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Data: 18/07/2016 19:30:00 - Autore: Roberto Cataldi di Roberto Cataldi - Albert Einstein aveva intuito che nel futuro le "macchine" sarebbero riuscite a risolvere tutti i problemi, ma era convinto che in ogni caso nessuna di esse avrebbe mai avuto la capacità di porne uno. Oggi che ci troviamo immersi nella tecnologia cominciamo anche ad avere il timore di esserne soppiantati specie dopo la notizia che la Baker & Hostetler, uno dei più conosciuti studi legali statunitensi, ha acquistato la licenza di Ross, la prima intelligenza artificiale configurata per occuparsi di pratiche legali. Una notizia che ha fatto in breve tempo il giro del mondo. A destare particolare clamore ha certamente contribuito la notorietà dello studio legale che ha assegnato al robot un ruolo importante nel suo organico confidando nella sua capacità di sostituire fino a 50 avvocati. E la Baker & Hostetler non sembra essere l'unico studio legale ad aver stipulato un accordo con Ibm. Da un'analisi condotta da Jomati Consultants (uno studio legale londinese) entro il 2030 i robot saranno massicciamente presenti e operativi nel settore legale per svolgere gran parte del lavoro con la conseguente drastica riduzione di associati ed assistenti. Insomma i robot potranno sviluppare molteplici competenze in ambito legale e oltretutto non sono soggetti a stanchezza, non fanno figli, non si ammalano (si limitano a guastarsi), non ambiscono a far carriera e non chiedono stipendi e aumenti. Ma siamo davvero sicuri che le intelligenze artificiali potranno davvero soppiantare il ruolo di un avvocato? L'intuizione di Einstein torna dunque attuale. I robot non raggiungeranno mai la capacità dell'essere umano che va ben oltre la freddezza matematica di un calcolo. E soprattutto non potranno mai essere dotati di una delle qualità tipicamente umane che rendono davvero grande un avvocato: l'empatia. Tutti coloro che hanno a che fare con il mondo della giustizia dovrebbero sapere che il proprio compito non è tanto quello di far rispettare le leggi, quanto quello di applicarle in modo "umano". E' un servizio che richiede un impegno profondo che va espletato tenendo presente quanto scritto da Mauro Cappelletti, ultimo allievo di Piero Calamandrei, a proposito del processo civile: esso va visto "come dramma umano e ricerca di giustizia piuttosto che come mero rapporto giuridico e la sentenza come risultato di una scelta responsabile e creativa, creazione della coscienza del giudice" (P. Barile, 1993, 200). Ci sono cose che al di là della conoscenza tecnica rendono insostituibile il ruolo dell'avvocato. E sono appunto le sue qualità umane, la capacità di ascolto del cliente, l'abilità di calarsi nei suoi panni e di comprendere tutte quelle sfumature della vicenda processuale che contribuiscono a rendere insostituibile la figura dell'avvocato. Solo un vero avvocato sa accogliere e ascoltare oltre le parole, sa comprendere emozioni, pensieri, verità e lati oscuri della psiche. Un computer potrà solo avere un ruolo "passivo" di elaboratore di dati. E l'empatia non dovrebbe essere solo un elemento di distinzione dalla freddezza di un computer ma anche un elemento che fa la differenza tra un azzeccagarbugli e un vero avvocato. L'empatia è l'elemento indispensabile affinché si possa instaurare un rapporto di fiducia con il cliente che, sappiamo bene, ha bisogno non solo di essere "ascoltato" ma anche di essere "compreso". Quando si parla di diritti facciamo sempre riferimento a una società civile che li riconosce proprio perché trasforma in legge positiva ciò che già fa parte della coscienza sociale e con quel sentimento della giustizia che, prima ancora che nelle leggi, risiede nel profondo dell'animo umano. Qual è dunque la strada da intraprendere? Scegliere l'uomo o la macchina? O meglio ancora: preferire l'umanità con tutti i suoi limiti o la perfetta freddezza del disumano? Non è forse stata questa freddezza, espressa con la totale mancanza di empatia, la principale causa dei mali del nostro mondo? "La macchina – scriveva Nietzsche - è impersonale, essa sottrae al pezzo di lavoro la sua fierezza, la sua individuale bontà e difettosità, quindi il suo pezzetto di umanità". Siamo ancora una volta di fronte ad un scontro con il concetto di progresso: recuperare il valore del filantropismo, tutelando il lavoro e le qualità umane del professionista oppure affidare il futuro alla tecnica di freddi interpreti di dati?
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