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Data: 17/09/2016 12:00:00 - Autore: Prof. Luigino Sergio Prof. Luigino Sergio - La "questione mensa", sorta in Piemonte a seguito di un ricorso presentato da numerosi genitori che avevano rivendicato il diritto di poter far consumare il panino portato da casa ai propri figli, è giunta ormai al termine di un primo percorso giuridico, con la vittoria dei genitori (non solo quelli ricorrenti), grazie alla sentenza della Corte d'Appello Tribunale di Torino e ad una successiva ordinanza del tribunale di Torino, la n. 20988 del 13 agosto 2016. I giudici d'appello torinesi hanno condiviso le ragioni portate all'attenzione della magistratura da parte di alcune famiglie che avevano sostenuto il diritto delle stesse a far consumare ai propri figli, durante l'ora di mensa, il pasto portato da casa. I precedentiL'antecedente giuridico si può rintracciare nell'impugnazione davanti al TAR Piemonte, da parte di numerosi genitori di bambini e ragazzi iscritti alle scuole dell'infanzia, primaria e secondaria di primo grado del Comune di Torino, ove fruiscono del servizio di refezione scolastica, della deliberazione del 30 settembre 2013 n. 2013/03524/007, con cui il Consiglio comunale di Torino ha approvato gli indirizzi per l'esercizio 2013 del sistema tariffario dei servizi educativi, nonché le quote e le tariffe per l'anno scolastico 2013/2014. Nel predetto provvedimento il Consiglio comunale ha stabilito, in particolare, di rimodulare in aumento le tariffe del servizio di ristorazione scolastica, al fine di «contribuire ad una maggiore copertura dei costi sostenuti dall'Amministrazione nell'erogazione dei servizi alla cittadinanza» e ciò a causa dell'«attuale e perdurante scenario di contrazione dei trasferimenti statali e regionali destinati al finanziamento di tali servizi». In particolare, nella delibera impugnata si precisa che: – per la Scuola d'Infanzia, l'incremento tariffario varia da un minimo di 2,00 Euro ad un massimo di 10,00 Euro mensili; – per la Scuola Primaria e Secondaria di primo grado, l'incremento varia fra un minimo di 2,00 Euro ad un massimo di 10,00 Euro mensili. Per la Scuola Primaria la tariffa "piena", cioè quella applicabile alla fascia reddituale più alta (da 32.000 Euro in su), è stata determinata a forfait mensile di € 147,00, mentre per la Scuola Secondaria di primo Grado la tariffa piena è stata determinata, in via sperimentale per l'A.S. 2013-2014, "a consumo", nell'importo di € 7,10 a pasto. In sostanza con il ricorso suddetto i ricorrenti si dolgono dell'aumento delle tariffe poiché vi sarebbe stata la lesione del principio di affidamento; sostengono infatti i ricorrenti di aver sottoscritto il modulo di iscrizione al servizio mensa nel settembre 2013, confidando nel regime tariffario allora vigente, e, al limite, nel suo adeguamento al tasso di inflazione programmata; l'aumento tariffario deliberato dal Comune sarebbe invece superiore a quanto, secondo i ricorrenti, sarebbe stato lecito attendersi; lamentano, in ogni caso, che l'aumento sia stato determinato dal Comune dopo che i ricorrenti avevano aderito al servizio, con lesione del loro legittimo affidamento al mantenimento delle tariffe precedenti. Inoltre i ricorrenti censurano la delibera impugnata nella parte in cui non ha previsto la mera "facoltatività" del servizio di refezione scolastica e di conseguenza chiedono al TAR di accertare e dichiarare "il diritto di scelta" spettante a ciascun genitore tra l'iscrizione alla mensa scolastica e il consumo, a scuola, durante l'orario deputato alla mensa, del pasto preparato a casa. Con ordinanza n. 63/2014 del 24 gennaio 2014, il TAR Piemonte ha respinto la domanda cautelare proposta dai ricorrenti, ritenendo insussistenti i profili di danno paventati in ricorso, fissando però a breve l'udienza di merito e richiedendo medio tempore all'amministrazione comunale documentati chiarimenti in ordine ai parametri normativi ed economici adottati per la determinazione della nuova tariffa base del servizio di refezione scolastica. All'udienza pubblica del 10 luglio 2014, dopo la discussione orale dei difensori delle parti, in punto di diritto, il collegio ha ritenuto opportuno premettere alcune considerazioni di carattere generale, anche in ordine al quadro normativo applicabile alla fattispecie oggetto di controversia, precisando che il servizio di refezione scolastica è un servizio pubblico locale «a domanda individuale», secondo quanto stabilisce, al punto n. 10, il Decreto del Ministero dell'Interno 31 dicembre 1983 («Individuazione delle categorie di servizi pubblici locali a domanda individuale»), vale a dire che la qualificazione del servizio di refezione scolastica quale servizio pubblico a domanda individuale sta a significare che l'ente locale non ha l'obbligo di istituirlo ed organizzarlo, ma se decide di farlo, è tenuto per legge, nel rispetto del principio di pareggio di bilancio: a) in primo luogo, ad individuare il costo complessivo del servizio, includendo in tale computo sia i costi "diretti" effettivamente pagati per l'erogazione del servizio (nel caso di specie, il corrispettivo pagato dal Comune di Torino agli attuali appaltatori del servizio di refezione scolastica), sia quelli "indiretti" rappresentati dalle spese per il personale comunque adibito al servizio, anche ad orario parziale, compresi gli oneri riflessi, nonché dalle spese sostenute per l'acquisto di beni e servizi e per le manutenzioni ordinarie (art. 6, comma 4 D.L. 28 febbraio 1983 n. 55, convertito dalla L. 26 aprile 1983, n. 131); b) in secondo luogo, a stabilire la misura percentuale di tale costo finanziabile con risorse comunali, e quindi, correlativamente, a stabilire la residua misura percentuale finanziabile