Data: 09/12/2016 06:00:00 - Autore: Lucia Izzo
di Lucia Izzo - L'avvocato che non impugna il licenziamento della cliente e non comunica di non aver proposto l'azione giudiziale, anzi, inducendo a ritenere il contrario, commette una grave negligenza professionale e rischia di dover risarcire il danno morale e quello patrimoniale se il cliente dimostra che la condotta diligente del legale gli avrebbe fatto vincere la causa.

Lo ha stabilito la Corte d'Appello di Roma, terza sezione civile, nella sentenza n. 5454/2016 (qui sotto allegata). La ricorrente aveva promosso azione per sentire condannare l'avvocato, previo accertamento della sua responsabilità professionale, al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a cagione dell'inadempimento, da parte del convenuto, dell'incarico professionale conferitogli al fine di tutelare le sue ragioni in conseguenza di una lettera di licenziamento recapitatale.

Al primo incontro la donna, dopo un colloquio con il legale, gli consegnò l'originale della lettera di licenziamento e le copie di tutti i certificati medici in suo possesso e l'avvocato, dopo avere esaminato la documentazione, ebbe a rassicurarla, sostenendo che dalla documentazione non risultava che avesse superato il periodo di comporto e che il licenziamento era illegittimo.

Nel periodo successivo la cliente chiedeva spiegazioni all'avvocato circa lo stato della causa questi la rassicurava, sostenendo che la causa era a buon punto, che il ritardo era dipeso dal trasferimento di un giudice. Stanca dell'atteggiamento dell'avvocato, che rinviava gli appuntamenti dati, non rispondeva più al telefono, la cliente effettuò ricerche presso la cancelleria del Tribunale e apprese, con sommo stupore, che in realtà non era mai stata iscritta alcuna causa tra lei e l'azienda che l'aveva licenziata.

Pertanto si vide costretta a revocare l'incarico all'avvocato e a richiedergli la documentazione relativa al licenziamento che, tuttavia, questi non tu in grado di restituire adducendo di non averla più reperita.
Il Tribunale, in primo grado, ha riconosciuto la responsabilità professionale del convenuto, per non aver adempiuto all'incarico affidatogli e ciò per non aver impugnato il licenziamento, ma ha rigettato la domanda di risarcimento del danno patrimoniale, condannando il legale solo a titolo di danno non patrimoniale per il danno esistenziale patito, oltre che alla rifusione delle spese di lite.

Avverso detta decisione la cliente propone appello censurando la sentenza nella parte in cui non aveva ritenuto che l'azione proposta dall'avvocato avrebbe avuto un probabile esito vantaggioso, contestando il mancato risarcimento del danno patrimoniale.

La Corte territoriale rammenta che la responsabilità professionale dell'avvocato, al di fuori delle ipotesi di cui all'art. 2236 c-c-, presuppone, la violazione del dovere di quella diligenza media esigibile ai sensi del secondo comma dell'art. 1176 c.c., che può essere ravvisata ove questi non abbia svolto l'attività inerente ai mandato o l'abbia svolta parzialmente, ovvero anche per non avere informato il cliente dell'impossibilità di espletarla. 

L'avvocato deve assolvere a quei doveri di sollecitazione, dissuasione, informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi utili o necessari in suo possesso; di sconsigliarlo dal l'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole.

Ciò premesso poiché è risultato che l'avvocato non solo non ha adempiuto al mandato impugnando il licenziamento, ma non ha neppure informato la cliente che nessuna azione giudiziaria era stata intrapresa, ma al contrario l'ha rassicurata, facendole credere di avere depositato il ricorso, il Tribunale ha correttamente riconosciuto la responsabilità professionale dell'avvocato per la sua condotta gravemente negligente.

Tuttavia, quanto al risarcimento del danno patrimoniale, il cliente è tenuto a provare non solo di aver sofferto un danno, ma altresì che questo sia stato causato dall'insufficiente o inadeguata o negligente attività del predetto professionista e, cioè, a causa della sua difettosa prestazione professionale. 

In particolare, in relazione all'attività del difensore, l'affermazione della sua responsabilità implica l'indagine, positivamente svolta, sul sicuro e chiaro fondamento dell'azione che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata e, quindi, la certezza morale che gli effetti di una diversa attività del professionista medesimo sarebbero stati più vantaggiosi per l'assistito, non potendo presumersi dalla sola negligenza del professionista che tale sua condotta abbia in ogni caso arrecato un danno, come pure, in caso di omesso svolgimento di un'attività professionale, va provato non solo il danno subito ma anche il nesso eziologico tra esso e la condotta del professionista, in quanto non sussiste alcuna essenziale diversità tra inesatto adempimento del professionista e adempimento mancato. 

Al criterio della ragionevole certezza è tuttavia da rilevare che di recente la Suprema Corte ha sostituito quello della mera probabilità che una corretta attività del legale avrebbe comportato l'esito vittorioso del processo, parificando in tal modo la responsabilità per perdita del processo alla responsabilità per la perdita della chance di vincere il processo (Cass. 6 febbraio 1998, n. 1286; Cass. n. 10966/2004: Cass. n. 2638/2013).

Nel caso di spiecie, il Tribunale si è attenuto a tali principi rilevando che l'attrice si è limitata a produrre la sola lettera di licenziamento inviatale dalla società, con la quale le si intimava il licenziamento per superamento del periodo di comporlo, senza produrre alcuna documentazione a supporto della sua tesi, ossia che il licenziamento le era stato intimato durante il periodo di malattia.

Tuttavia, merita accoglimento la domanda nella parte in cui la donna chiede una rivalutazione del danno non patrimoniale, non avendo il Tribunale tenuto conto delle enormi sofferenze patite per un così lungo periodo: la donna avrebbe, infatti, vissuto per dieci anni con l'ansia di una decisione e con l'aspettativa favorevole prospettatale dal professionista e successivamente nella profonda delusione di aver perso ogni possibilità di essere riassunta c con l'amarezza conseguente alla presa di coscienza del raggiro di cui era rimasta vittima.

Ritiene la Corte che tenuto conto della gravità del fatto, del lungo periodo (circa 10 anni) intercorso tra il momento in cui ha preso cognizione del raggiro e la data della sentenza in cui ha vissuto con l'angoscia di non poter essere più riassunta e di dover vivere con la sola pensione sociale, rendono più adeguato liquidare l'ulteriore importo, in via equitativa, di Euro 10.000,00 oltre interessi legali dalla sentenza di primo grado al saldo.

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