Data: 10/04/2021 22:00:00 - Autore: Lucia Izzo

Bruciare residui vegetali: una pratica diffusa

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Bruciare residui vegetali in genere, ad esempio stoppie, ramaglie e avanzi di potature, è una pratica agricola ancora molto diffusa in Italia, in quanto per molti anni si è trattato di un'attività lecita.

In diversi casi è autorizzata direttamente da provvedimenti locali (regionali, provinciali, ecc.) che stabiliscono determinate precauzioni e forniscono norme di comportamento per effettuare l'abbruciamento in sicurezza. Meglio quindi sempre verificare la presenza di un provvedimento locale per valutare come e soprattutto quando (poiché in alcuni periodi dell'anno, in particolare in estate, viene vietato) si può svolgere tale pratica.

Detto questo, in via generale la bruciatura in campo dei residui colturali è disciplinata da diverse fonti normative, a partire dal Codice ambientale, ed è permessa solo a condizioni particolari. Alla luce dei più recenti interventi normativi e giurisprudenziali, inoltre, prima di approcciarsi a una simile pratica è meglio avere ben chiare le necessarie cautele da adottare in quanto si rischia di incorrere in sanzioni civili, ma anche penali

Immissioni di fumo e incendio

In primis, si rammenta che l'art. 844 del codice civile punisce il proprietario di un fondo le cui immissioni di fumo nel fondo vicino superino la normale tollerabilità. Pertanto, un falò appiccato in prossimità della proprietà confinante, che generi fumi irrespirabili e insopportabili, potrebbe essere la "miccia" per una causa civile di risarcimento danni, anche se l'episodio è singolo o sporadico.

Invece, per quanto riguarda l'ambito penalistico, la materia in precedenza era regolata autonomamente dai Comuni che, per la maggior parte, prevedevano un divieto di accendere fuochi soltanto in un determinato periodo dell'anno, pena una sanzione amministrativa.

Il legislatore è poi intervenuto non solo per limitare il rischio incendi, ma soprattutto per quanto riguarda la qualificazione dei residui provenienti dalle attività di disboscamento, potatura, raccolta, pulizia di boschi, campi, ecc.: infatti, se questi vengono qualificati come "rifiuti", si richiede uno smaltimento conforme alle apposite procedure previste a seconda che siano classificati urbani o speciali o in base alla loro natura.

Cagionare un incendio

La Cassazione ha mostrato di tener conto dei pericoli che rischiano di derivare dalla bruciatura di rifiuti: gli Ermellini hanno ritenuto ad esempio integrato il reato di incendio, di cui all'art. 449 del codice penale (dunque cagionato "per colpa"), a causa del comportamento di chi aveva radunato e bruciato sterpaglie facendo sviluppare fiamme di vaste proporzioni e ad alto rischio di diffusività che di fatto avevano reso difficili le operazioni di spegnimento (cfr. Cass. n. 38983/2017).

Nella sentenza n. 13007/2021, invece, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza che aveva condannato un condomino per il reato di incendio ex art. 423 del codice penale commesso con dolo generico dopo aver dato fuoco a un cumulo costituito da sfalci e residui di potatura, servendosi anche di liquido infiammabile. Tuttavia gli Ermellini ritengono che manchi il dolo tipico di questo reato, posto che le condotte di cagionare un incendio si distinguono in ragione dell'atteggiamento soggettivo dell'agente.

In pratica si configura la fattispecie di cui all'art. 449 c.p. qualora l'incendio non sia in alcun modo voluto, ma sia causato da una condotta imprudente, negligente, contraria a leggi, regolamenti, ordini o discipline. Ricorrono, invece, rispettivamente la fattispecie prevista dall'art. 423 c.p. e quella di cui all'art. 424 c.p. laddove sussista in capo all'agente la volontà di cagionare siffatto evento lesivo o, invece, la volontà di danneggiare con il fuoco la cosa altrui, senza la previsione che le fiamme si propaghino in modo da creare un effettivo pericolo per la pubblica incolumità o il pericolo di detto evento.