mediante tariffe e contribuzioni a carico diretto dell'utenza (art. 6 comma 1 D.L. citato; art. 172 comma 1 lett. e) D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267); c) infine, a determinare le tariffe o i corrispettivi a carico degli utenti, anche in modo non generalizzato (art. 6 comma 2 D.L. n. 55/1983; art. 149, comma 8 D. Lgs. n. 267/2000). Nella Regione Piemonte, la facoltà degli enti locali di stabilire le tariffe del servizio di refezione scolastica "in modo non generalizzato" e cioè attraverso la previsione di "contributi differenziati in base alle rispettive condizioni economiche degli utenti", è ribadita dall'art. 25 comma 1 della L.R. 28 dicembre 2007 n. 28, il cui comma 3 precisa, altresì, che «i Comuni individuano le fasce economiche di contribuzione e di esenzione a cui rapportare i contributi». Il Comune di Torino ha istituito già da diversi anni il servizio di refezione scolastica, prima gestendolo in proprio, poi affidandolo in appalto a ditte esterne ed ha determinato le tariffe da applicare all'utenza, differenziandole in base a diverse fasce di reddito; dalla più bassa beneficiante della maggiore riduzione, a quella più alta, tenuta a pagare la tariffa "piena" determinata annualmente dal Consiglio comunale, passando per una serie di fasce intermedie variamente determinate. Rileva il collegio che il servizio di refezione scolastica è sì un servizio pubblico, ma "a domanda individuale"; tale fatto comporta che se il Comune decide di istituirlo, è obbligato per legge a stabilire la quota di copertura tariffaria a carico dell'utenza: così prevedono sia l'art. 6 comma 1 del già citato D.L. n. 55/1983, sia l'art. 172 comma 1 lett. e) D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267; inoltre nell'esercizio di tale potere-dovere, ed in particolare nella quantificazione del tasso di copertura tariffaria del costo di gestione del servizio, il Comune gode di amplissima discrezionalità, che non trova nella legge alcuna limitazione in ordine alla misura massima imputabile agli utenti. Ne deriva che in linea astrattamente teorica, ove lo consentisse un'ipotetica capienza di bilancio, il Comune potrebbe certamente decidere di finanziare per intero il servizio di refezione scolastica con risorse proprie, garantendone la fruizione gratuita da parte della popolazione scolastica cittadina; ma allo stesso modo, però, sarebbe altrettanto concepibile (e legittimo) se l'ente locale stabilisse di far gravare per intero il costo del servizio sull'utenza, soprattutto allorché ciò si rendesse necessario, in un'ottica solidaristica e secondo valutazioni di politica economico-sociale di esclusiva pertinenza dell'ente locale, per garantire l'accesso gratuito o agevolato di fasce deboli della popolazione ad altri servizi erogati dalla stessa Amministrazione. Tra le due opzioni estreme, entrambe legittime, si pone quella – più frequente e altrettanto legittima – in cui il costo del servizio è ripartito tra l'amministrazione comunale e l'utenza scolastica, secondo modalità variamente determinate e mutevoli nel tempo, influenzate dalle disponibilità di bilancio e dalle scelte di politica economico-sociale dell'ente locale. In tale eventualità, i cittadini che ritengano eccessivamente gravoso il costo del servizio stabilito unilateralmente dal Comune hanno pur sempre la facoltà di non giovarsene, prelevando i propri figli da scuola durante l'orario destinato alla mensa e provvedendo direttamente al pranzo dei medesimi. L'eventuale impossibilità per i genitori di provvedere direttamente al pranzo dei propri figli per concomitanti impegni lavorativi o per altre cause, per quanto umanamente comprensibile, non costituisce però ragione sufficiente per pretendere che l'Amministrazione, non solo istituisca obbligatoriamente un servizio pubblico che per legge non è obbligata ad istituire, ma se ne addossi pure l'intero onere o la maggior parte di esso, tenuto conto che il servizio di cui discute non è un servizio pubblico essenziale che l'ente locale sia obbligato a garantire alla collettività amministrata, ma un servizio facoltativo che l'ente locale può decidere discrezionalmente di attivare nei limiti delle proprie disponibilità di bilancio e per la fruizione del quale è normativamente previsto che l'utenza debba farsi carico del costo residuo non coperto da risorse comunali, eventualmente nella misura differenziata stabilita dallo stesso ente locale con provvedimenti di carattere generale. Ne deriva che la misura della contribuzione è quindi il frutto di una scelta di ampia discrezionalità riservata per legge all'amministrazione comunale, la quale deve esercitarla nel rispetto dei principi di equilibrio economico-finanziario di gestione del servizio e di pareggio di bilancio; una scelta che sfugge al sindacato giurisdizionale di questo giudice laddove non sia affetta da vizi macroscopici di illogicità o di irragionevolezza. Al netto delle altre censure sollevate dai ricorrenti, un importante motivo attiene, infine, alla questione che è stata mediaticamente divulgata come rivendicazione del "diritto al panino"; in sostanza i ricorrenti lamentano che l'Amministrazione non abbia previsto nei provvedimenti impugnati il diritto dei genitori di scegliere tra l'iscrizione del proprio figlio alla mensa scolastica e la possibilità per l'alunno di consumare a scuola, durante l'orario destinato alla mensa, un pasto preparato a casa e di conseguenza chiedono quindi al TAR di accertare e dichiarare la sussistenza di tale "diritto di scelta". Al riguardo, sono fondate le eccezioni di inammissibilità formulate dalla difesa del Comune di Torino poiché i ricorrenti rivendicano e chiedono l'accertamento di un preteso diritto soggettivo, il quale, tuttavia, esula, in mancanza di presidio