà; in tal senso, si è sottolineato, lo strumento "per ragioni tecniche prescinde dal riferimento al luogo, in quanto è collegata al dispositivo elettronico, sia esso smartphone, tablet ovvero computer portatile, sicché l'attività di captazione segue tutti gli spostamenti nello spaziodell'utilizzatore".

Questa natura instabile ed imprevedibile (in relazione al luogo) dello strumento di captazione, o forse addirittura di acquisizione – termine più coerente con lo strumento in questione, rispetto ad "intercettazione" – ha, sin da subito, sollevato non pochi dubbi in tema di utlizzabilità delle risultanze probatorie; ciò per la presenza dei limiti predisposti dagli artt. 14 e 15 della Costituzione, in tema di inviolabilità della sfera personale del soggetto in determinati luoghi, e dai conseguenti limiti predisposti dal cod. proc. pen. agli artt. 266, 2 co. e 267. Ci riferiamo, in specie, alla presenza della riserva di legge e riserva di giurisdizione – ai fini dell'utilizzabilità dello strumento prima, e delle risultanze poi – enunciati sin dal dettato costituzionale.

E tali dubbi, in realtà, sono stati chiaramente indicati dalla stessa Corte a Sezioni Unite; motivo che ha spinto gli stessi giudici di legittimità ad escludere lo strumento oggetto di analisi dal novero dei mezzi investigativi, eccetto un unico caso in cui, l'acquisizione, resterebbe del tutto legittima, pur se avvenuta nei luoghi sottoposti a tutela costituzionale ex art. 614 cod.pen. (art. 14 Cost.). La tesi delle S.U., a ben vedere, si fonda sull'art. 13 del D.L. 152/91 (coordinato con la L. 203/91), che consente – in deroga al limite in tema di intercettazioni ambientali e domicilio privato (effetuabili solo se si abbiano fondati motivi di ritenere che si stia svolgendo l'attività criminosa) – di utilizzare lo strumento senza limitazioni, ove si tratti di indagini relative a delitti collegati alla criminalità organizzata. In tali ipotesi, quindi, anche il c.d. "captatore" sarebbe lecito a tutti gli effetti – ed utilizzabili le risultanze – poiché l'eventuale acquisizione di informazioni avvenuta in violazione dell'art. 14 Cost. sarebbe legittimata dalla previsione legislativa in oggetto, secondo il principio di legalità; medesima soluzione per quanto attiene alla riserva di giurisdizione: anche il controllo del giudice è presente, poiché si applicano le norme presenti per le intercettazioni in genere.

I problemi sorgono se si tiene conto di come la giurisprudenza di legittimità si sia approcciata ad altro strumento profondamente invasivo: le riprese video. In questo caso, è pacifica l'esclusione tout court dal novero del materiale probatorio lecito delle riprese effettuate presso il privato domicilio. A ciò si aggiunga che sono numerose le iniziative parlamentari finalizzate all'introduzione di questi "nuovi" strumenti investigativi, a dimostrazione che la scelta di ampliare la normativa preesistente ad i nuovi mezzi è strada impropria e rischiosa, tenendo conto della particolare tipologia di acquisizione che viene posta in essere. La criticità del captatore è data dalla stessa potenzialità dello strumento, capace di acquisire informazioni in qualsiasi luogo si trovi e tra chiunque partecipi alla conversazione; in quest'ottica non sarebbe – e concretamente non è – possibile chiarire nel decreto del P.M. il luogo preciso in cui l'intercettazione ambientale avverrà, ben potrebbe avvenire in domicilio di terzi. E poco rileva la precisazione della Corte che ha sottolineato la necessità che i luoghi debbano essere preventivamente e precisamente individuati, ciò non esclude il rischio di vere e proprie intercettazioni dai confini incerti. Questo comporta una violazione del principio di riserva di giurisdizione e, ancor prima, del principio di legalità. L'importanza dello strumento investigativo in oggetto richiederebbe da un lato una normazione chiara – non uno scarno, e giurisprudenziale, rinvio ad altre norme – dall'altro un bilanciamento con i principi che sia adeguato alle potenzialità di questo nuovo mezzo. La soluzione prospettata dalla Corte apre possibili scenari incontrollati; l'uso della clausola ex. Art 13 D.L. 152/91 non può comportare una riduzione delle garanzie predisposte dali artt. 266 e 267 cod. proc. pen. e, prim'ancora, dalla Costituzione.


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