L'imputato ottiene un nuovo giudizio in quanto la Corte territoriale ha sbagliato a desumere il "dolo generico" dalla sua decisione di accendere il fuoco necessario alle operazioni di pulizia e dalla pervicacia nel mantenerla ferma anche a fonte dei ripetuti avvertimenti delle persone presenti che lo mettevano in guardia dal pericolo di propagazione delle fiamme legato alla presenza di un forte vento.

Tale atteggiamento, spiega la Cassazione, "per quanto caparbiamente perseguito, non è, però, da solo decisivo ai fini dell'accertamento della consapevole volontà di provocare l'incendio" poiché non esclude, infatti, che l'agente si sia limitato a prevedere la concreta probabilità di estensione del fronte del fuoco, ed abbia quindi agito, continuando a bruciare le sterpaglie, confidando, sia pure in violazione delle regole di diligenza e precauzione, che l'evento lesivo di cui all'art. 423 c.p. non sarebbe comunque accaduto.

Il reato di combustione illecita di rifiuti

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Il cd. decreto Terra dei Fuochi, d.l. n. 136/2013 (convertito con L. n. 6/2014), al fine di reprimere le vicende criminose e dannose per l'ambiente che hanno messo in luce la situazione in Campania, ha introdotto il nuovo reato di "Combustione illecita di rifiuti".

Il reato, nella sua ipotesi base, punisce con la reclusione da due a cinque anni chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati o depositati in maniera incontrollata in aree non autorizzate.

Se ad essere bruciati illecitamente sono rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, come giardini, parchi e aree cimiteriali, si applicano le sanzioni amministrative pecuniarie previste dall'articolo 255 del Codice dell'Ambiente per l'abbandono di rifiuti (sanzione da 300 euro a 3.000 euro).

I residui vegetali sono rifiuti?

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Il nodo gordiano è sostanzialmente la qualificazione o meno dei residui vegetali come rifiuti.

Ai sensi di quanto originariamente stabilito dal codice dell'ambiente (decreto legislativo n. 152 del 2006), erano esclusi dall'ambito dell'applicazione della disciplina della gestione dei rifiuti soltanto le carogne ed i seguenti rifiuti agricoli: materie fecali ed altre sostanze naturali non pericolose utilizzate nelle attività agricole ed in particolare i materiali litoidi o vegetali e le terre da coltivazione, anche sotto forma di fanghi, provenienti dalla pulizia e dal lavaggio dei prodotti vegetali riutilizzati nelle normali pratiche agricole e di conduzione dei fondi rustici, anche dopo trattamento in impianti aziendali ed interaziendali agricoli che riducano i carichi inquinanti e potenzialmente patogeni dei materiali di partenza.

Nella vigenza di tale normativa, la Corte di cassazione (terza sezione penale, sentenza 4 novembre 2008, n. 46213) ha ritenuto che l'eliminazione, mediante incenerimento, dei rami degli alberi tagliati fosse da considerarsi illecita, non potendo essere qualificata come una forma di utilizzazione di tali materiali nell'ambito di un'attività produttiva, nonostante molti agricoltori avevano sottolineato il riutilizzo delle ceneri per concimare i campi.

L'art. 13 del d.lgs. n. 205/2010 ha poi modificato l'art 185 del Codice dell'ambiente (sulle "Esclusioni dall'ambito di applicazione), stabilendo che paglia, sfalci e potature effettuati nell'ambito delle buone pratiche colturali, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso non rientrino nel campo di applicazione della parte quarta del d.lgs. 152/2006 (che disciplina la gestione dei rifiuti) se utilizzati in agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa, anche al di fuori del luogo di produzione ovvero con cessione a terzi, mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana.

Relativamente alla combustione di residui vegetali si richiama la norma statale vigente (D.Lgs n. 152/06 - Testo Unico Ambientale) che prevede in generale il divieto di combustione rientrando nella disciplina dei rifiuti. Deroghe dall’applicazione di tale disciplina sono stabilite dall’art.182, comma 6 bis, del Testo Unico Ambientale per finalità agricole e tramite processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana.