normativo, dall'ambito del rapporto di pubblico servizio intercorrente tra l'Amministrazione e gli utenti del servizio, di modo che la sua cognizione sfugge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo prevista dall'art. 133 comma 1 lett. c) del codice del processo amministrativo, per rientrare in quella del giudice ordinario, dinanzi al quale potrà essere eventualmente riproposta. Conclusivamente, alla luce di tutte le considerazioni fin qui svolte, il TAR Piemonte, con Sentenza 10 luglio 2014, n. 1365, ha respinto il ricorso proposto compensando e spese di lite tra le parti «avuto riguardo alla novità e alla complessità delle questioni di diritto esaminate». Primo round sfavorevole ai ricorrenti, vale a dire alle famiglie. La "questione" torineseLa "questione mensa" successivamente è divenuta nuovamente d'attualità e in punto di diritto è stata avviata a soluzione dalla Corte d'Appello di Torino, con Sentenza 21 giugno 2016, n. 1049. La Corte d'Appello di Torino, prima sezione civile, ha pronunciato la suddetta sentenza nella causa promossa, da un gruppo di genitori contro il Comune di Torino e contro il Ministero dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca (MIUR); genitori che avevano impugnato l'ordinanza del Tribunale di Torino 30 gennaio – 2 febbraio 2015, chiedendone l'integrale riforma nonché l'accertamento e la dichiarazione del «diritto di ciascun genitore di scegliere per i propri figli, frequentanti le scuole primarie e secondarie di primo grado, tra la refezione scolastica ed il pasto domestico, consentendo ai minori la possibilità di consumare il pasto domestico all'interno dei locali adibiti a mensa della scuola nell'orario destinato alla refezione». I genitori chiedevano anche ai giudici della Corte d'Appello di Torino, di ordinare al Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca di impartire alle dirigenze scolastiche delle primaria e secondarie di primo grado della Città di Torino, le opportune disposizioni affinché fosse consentito agli studenti che avessero scelto di non fruire della refezione scolastica comunale, di consumare il proprio pasto domestico all'interno dei locali mensa della scuola, nell'orario destinato alla refezione, accanto ai propri compagni nonché di ordinare al Comune di Torino di astenersi dal porre limiti e divieti che siano in contrasto con l'accertando diritto di scelta e con le disposizioni che verranno eventualmente impartite dal Ministero alle singole dirigenze scolastiche, consentendo nonché l'effetto, agli studenti che non fruiscono della refezione scolastica, la facoltà del consumo del pasto domestico all'interno dei refettori delle scuole di proprietà comunale. Il Comune di Torino ed il MIUR si costituivano chiedendo il rigetto dell'appello, adducendo le loro motivazioni di merito. Le censure contenute nell'atto di appello possono, quindi, essere sintetizzate nel modo seguente. Con un primo motivo viene dedotto l'errore compiuto dal Tribunale nel ritenere che gli allievi possano allontanarsi dalla scuola durante la refezione, in quanto il "tempo pieno" alle scuole elementari di 40 ore settimanali includerebbe anche la pausa pranzo da considerarsi "tempo scuola", come desumibile anche da risposta a quesito contenuta nel sito Internet del MIUR; mentre nel "tempo prolungato" alle scuole medie la frequenza della mensa, pur se facoltativa, è comunque considerata opportuna, nel "tempo pieno" è quindi obbligatoria e, trattandosi di "tempo scuola" la prassi di prelevare i figli a scuola durante il tempo della mensa per riaccompagnarli per le lezioni pomeridiane non risponderebbe alla normativa istitutiva del "tempo pieno" ed i ragazzi che frequentano con tale formula lasciando la scuola durante la pausa mensa collezionerebbero ore di assenza incidenti sulla frequenza scolastica; Essendo, invece, obbligatoria la presenza a scuola durante la pausa pranzo, in assenza del diritto di scelta vantato dagli appellanti essa si porrebbe in contrasto con la natura di servizio non obbligatorio a domanda individuale della refezione scolastica dovendosi escludere l'alternativa costituita dal digiuno; ciò si risolverebbe nella violazione dei generali principii di libertà individuale e di eguaglianza di tutti gli studenti in connessione con il diritto allo studio, da ritenersi lesi da parte di un sistema che impone, quale unica soluzione, di allontanarsi dalla scuola per sottrarsi ad un servizio pubblico non obbligatorio. Ad avviso dei genitori appellanti, il Tribunale avrebbe, pertanto, errato nel ritenere che la permanenza a scuola nell'orario della mensa, a prescindere dalla fruizione del servizio di refezione, non costituisca di per sé bene giuridico protetto dall'ordinamento e nell'escludere non solo che si tratti di un diritto, ma anche di un obbligo previsto dalla legge. In secondo luogo e per l'ipotesi in cui si ritenga che la presenza a scuola durante la pausa pranzo non sia obbligatoria, l'età degli alunni delle scuole elementari renderebbe necessario che essi vengano prelevati e riportati a scuola dai genitori o da persone di loro fiducia; vi sarebbe, quindi, la mancata protezione del diritto al lavoro dei genitori nonché violazione dell'art. 35 della Costituzione, del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 e di gratuità dell'istruzione inferiore di cui all'art. 34 per effetto dell'imposizione della mensa comunale e del relativo costo, cioè di un servizio che dovrebbe essere facoltativo. Ragioni di eguaglianza e di parità di trattamento imporrebbero di applicare i medesimi principii anche ai ragazzi che non frequentano il tempo pieno, ma che hanno l'obbligo di rientro pomeridiano: anch'essi non potrebbero essere costretti a fruire di un servizio facoltativo "in un contesto di libera scelta