Data: 06/08/2016 01:00:00 - Autore: Marina Crisafi

di Marina Crisafi - I decreti ministeriali che disciplinano il redditometro, a partire dal 1992 e sino al 2012, "sono illegittimi e nulli ai sensi dell'art. 21 septies della l. n. 241/1990 per carenza di potere e difetto assoluta di attribuzione, in quanto emanati del tutto al di fuori dei limiti individuati dalla normativa primaria e dei suoi presupposti e al di fuori della legalità costituzionale e comunitaria". Con queste parole, la Ctp di Catania, nella sentenza n. 473/13/16 (qui sotto allegata), ha letteralmente fatto a "pezzi" la disciplina del redditometro sotto numerosi profili, evidenziando la facoltà del giudice tributario di disapplicare i decreti che lo regolano con la consequenziale nullità degli atti impositivi basati sugli stessi. Accogliendo il ricorso di un contribuente, contro una serie di avvisi di accertamento Irpef delle Entrate, la commissione ha spiegato come l'illegittimità vada ricercata innanzitutto nell'utilizzo di "categorie concettuali ed elaborazioni non previste dalla norma attributiva, la quale richiede l'identificazione di categorie di contribuenti". I decreti invece non individuano tali categorie ma altro, sottoponendo indirettamente "considerata l'ampiezza dei controlli e il riferimento ai nuclei familiari, a controllo anche le spese riferibili a soggetti diversi dal contribuente e per il solo fatto di essere appartenenti al medesimo nucleo familiare". Ma non solo, si tratta di uno strumento discriminatorio, spiega la Ctp anche per la mancata previsione di una adeguata differenza territoriale tra cittadini che vivono in luoghi profondamente diversi in quanto a capacità di spesa (una cosa, ad esempio, è una metropoli, un'altra un piccolo centro). Lo strumento, infatti, ricolloca all'interno di ciascuna tipologia (suddivisa per cinque aree geografiche) figure di contribuenti del tutto differenti tra loro, non operando alcuna differenziazione tra cluster di contribuenti come disposto dall'art. 38 del dpr n. 600/1973 e dall'art. 53 della Costituzione.

Per non parlare poi del sindacato su tipologie di spesa che attengono ad aspetti personali e delicati, privando così il soggetto "del diritto ad avere una vita privata, di potere gestire autonomamente il proprio denaro e le proprie risorse, ad essere quindi libero nelle proprie determinazioni senza dover essere sottoposto all'invadenza del potere esecutivo e senza dover dare spiegazioni dell'utilizzo della propria autonomia e senza dover subire intrusioni anche su aspetti delicatissimi della vita privata, quali quelli relativi alla spesa farmaceutica, al mantenimento e all'educazione impartita alla prole e alla propria vita sessuale". Si assiste, quindi, prosegue il giudice tributario, alla "soppressione definitiva di ogni riservatezza e dignità riguardante peraltro non solo il singolo contribuente ma in realtà tutti i componenti di quel nucleo familiare". Basta leggere le tabelle dei decreti, spiegano i giudici, per prendere atto che il fisco può sapere di ciascuna famiglia "quante e quali calzature, pantaloni, biancheria intima ecc utilizzano i suoi componenti; se questi preferiscono il vino, la birra o analcolici e di che tipo – o ancora – quanta acqua utilizzano". In tal modo, pertanto, ha concluso la Ctp accogliendo il ricorso e dichiarando nulli gli atti impugnati, l'Autorità esecutiva "si autoattribuisce in potere di raccogliere e immagazzinare ogni singolo dettaglio, dal più insignificante al più sensibile della vita di ciascun componente di un nucleo familiare, conferendo all'Agenzia delle entrate un potere che va manifestamente oltre quello della ispezione fiscale astrattamente consentito dall'art. 14, comma 3, della Costituzionepotere di cui non gode neppure - l'autorità giudiziaria penale".

I regolamenti infine violano il diritto alla difesa ex art. 24, il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. e 38 dpr. 600/1973, in quanto rendono "impossibile" fornire la prova di avere speso meno rispetto alle presunzioni utilizzate, ossia delle risultanze della media Istat.


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