Bruciare sterpaglie: quando è una "normale" pratica agricola

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Alla luce di questo nuovo quadro normativo, la giurisprudenza (cfr. Corte di Cassazione, terza sezione penale, sent. 7 marzo 2013, n. 16474) ha ritenuto che la combustione degli sfalci e dei residui da potatura, ove non abbia determinato un danno per l'ambiente o messo in pericolo la salute umana, rientri nella normale pratica agricola.

Il contrasto in materia, tra Stato e legislazioni regionali che hanno spesso autorizzato l'antica pratica agricola di cui si è parlato, ha portato l'intervento nel legislatore che con l'art. 14, comma 8, lettera b), del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91 (convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 116) ha modificato nuovamente il Codice dell'ambiente prevedendo che attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere, non superiori a tre metri steri per ettaro, dei materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti" (art. 182, comma 6-bis, del d.lgs.).

Al tempo stesso, il legislatore statale ha sempre vietato la combustione di residui vegetali agricoli "nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni", attribuendo ai comuni e alle altre amministrazioni competenti in materia ambientale "la facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione del materiale di cui al presente comma all'aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per la salute umana, con particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili (PM10)".

Ancora, sempre il d.l. n. 91/2014, come convertito, ha novellato l'art. 256-bis del Codice dell'ambiente, precisando che la disciplina sulla combustione illecita dei rifiuti non si applica all'abbruciamento di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato e che resta fermo quanto previsto dall'art. 182, comma 6-bis del medesimo codice dell'ambiente.

La modifica ha sostanzialmente riconosciuto la differenza tra le attività di gestione dei rifiuti e le consuetudinarie pratiche agricole di gestione sul luogo di produzione di piccoli quantitativi di scarti vegetali, una distinzione confermata dalla giurisprudenza che si è espressa a favore della liceità dell'attività di combustione di sterpaglie in piccoli cumuli.

Abbruciamento di residui vegetali: la giurisprudenza

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Addirittura, in materia è intervenuta la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 16/2015, che ha dichiarato non fondata la sollevata questione di legittimità costituzionale nei confronti di due leggi regionali che consentivano tale pratica agricola.

Per la Corte appare chiaro che, come attestato a più riprese dalla Corte di Cassazione (ex multis, terza sezione penale, sentenza 7 gennaio 2015, n. 76), l'art. 185, comma 1, lettera f), del codice dell'ambiente (e quindi anche le corrispondenti disposizioni della direttiva n. 2008/98/CE) consentiva (pure anteriormente all'introduzione del comma 6-bis all'art. 182) di annoverare tra le attività escluse dall'ambito di applicazione della normativa sui rifiuti l'abbruciamento in loco dei residui vegetali, considerato ordinaria pratica applicata in agricoltura e nella selvicoltura.

In sostanza, bruciare residui vegetali è ritenuto consentito, ma sempre consultando la normativa regionale, a cui è affidata la possibilità di controllare che ciò avvenga senza il minimo rischio di arrecare danno all'ambiente e alle persone.

Inoltre, di recente la Cassazione (sent. n. 56277/2017) è tornata a pronunciarsi in materia, precisando quando bruciare i residui vegetali integra la contravvenzione di gestione non autorizzata di rifiuti (art. 256, d. lgs. n. 152/2006).

Ciò avviene, secondo la Corte, laddove il materiale vegetale bruciato non sia stato prodotto nel terreno in cui avviene la combustione e laddove la combustione stessa non sia finalizzata al reimpiego come concime o ammendante dei residui, bensì alla mera eliminazione del rifiuto

Invece, gli Ermellini hanno rammentato che l'art.182, comma 6-bis, del d.lgs. n. 152/06 esclude che rientrino nell'attività di smaltimento, fase residuale della gestione di rifiuti, "le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione" in quanto costituenti "normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti".


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