in cui i genitori non hanno modo di occuparsi di loro durante la pausa pranzo". Nella propria comparsa conclusionale gli appellanti hanno, poi, richiamato anche l'art. 2 (secondo cui la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo) e l'art. 32 della Costituzione, da cui dovrebbe desumersi un diritto alla libertà nelle proprie scelte alimentari. Dal punto di vista dell'art. 3 è stato, inoltre, sottolineato come -essendo consentito ai genitori di religione islamica di scegliere gli alimenti da escludere dal menù dei propri figli ed avendo varie amministrazioni comunali elaborato diete speciali per ragazzi vegetariani o vegani- per ragioni di parità di trattamento dovrebbe anche essere consentito, più in generale, di rinunciare al servizio di refezione comunale. Il Tribunale avrebbe, quindi, errato nel non individuare il fondamento del diritto vantato dai ricorrenti nelle suddette norme costituzionali ed avrebbe erroneamente fatto riferimento ai principii riguardanti la discrezionalità amministrativa. A sua volta il Comune di Torino ha dedotto che riguardo alla mensa: si tratta di un servizio discrezionale tanto nell'an che nel quomodo non costituente servizio pubblico necessario od indispensabile; già in base alla prospettazione non vi è alcun riflesso sull'orario scolastico quanto agli allievi delle scuole secondarie di promo grado; quanto alle scuole primarie, nessuna norma prevede che l'orario della mensa costituisca obbligo scolastico didattico. Il "tempo mensa" è "tempo scuola", ma è distinto dall'attività didattica ed il diritto allo studio va rapportato all'orario settimanale, in cui non rientrano le ore di permanenza durante la mensa: l'eventuale assenza non incide quindi sulla frequenza scolastica; il "tempo pieno" non è obbligatorio, ma corrisponde ad un modulo facoltativo ed attivabile discrezionalmente solo ove la singola istituzione scolastica abbia la disponibilità di organico aggiuntivo e disponga delle necessarie strutture e servizi; la domanda degli appellanti si risolverebbe nell'imporre un facere in assenza di una norma che preveda il diritto da loro vantato, stante l'inconferenza delle norme costituzionali da loro invocate. A sia volta il MIUR, richiamate le principali norme che disciplinano il sistema scolastico ed, in particolare, la refezione scolastica, ha sottolineato come ciascun genitore, al momento dell'iscrizione ai singoli anni scolastici, abbia la facoltà di scegliere tra "tempo pieno" (per il quale è previsto il servizio di mensa) e "tempo definito" e "gli utenti del servizio scolastico sono liberi di organizzare la refezione degli alunni con le modalità e le tempistiche ritenute congrue rispetto alle esigenze di ciascuno, senza bisogno di imporre alcun obbligo alla pubblica amministrazione". Tale eccezione, ad avviso del collegio giudicante è, però, priva di fondamento. L'interesse degli appellanti ad agire ed a proporre l'impugnazione nasce, infatti, proprio dalla loro prospettazione del diritto a fruire del "tempo scuola" e di quello dedicato alla refezione con modalità diverse da quelle effettivamente praticate senza che tale interesse debba essere perseguito, anche attraverso determinate scelte dell'orario scolastico, facendo in modo che i pasti non vengano consumati a scuola. Innanzitutto, com'è noto l'art. 34, primo comma, della Costituzione prevede il diritto all'istruzione, obbligatoria per almeno otto anni e gratuita. Il contenuto di tale diritto si è modificato nel corso del tempo partendo da una originaria concezione di "istruzione" (v. ad es. Corte Cost. Sent. 1 febbraio 1967, n. 7 a proposito della sua gratuità), nel senso "dell'insegnamento inteso quale attività del docente diretta ad impartire cognizioni" che si è poi evoluta al di là di tale ristretto ambito. Tale evoluzione si coglie chiaramente dalle indicazioni e dall'interpretazione contenute nella Circolare del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca n. 29 del 5 marzo 2004, emessa a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. 19 febbraio 2004, n. 59 ed ove viene sottolineato come il primo ciclo, della durata di 8 anni ed avente carattere unitario, costituisca la prima fase in cui si realizza il diritto-dovere non solo all'istruzione, ma anche alla formazione: esso si articola nella scuola primaria (della durata di cinque anni, le C.d. "elementari") e nella scuola secondaria di primo grado (della durata di tre anni, le C.d. "medie"). Nella Circolare viene, poi, chiarito che l'orario annuale delle lezioni nel primo ciclo di istruzione comprende: (a) un monte ore obbligatorio; (b) un monte ore facoltativo opzionale; (c) eventualmente l'orario riservato all'erogazione al servizio di mensa e di dopo mensa con la precisazione che "i tre segmenti orari rappresentano il tempo complessivo di erogazione del servizio scolastico. Essi non vanno considerati e progettati separatamente, ma concorrono a costituire un modello unitario del processo educativo, da definire nel Piano dell'offerta formativa". Coerentemente con tale impostazione al punto 2.3 della Circolare viene, poi, precisato che i servizi di mensa sono necessari a garantire lo svolgimento delle attività educative e didattiche e vengono erogati utilizzando l'assistenza "educativa" (N.B.: e non una mera attività di "sorveglianza") del personale docente che si intende riferita anche al tempo riservato al dopo mensa. Analogo chiarimento è contenuto al punto 3.1 della Circolare a proposito della scuola secondaria di primo grado ed attualmente si parla ormai di "tempo scuola", che non comprende soltanto le attività strettamente didattiche (v. ad es. il D.P.R. 20marzo2009, n. 89, art. 4). L'originaria concezione di "istruzione" e di "insegnamento" intesi "quale attività del docente diretta