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Data: 20/11/2016 14:00:00 - Autore: VV. AA. Avv. Marco Capone - Di tanto in tanto nelle nostre aule di giustizia fa capolino la spinosa questione relativa alla prescrizione dei crediti incorporati in provvedimenti degli enti impositori quali, in primis, le cartelle esattoriali. In particolare, i giudici si sono spesso trovati a dover stabilire quale fosse il tempo massimo entro cui lo Stato detiene il diritto di riscuotere le somme riportate in un atto impositivo non impugnato entro i termini previsti dalla legge. La questione, che a primo acchito potrebbe sembrare banale, da molto tempo è al centro di un vivo dibattito che vede contrapposti due diversi orientamenti. Secondo una prima opinione giurisprudenziale, la mancata opposizione dell'atto impositivo, comporterebbe la "irretrattabilità" e/o la "immodificabilità" della pretesa creditoria in esso contenuta. Per tale effetto, in tali casi il diritto di credito dello Stato, non sarebbe più soggetto alla prescrizione prevista per la specifica pretesa esattoriale, dovendosi invece applicare l'art. 2953 c.c. in virtù del quale gli originari termini prescrizionali brevi vengono automaticamente convertiti in quelli lunghi decennali.
In senso diametralmente opposto, altri magistrati hanno invece sostenuto l'assoluta inapplicabilità della disposizione relativa alla c.d. "actio judicati" (l'art. 2953 c.c.) ai casi di specie. A sostegno di tale ultimo assunto vi sarebbe l'assoluta differenza tra l'atto impositivo della P.A., che si sintetizza in una espressione unilaterale di un potere istituzionale, e quello giurisdizionale, che al contrario si palesa quale risultato di un procedimento in cui viene assicurato il diritto di difesa di tutte le parti coinvolte. Solo il secondo di questi, sarebbe suscettibile di generare la conversione dei termini prescrizionali brevi in quelli decennali. Il contrasto giurisprudenziale innanzi descritto, ritenuto anche il rilevante numero dei contenziosi a cui fa riferimento, ha richiesto l'intervento chiarificatore della Corte di Cassazione a Sezioni Unite che è giunto con la Sentenza n. 23397/2016. La suddetta decisione, saldamente ancorata ad una esaustiva quanto apprezzabile ricostruzione storico – sistematica della vicenda, afferma con convinzione e precisione di argomentazioni, che l'art. 2953 c.c. non In altri termini, la circostanza che una intimazione di pagamento erariale non sia più suscettibile di contestazione perché non impugnata in tempo utile, non può in alcun modo giustificare il prolungamento del periodo di prescrizione previsto per la specifica tipologia di imposizione. Si legge nella sentenza n. 23397/2016 che una diversa conclusione, a volte paventata da alcuni tribunali, rappresenta una erronea e frettolosa interpretazione dei principi espressi dalla Suprema Corte sul tema. In realtà, i giudici di legittimità, pur confermando in precedenti occasioni il principio di immodificabilità dell'atto impositivo non impugnato, non hanno mai inteso equiparare i provvedimenti emessi dalla P.A. alle sentenze passate in giudicato onde attribuire anche ai primi gli effetti di cui all'art. 2953 c.c. Non va infine dimenticato che la legittimità del sistema di riscossione degli introiti statali passa anche dal riconoscimento dei diritti dei soggetti chiamati ad eseguire i pagamenti. In tale ottica, è difficile legittimare la lettura di una norma che in concreto produce l'effetto di imbrigliare i contribuenti in lunghissimi periodi di A questo punto, e stante anche l'imminente arrivo di importanti riforme in materia di riscossione, ci si augura che la sentenza in commento possa diventare lo spunto per una rilettura in chiave garantista della normativa fiscale e l'"incipit" per la creazione di una nuova pubblica amministrazione più efficiente e attenta alle esigenze dei cittadini. Avv. Marco Capone cmarc@hotmail.it |
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