Data: 19/08/2016 21:00:00 - Autore: Lucia Izzo
di Lucia Izzo - Va risarcito il danno al figlio falsamente riconosciuto dal "padre" che, a distanza di anni impugni il riconoscimento disconoscendone la veridicità. Il principio è stato stabilito dal Tribunale di Milano, nona sezione civile, in una sentenza del 27 aprile 2016 (qui sotto allegata).

Il ricorrente aveva riconosciuto la figlia minorenne della compagna, poi moglie. Il matrimonio era stato poi annullato con sentenza ecclesiastica ed il genitore, i cui rapporti con la "figlia" erano divenuti praticamente solo formali, agisce innanzi al Tribunale per accertare e dichiarare che la ragazza, ormai 23enne, non è sua figlia.

Da qui la richiesta risarcitoria della ragazza per il danno morale ed esistenziale patito, a fronte del falso riconoscimento e a fronte dell'improvvisa scoperta della discrasia tra situazione reale e situazione legale; la stessa chiede inoltre di essere risarcita per il danno patito a causa del comportamento dell'attore, il quale si era spogliato dei doveri genitoriali, privando improvvisamente la figlia dell'affetto e della presenza paterna.

Per i giudici il falso riconoscimento integra il reato di cui all'art. 483 c.p., sussistendo l'elemento oggettivo e soggettivo del reato: fatto incontestato e pienamente ammesso dall'attore è che questi aveva riconosciuto falsamente la figlia della compagna nella piena consapevolezza di non esserne il padre, bambina che aveva conosciuto quando era già nata e aveva circa un anno e mezzo.

Va premesso che l'art. 263 c.c. consente all'autore del riconoscimento di impugnare l'atto per difetto di veridicità, senza escludere la legittimazione in capo a chi era consapevole della falsa dichiarazione. 
La predetta norma, riscritta dal d.lgs. n. 154 del 2013,  nella sua precedente formulazione, aveva tuttavia fatto sorgere dubbi di legittimità e coerenza con il sistema di valori della Costituzione, sia con riferimento alla possibile impugnazione del riconoscimento da parte di chi lo aveva effettuato in malafede (ossi nella consapevolezza della falsità dell'atto), sia con riferimento all'imprescrittibilità dell'azione (con conseguente disparità di trattamento del figlio naturale riconosciuto rispetto al figlio legittimo e permanente esposizione del primo alla possibilità di perdita del suo status). 

Proprio alla luce di tali rilievi, parte della giurisprudenza di merito (ved. Trib. Roma 19563/2012) aveva negato la possibilità di impugnare ex art. 263 c.c. il falso riconoscimento a chi lo aveva compiuto in malafede, interpretando tale impugnazione quale revoca implicita del riconoscimento (non consentita dall'art. 256 c.c.). La stessa legge 40/2004, all'art. 9, nega del resto a chi ricorre a tecniche di fecondazione assistita di tipo eterologo il diritto di esercitare l'azione di disconoscimento della paternità o di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, non concedendo quindi il diritto ad un ripensamento a chi sceglie di generare un figlio attraverso le predette tecniche e si assume pertanto consapevolmente gli obblighi connessi alla genitorialità con riguardo ad un figlio con cui non ha un legame biologico (e ciò alla luce del principio di responsabilità, principio che ha un valore particolarmente pregnante, quando riguarda il rapporto genitore-figlio).

Il nuovo testo dell'art. 263 c.c. si muove nella medesima direzione, essendo la norma volta a scardinare il primato della verità naturale: se, da un lato, essa non esclude la legittimazione in capo a chi aveva operato il riconoscimento pur consapevole della sua falsità (anzi il nuovo testo dell'art. 263 c.c. opera un distinguo tra chi prova "di aver ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento" e chi non fornisce questa prova), introduce tuttavia serrati termini di decadenza per l'azione di impugnazione del riconoscimento, a tutela del diritto alla conservazione dello status, azione che resta imprescrittibile solo con riguardo al figlio (al quale solo è rimessa la scelta se far prevalere la verità biologica rispetto a quella giuridica).