ad impartire cognizioni" è, dunque, venuta ad assumere una diversa connotazione. Il primo ciclo d'istruzione rappresenta ormai un processo educativo e formativo che mira a conseguire la propria finalità non solo mediante attività di tipo strettamente didattico tanto che, come si è visto più sopra, il servizio scolastico si svolge attraverso tutti i previsti "segmenti orari", che rappresentano il tempo complessivo della sua erogazione e che concorrono a costituire, compreso il tempo-mensa, modello unitario del processo educativo. Tale conclusione è condivisa dallo stesso MIUR, il quale, nella propria comparsa di costituzione ha espressamente affermato che «la ristorazione scolastica, quindi, non deve essere vista come semplice soddisfa cimento dei bisogni nutrizionali, ma deve essere considerata un importante e continuo momento di educazione e di promozione della salute, che coinvolge sia gli alunni che i docenti». Da tale premessa discende che il diritto all'istruzione primaria non corrisponde più al solo diritto di ricevere cognizioni, ma in modo più ampio al diritto di partecipare al complessivo progetto educativo e formativo che il servizio scolastico deve fornire nell'ambito del "tempo scuola" in tutte le sue componenti e non soltanto a quelle di tipo strettamente didattico. Avuto, in particolare, riguardo alla funzione del "tempo mensa" deve, dunque, ritenersi, disattendendo la conclusione cui è giunto il Tribunale che il permanere presso la scuola nell'orario della mensa costituisca un diritto soggettivo perfetto, proprio perché costituisce esercizio del diritto all'istruzione nel significato appena delineato. In secondo luogo, non è controverso che il servizio di refezione scolastica sia servizio locale a domanda individuale che l'ente non ha l'obbligo di istituire ed organizzare e facoltativo per l'utente; facoltatività che rappresenta, dunque, una caratteristica intrinseca di tale servizio che non può mutare a seconda delle circostanze così da farlo diventare obbligatorio e non facoltativo. Se, quindi, la permanenza a scuola in tale segmento orario risponde ad un diritto soggettivo; se la refezione scolastica non può diventare obbligatoria e se deve comunque aver luogo il consumo di un pasto, ne consegue necessariamente che ciò debba avvenire presso la scuola, ma al di fuori della refezione scolastica. Il Tribunale ha ritenuto che, comunque, ciascun genitore potrebbe scegliere di non usufruirne optando per l'orario strutturato sul "modulo" anziché per il tempo pieno ovvero prelevando il figlio a scuola durante il tempo della mensa e riaccompagnandovelo successivamente; ma in tal modo verrebbe, però, ad essere leso il diritto di partecipare al "tempo mensa" quale segmento del complessivo progetto educativo ovvero, fruendo della refezione scolastica per necessità ed in assenza di alternativa, si trasformerebbe, come si è detto, il relativo servizio in servizio obbligatorio. Conclusivamente deve ritenersi che il diritto vantato dagli appellanti sia comunque desumibile dall'ordinamento costituzionale e scolastico nei termini di cui si è appena detto. L'attuazione del loro diritto non può, però, risolversi nel consentire indiscriminatamente agli alunni di consumare il pasto domestico presso la mensa scolastica, ma implica l'adozione di una serie di misure organizzative, in funzione degli aspetti igienicosanitari e in relazione alla specifica situazione logistica dei singoli istituti interessati. In conclusione, la Corte d'Appello di Torino, Prima Sezione Civile, in parziale accoglimento dell'appello proposto dagli appellanti nei confronti del Comune di Torino e del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, avverso l'ordinanza datata 30 gennaio 2015 e comunicata il 2 febbraio 2015 del Tribunale di Torino ed in parziale riforma di tale ordinanza, «accerta il diritto degli appellanti di scegliere per i propri figli tra la refezione scolastica ed il pasto domestico da consumarsi nell'ambito delle singole scuole e nell'orario destinato alla refezione, il tutto nei limiti e nei termini di cui in motivazione». Ma la querelle non finisce qui poiché il Tribunale di Torino emette una nuova Ordinanza, la n. 20988 del 13 agosto 2016, nel procedimento cautelare promosso da un genitore di una ragazza iscritta al quinto anno di un istituto scolastico di Torino, presso il quale è attivo un servizio di mensa proposto contro il Ministero dell'Università, dell'Istruzione e della Ricerca e il suddetto istituto scolastico resistenti. Il tribunale di Torino, a scioglimento della riserva assunta all'udienza del 9 agosto 2016, ha pronunciato un'ordinanza, deducendo che nonostante vi sia stata la Sentenza della Corte d'Appello n. 1049 del 21 giugno 2016 (resa nel giudizio d'appello proposto da n. 58 genitori di altrettanti studenti di scuole primarie e secondarie di primo grado di Torino), con la quale i giudici d'Appello hanno accertato «il diritto degli appellanti di scegliere per i propri figli tra la refezione scolastica ed il pasto domestico da consumarsi nell'ambito delle singole scuole e nell'orario destinato alla refezione» alcune amministrazioni comunali e istituti scolastici, fra cui quello qui convenuto, hanno negato l'esistenza di analogo diritto di scelta (fra refezione scolastica e pasto domestico da consumare a scuola) per coloro che non avevano preso parte al giudizio di cui sopra. Tale posizione, ad avviso dei giudici, lede diritti fondamentali della ricorrente (allo studio, al lavoro, alla libertà delle scelte alimentari, alla uguaglianza), riconosciuti da norme di rango costituzionale, diritti che sono stati accertati dalla Corte d'Appello per le parti di quel processo, ma che sussistono ugualmente anche per coloro che non vi hanno partecipato; diritti questi