Data: 26/10/2016 17:00:00 - Autore: Valeria Zeppilli

di Valeria Zeppilli - In materia di abuso sessuale su minore, le dichiarazioni rese dalla vittima al perito o al consulente tecnico incaricato di un accertamento personologico non hanno altra funzione che quella di definire le risposte ai quesiti circa la credibilità della persona offesa e la sussistenza degli indici di un abuso sessuale patito.

Con la sentenza numero 41161/2016 depositata il 3 ottobre scorso (qui sotto allegata), la Corte di cassazione ha infatti ribadito che tali dichiarazioni non possono essere utilizzate in alcun modo come fonte di prova per la ricostruzione del fatto.

Nel caso di specie, invece, il giudice del merito, sia in primo che in secondo grado, aveva utilizzato le dichiarazioni rese dal minore alla consulente per l'affermazione della responsabilità penale dell'imputato e quindi per un fine diverso da quello oggetto dell'incarico peritale. Così facendo, quindi, secondo la ricostruzione della Corte il giudicante si era posto in contraddizione con quanto stabilito dal terzo comma dell'articolo 228 del codice di procedura penale.

In realtà, nel fare ciò, sia il Tribunale che la Corte d'appello avevano richiamato l'articolo 512 del codice di rito che consente il recupero delle dichiarazioni rese dal testimone alla polizia giudiziaria, al Pubblico Ministero e al difensore delle parti private, mediante lettura, nel caso in cui sia sopravvenuta l'impossibilità della ripetizione.

Per la Cassazione, però, neanche tale richiamo è stato operato in maniera corretta: tale norma non può estendersi sino ad ammettere il recupero anche delle dichiarazioni raccolte dal consulente tecnico del PM nell'ambito di un incarico peritale. Si tratta, infatti, di una previsione che, derogando ai principi dell'oralità e del contraddittorio, si pone come norma eccezionale e, in quanto tale, non è suscettibile di interpretazione estensiva.

Tale pronuncia, sicuramente fondatissima dal punto di vista giuridico, pone alcune perplessità circa il ruolo dello psicologo forense.

La prassi, infatti, è quella di inserire la credibilità della persona offesa e la sussistenza di indici di patito abuso all'interno dei quesiti sottoposti a tali professionisti. Il rischio che essa comporta, e che si è palesato attuale nel procedimento che ha portato alla pronuncia in commento, è tuttavia quello di distorcere l'intero corso del procedimento.

Infatti la scienza psicologica non ha ad oggi fornito degli strumenti o delle metodologie validi e attendibili per valutare la credibilità: casomai è possibile valutare solo la competenza a testimoniare.

Senza parlare della sussistenza degli indici di abuso sessuale: addentrarsi su una simile valutazione vuol dire incorrere nel pericolo forte di rilevare falsi positivi o falsi negativi.

Occorrerebbe quindi rivedere il ruolo del perito e permettere un'esplicazione più corretta ed effettiva delle potenzialità del suo contributo nel corso del procedimento.


Si ringrazia per la segnalazione e per il prezioso contributo tecnico il Dott. Silvestro Calabrese



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