L'interpretazione giurisprudenziale sopra richiamata e le novità apportate dalla legge 219 del 2012 confermano il principio che la verità naturale e biologica non debba in ogni caso prevalere rispetto alla tutela del diritto alla conservazione dello status e della propria identità personale e sociale, diritti della persona che hanno un ruolo centrale nell'ordinamento giuridico e ai quali deve essere assicurato il massimo livello di tutela. Non può pertanto porsi in dubbio - inquadrando i diritti che vengono in rilievo nella fattispecie nel quadro del sistema di valori delineato dai principi costituzionali - che il diritto alla propria identità personale e sociale, ove leso da una condotta dolosa o colposa non giustificata dall'ordinamento, meriti un pieno risarcimento.

Tanto promesso, osservano i giudici capitolini, si ritiene sussistano nella fattispecie tutti gli elementi propri della responsabilità aquiliana: il fatto ingiusto (non jure), il danno, il nesso di causa tra gli stessi, l'elemento soggettivo. La complessiva condotta dell'uomo, infatti, pur configurando l'azione ex art. 263 c.c. l'esercizio di un diritto, non può ritenersi giustificata da un apprezzabile interesse (non jure) o, quantomeno, l'interesse perseguito dall'attore recede, nell'ambito di una valutazione comparativa, rispetto al contrapposto interesse della figlia alla conservazione della propria identità personale e del proprio status. Si determina così un danno ingiusto, risarcibile secondo i consolidati principi in tema di responsabilità aquiliana, in quanto lede degli interessi meritevoli di primaria tutela e di valore preminente rispetto all'interesse alla riaffermazione del principio di verità biologica

Nella fattispecie esaminata, il ricorrente non ha chiarito negli atti difensivi quale sia l'interesse sottostante all'azione esercitata, limitandosi a sottolineare come il riconoscimento della convenuta fosse avvenuto "su pressante richiesta" della di lei madre e della famiglia di quest'ultima; come la figlia, dopo un primo periodo in cui era legata al padre da amore filiale, si sia poi allontanata sino a mantenere rapporti sporadici se non inesistenti, con conseguente "imbarazzo" e "disagio crescente" nel rapporto padre-figlia. 

Orbene l'interesse dell'attore a riaffermare la verità biologica, a fronte di un rapporto con la figlia ormai divenuto distaccato e solo formale, non può certo prevalere rispetto al contrapposto interesse della convenuta alla conservazione della sua identità personale e appartenenza familiare (interesse quest'ultimo da considerarsi preminente, alla luce dei valori costituzionali). 

La valutazione comparativa degli interessi delle parti deve peraltro compiersi avendo riguardo anche al principio di responsabilità. Alla luce di tale principio, non può essere assicurata maggior tutela al padre che, riconosciuto in malafede un figlio non suo, ritratti il suo atto per mero capriccio o valutazione di opportunità o per sopravvenute difficoltà nel rapporto genitoriale, rispetto alla posizione del figlio che, a causa del ripensamento paterno, vede sconvolta la propria identità e vede recisi legami familiari consolidatisi nel tempo.

Il Tribunale rileva, infine, che in diverse occasioni la giurisprudenza di merito ha riconosciuto, nell'ambito dei danni endofamiliari, la risarcibilità del danno arrecato dal genitore al figlio a seguito di falso riconoscimento, seguito da azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità; tale danno è stato qualificato come danno non patrimoniale connesso alla lesione della propria identità, alla necessità di reinserirsi nel contesto sociale con un nuovo cognome, alla sofferenza legata alla repentina scoperta di una nuova realtà circa le proprie origini, alla perdita di legami familiari consolidati, senza possibilità di crearne di nuovi. Tanto premesso, l'uomo sarà costretto a risarcire alla figlia disconosciuta il danno non patrimoniale subito, liquidato in € 40.000,00 oltre interessi legali.

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