che rischiano di essere pregiudicati nel tempo occorrente per il loro accertamento giudiziale, poiché la facoltà di scelta tra refezione scolastica e pasto domestico da consumare a scuola – negata da alcuni istituti e amministrazioni comunali – non potrà concretamente essere esercitata nel prossimo anno scolastico, di imminente inizio. La parte interessata chiede pertanto che il Tribunale, con provvedimento ex art. 700 c.p.c., accerti il proprio diritto di scegliere per la propria figlia tra la refezione scolastica e il pasto domestico da consumarsi nell'ambito delle singole scuole e nell'orario destinato alla refezione; e ordini ai convenuti «di consentire alla ricorrente […] di dotare la propria figlia di un pasto domestico preparato a casa, da consumarsi nel refettorio scolastico, o previa dimostrazione dell'impossibilità giuridica, presso altro locale idoneo destinato alla refezione, a partire dal primo giorno di scuola e di attivazione del servizio di refezione comunale ed in concomitanza a questo». Di differente avviso il MIUR e l'istituto scolastico interessato, i quali chiedono il rigetto del ricorso, poiché il ricorrente non può ottenere un provvedimento cautelare che incida sulla discrezionalità organizzativa dei singoli istituti scolastici, poiché il giudice ordinario difetta di giurisdizione sul punto; perché la sentenza della Corte d'Appello invocata dal ricorrente – ad oggi non passata in giudicato – non fa stato nei suoi confronti, essendo egli rimasto estraneo a quel processo; perché il ricorso ex art. 700 c.p.c. non è lo strumento idoneo per ottenere l'estensione degli effetti di una sentenza di merito resa inter alios, essendo esperibile il rimedio tipico dell'ottemperanza davanti al TAR; perché il diritto vantato dal ricorrente a consumare a scuola, durante l'orario destinato alla refezione, un pasto preparato a casa, non ha fondamento giuridico. Il Tribunale adito osserva che il presente procedimento non è volto a dare attuazione alla sentenza della Corte d'Appello di Torino del 21 giugno 2016 n. 1049; né a estendere a terzi, estranei a quel giudizio, l'efficacia dell'accertamento contenuto in quella sentenza. Il provvedimento della Corte d'Appello, infatti, viene citato dal ricorrente come (autorevole) precedente a supporto della propria domanda, ragione per cui non si tratta, in questa sede, di dare attuazione a quella sentenza o di estenderne gli effetti, ma di accertare autonomamente, in favore di soggetti estranei a quel giudizio, l'esistenza di un diritto di contenuto identico a quello già accertato in favore delle parti di quel processo. I giudici del tribunale di Torino chiariscono che, alla luce della giurisprudenza ormai consolidata (fra le tante pronunce di merito si vedano T. Milano 2 luglio 2013 e 18 aprile 2013; T. Bari 9 novembre 2012), è pienamente ammissibile il ricorso alla tutela cautelare atipica per ottenere una pronuncia di accertamento, anticipatoria degli effetti del giudizio di merito. Il diritto di consumare a scuola, durante l'orario di refezione un pasto preparato a casa, viene presentato dal ricorrente come espressione e manifestazione di alcuni diritti fondamentali di rilevanza costituzionale: il diritto allo studio, quello alla libertà delle scelte alimentari, quello di uguaglianza e quello al lavoro. Questa impostazione deve ritenersi, almeno per quanto riguarda il diritto allo studio e il principio di uguaglianza, sostanzialmente condivisibile per le ragioni di seguito indicate. Il servizio mensa messo a disposizione da molti istituti scolastici (fra cui quello qui convenuto) è un servizio a pagamento, quindi non è obbligatorio, perché i genitori degli studenti possono ben decidere di non fruirne. In questo caso però devono prelevare da scuola il figlio all'ora di pranzo, fargli consumare il pasto altrove e poi riaccompagnarlo a scuola, con la conseguenza che lo studente viene a perdere quel "tempo scolastico" destinato al pranzo comune e alle attività (di socializzazione, distensive e ricreative) che ad esso si accompagnano. Il problema è dunque, in primo luogo, quello di verificare se questo tempo debba considerarsi finalizzato a impartire quella "istruzione inferiore" garantita dalla norma costituzionale; mentre in secondo luogo (e in caso positivo) occorre verificare se vi siano ostacoli, rappresentati da altri diritti di pari dignità e confliggenti con quello qui fatto valere, che giustifichino in concreto la compressione o la negazione di questo diritto. Sulla prima questione il tribunale di Torino condivide pienamente l'impostazione contenuta nella sentenza della Corte d'Appello di Torino del 21 giugno 2016, laddove evidenzia che il contenuto del diritto allo studio si è modificato nel corso del tempo e non può essere ricondotto al solo impartire (da parte dei docenti) e ricevere (da parte degli studenti) nozioni e cognizioni. La netta evoluzione di questo diritto si coglie – prima ancora che nella Circolare del Ministero dell'Istruzione del 5 marzo 2004 (richiamata dalla Corte d'Appello e dall'odierno ricorrente) – nel d.lgs. 19 febbraio 2004 n. 59, a cui si riferiscono le istruzioni e definizioni della Circolare ministeriale. L'art. 5 del decreto definisce in questi ampi termini le finalità della scuola primaria: «La scuola primaria, accogliendo e valorizzando le diversità individuali, ivi comprese quelle derivanti dalle disabilità, promuove, nel rispetto delle diversità individuali, lo sviluppo della personalità, ed ha il fine di far acquisire e sviluppare le conoscenze e le abilità di base, ivi comprese quelle relative all'alfabetizzazione informatica, fino alle prime sistemazioni logico critiche, di fare apprendere i mezzi espressivi, la lingua italiana e l'alfabetizzazione nella lingua inglese, di porre le basi per l'utilizzazione di metodologie scientifiche nello studio del mondo naturale, dei suoi fenomeni e delle sue leggi, di valorizzare le capacità relazionali e di orientamento nello spazio e nel tempo, di educare ai principi fondamentali della convivenza civile». L'art. 9 del medesimo d.lgs. definisce le finalità della scuola secondaria di primo grado: «La scuola secondaria di primo grado, attraverso le discipline di studio, è finalizzata alla crescita delle capacità autonome di studio e al rafforzamento delle attitudini all'interazione sociale; organizza ed accresce, anche attraverso l'alfabetizzazione e l'approfondimento nelle tecnologie informatiche, le conoscenze e le abilità, anche in relazione alla tradizione culturale e alla evoluzione sociale, culturale e scientifica della realtà contemporanea; è caratterizzata dalla diversificazione didattica e metodologica in relazione allo sviluppo della personalità dell'allievo; cura la dimensione sistematica delle discipline; sviluppa progressivamente le competenze e le capacità di scelta corrispondenti alle attitudini e vocazioni degli allievi; fornisce strumenti adeguati alla prosecuzione delle attività di istruzione e di formazione; introduce lo studio di una seconda lingua dell'Unione europea; aiuta ad orientarsi per la successiva scelta di istruzione e formazione». Si sono sottolineati, nel riportare il testo normativo, i passaggi da cui più chiaramente si evince la irriducibilità dell'istruzione (e della funzione scolastica) al mero ruolo di trasmissione di nozioni e da cui si trae, per converso, la promozione dell'attività educativa attraverso la valorizzazione delle diversità individuali, l'attenzione ai momenti relazionali, l'importanza di educare al rispetto dei principi di convivenza civile. Se è vero che (anche) questi sono i contenuti dell'istruzione inferiore, ben si comprende la ragione per cui la Circolare del Ministero dell'Istruzione del 5 marzo 2004 ha sottolineato che i tre segmenti orari del «monte ore obbligatorio», del «monte ore facoltativo» e dell'«orario riservato all'erogazione del servizio di mensa e di dopo mensa» «rappresentano il tempo complessivo di erogazione del servizio scolastico. Essi non vanno considerati e progettati separatamente, ma concorrono a costituire un modello unitario del processo educativo, da definire nel Piano dell'offerta formativa». Il c.d. "tempo mensa" rappresenta infatti un essenziale momento di condivisione, di socializzazione, di emersione e valorizzazione delle personalità individuali, oltre che di confronto degli studenti con i limiti e le regole che derivano dal rispetto degli altri e dalla civile convivenza. In piena coerenza con questa impostazione, il d.lgs. n. 59/2004 prevede che l'organico degli istituti scolastici debba essere determinato non solo per garantire le attività educative e didattiche di cui ai commi 1 e 2 degli art. 7 e 9 (rispettivamente dettati per la scuola primaria e per quella secondaria di primo grado); ma anche «per garantire l'assistenza educativa del personale docente nel tempo eventualmente dedicato alla mensa e al dopo mensa». E la già ricordata Circolare del Ministero dell'Istruzione ribadisce (ulteriormente rendendo palese la finalità istruttivo-educativa del tempo mensa) che «i servizi di mensa, necessari per garantire lo svolgimento delle attività educative e didattiche […] vengono erogati utilizzando l'assistenza educativa del personale docente, che si intende riferita anche al tempo riservato al dopo mensa». Alla luce di queste considerazioni non pare seriamente contestabile che anche nel tempo destinato a consumare il pranzo in comune venga impartita quella istruzione inferiore prescritta come obbligatoria e garantita come gratuita dall'art. 34 Cost. Sul punto sembrano concordare anche i convenuti, laddove affermano che «la ristorazione scolastica non deve essere vista come un semplice soddisfacimento dei bisogni nutrizionali, ma deve essere considerata un importante e continuo momento di educazione e di promozione della salute, che coinvolge sia gli alunni che i docenti», anche se poi la difesa dei convenuti sostiene che la promozione della salute e l'educazione a una corretta alimentazione sarebbero vanificate se fosse consentito agli studenti di consumare alimenti estranei a quelli forniti dalla mensa scolastica. Ciò detto, diritto di partecipare all'istruzione scolastica impartita durante il "tempo mensa e dopo mensa" non può essere negato, né condizionato all'adesione a servizi a pagamento (quale il servizio di refezione organizzato dagli istituti); poiché – per evidenti ragioni che i convenuti non mettono in discussione – l'alternativa di imporre il digiuno agli studenti (che non vogliano fruire della mensa scolastica) è manifestamente irragionevole e impraticabile, l'unica alternativa è quella di riconoscere che gli studenti hanno diritto di consumare a scuola un pasto preparato a casa; diritto che rappresenta modalità di esercizio del diritto allo studio e che si fonda anche sul principio costituzionale di uguaglianza e pari dignità dei cittadini (art. 3 Cost.). Non è infatti ragionevole che alcuni soggetti (quelli che fruiscono del servizio mensa scolastica) beneficino del diritto all'istruzione nella sua pienezza, mentre altri (coloro che non vogliono avvalersi della mensa) siano sostanzialmente costretti ad allontanarsi dalla scuola, in un momento in cui viene svolta attività educativa di grande importanza formativa. Il MIUR e l'Istituto scolastico coinvolto affermano che l'individuazione dei locali nei quali far consumare i pasti portati da casa è una decisione che spetta ai singoli istituti e che involge valutazioni di carattere tecnico e di opportunità. Inoltre Il MIUR e l'Istituto scolastico richiamano un «generale divieto di introdurre alimenti esterni (ossia non riconducibili alle ditte concessionarie del servizio) nella mensa, durante l'orario dei pasti», senza indicare, però, quale sia la fonte di questo divieto, salvo un generico richiamo alle clausole delle polizze assicurative stipulate dalle ditte che erogano i servizi di mensa; ma è evidente che siffatte clausole – quand'anche esistenti – non hanno il valore di fonti normative e non costituiscono una ragione neppure minimamente sufficiente a interferire con il diritto, di rilevanza costituzionale, che si è sopra accertato. Le amministrazioni convenute, dunque, rifiutano di permettere la consumazione di un pasto portato da casa a coloro che non sono stati parte del giudizio conclusosi con la sentenza della Corte d'Appello. I convenuti, contraddittoriamente, da un lato sostengono (ragionevolmente) di non poter organizzare il servizio di consumazione a scuola del pasto domestico senza conoscere il numero delle famiglie che intendono avvalersene, perché ciascun istituto deve acquisire questo dato conoscitivo per poter consapevolmente organizzare il servizio nell'esercizio della propria discrezionalità; ma dall'altro, però, incoerentemente, le medesime amministrazioni negano la sussistenza di un tale diritto in capo ai soggetti diversi dalle parti del giudizio sopra ricordato, auto-precludendosi in questo modo la conoscenza del dato in questione, negando la sussistenza del diritto e non mettendosi nella condizione di poter concretamente organizzare il servizio. Il giudice ordinario non ha il potere di individuare e prescrivere le modalità attraverso cui i singoli istituti scolastici devono assicurare l'esercizio del diritto; tale limite era stato già chiaramente individuato nella sentenza della Corte d'Appello che aveva dichiarato il difetto di giurisdizione sulle domande con cui si chiedeva di impartire alle dirigenze scolastiche disposizioni per consentire agli studenti che decidono di non fruire della refezione scolastica di consumare il proprio pasto all'interno dei locali mensa della scuola. Di conseguenza non è pertanto possibile che il giudice disponga in quale locale scolastico debba essere consumato il pasto portato da casa, né interferire in alcun modo su altre modalità organizzative. Ciò detto, però, i giudici del tribunale di Torino osservano che le modalità attraverso cui l'istituto scolastico darà attuazione concreta al diritto qui riconosciuto non possono essere tali da snaturare o annullare di fatto i contenuti del diritto fondamentale alla istruzione, che costituisce il presupposto e la ragion d'essere del diritto (al pasto domestico) che qui si riconosce. Va dunque ricordato che il diritto all'istruzione, durante il "tempo mensa e dopo mensa", si sostanzia nella possibilità di fruire di tutti quei contenuti formativi che si sono evidenziati supra, vale a dire sviluppo della personalità, valorizzazione delle capacità relazionali, educazione ai principi della civile convivenza. Una organizzazione che non consentisse la fruizione del diritto allo studio in questi termini si risolverebbe quindi nella negazione del diritto che è stato qui accertato. Sulla base di quanto esposto, il Tribunale di Torino «accerta e dichiara il diritto del ricorrente di scegliere per il proprio figlio tra la refezione scolastica e il pasto preparato a casa da consumare presso la scuola nell'orario destinato alla refezione»; rigetta ogni ulteriore domanda del ricorrente e condanna i convenuti all'integrale rimborso delle spese del procedimento in favore del ricorrente. Le reazioniLe reazioni all'ordinanza del Tribunale di Torino non si sono fatte attendere; favorevoli da parte dei ricorrenti, soddisfatti dell'esito giudiziario del tribunale di Torino che ha riconosciuto un diritto che non vale solo per chi ha intrapreso l'azione legale, a cui Comune e MIUR dovranno adeguarsi, pena in caso di loro inadempimento, il dover fronteggiare ulteriori ricorsi "fotocopia"; preoccupate per i soccombenti e per gli amministratori regionali. Il Presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino e l'assessore all'Istruzione Gianna Pentenero, in una nota congiunta, come riportato dal quotidiano Repubblica (nell'articolo "Il panino a scuola è un diritto di tutti, i giudici rigettano il reclamo del ministero") rilevano che: «la Regione Piemonte ha già sottolineato in più occasioni il rischio che le sentenze della magistratura possano mettere in discussione l'universalità del servizio mensa e la funzione pedagogica, sociale e di educazione alimentare di cui è portatrice. Siamo fermamente convinti che il tema dei costi troppo elevati della ristorazione scolastica non possa essere affrontato smontando una conquista raggiunta negli anni». «Per questa ragione, considerando le conseguenze che la nuova decisione del tribunale avrà sull'organizzazione delle scuole e il carattere ormai nazionale che la questione ha assunto, - dicono ancora - riteniamo indispensabile avviare un confronto sul tema con il Ministero dell'Istruzione. È infatti necessario un intervento legislativo di carattere nazionale che colmi il vuoto normativo messo in evidenza dalle decisioni della magistratura». «Intanto, - concludono Chiamparino e Pentenero - in attesa della sentenza definitiva della Corte di Cassazione, a cui il Ministero ha manifestato l'intenzione di presentare ricorso, proponiamo a Comuni e autorità scolastiche di costituire un tavolo comune per monitorare la situazione, anche con particolare attenzione al tema della responsabilità di dirigenti e insegnanti, e predisporre eventuali interventi utili a rendere funzionale l'organizzazione scolastica e a ridurre al minimo i disagi di scuole e famiglie». |
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