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Data: 13/12/2016 18:00:00 - Autore: VV. AA. di Silvia Leone - Nell'ordinamento giuridico italiano, e in particolare nel settore del diritto penale, assume un'importanza fondamentale l'istituto del giudicato disciplinato dall'art. 649 c.p.p. Questo perché la sentenza irrevocabile emanata all'esito di un processo penale cristallizza la situazione e si erge a legge del caso concreto. Inoltre se si tratta di un giudicato di condanna ha una valenza pregnante poiché fissa la pena applicata al caso concreto, sulla base dei valori costituzionali. L'interpretazione di tale norma, tuttavia, ha comportato il sorgere di alcune questioni ermeneutiche in quanto non è stato agevole comprendere cosa bisogna intendere per "medesimo fatto", e cioè non è stato facile rinvenire la portata dell'elemento ostativo all'instaurazione di un secondo giudizio nei confronti dell'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili.
Tale questione, naturalmente, è venuta in rilievo relativamente ad una serie di casi di concreti e, soprattutto, nel caso che qui interessa, riguardo il rapporto tra la fattispecie legale disciplinata dall'art. 378 c.p. di favoreggiamento personale, aggravata dalla circostanza di cui all'art. 7 della legge n. 203 del 1991 e quella di cui all'art. 416 bis c.p. di associazioni di tipo mafioso anche straniere. Analizzando tale aspetto bisogna richiamare la sentenza n. 18376 del 2013 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Nel caso di specie le Sezioni Unite furono chiamate a pronunciarsi su un ricorso proposto dalProcuratore generale della Corte d'Appello di Palermo con il quale quest'ultimo impugnava una sentenza della Corte d'appello di non doversi procedere nei confronti dell'imputato poiché per lo stesso fatto, considerato diversamente I fatti oggetto del precedente giudizio ove si era già formato il giudicato di condanna riguardavano la condotta di favoreggiamento personale ai sensi dell'art. 378 c. p. aggravata dalla circostanza di cui all'art. 7 della legge 203 del 1991. Invece, i fatti oggetto del processo penale che era in pendenza concernevano il concorso esterno in associazione mafiosa ex artt. 110 e 416 bis c.p.Il motivo principale di ricorso era quello in base al quale si riteneva che non operasse la preclusione del ne bis in idem poiché le due fattispecie concrete non erano le medesime ai sensi dell'art. 649 c.p.p. che considera l'idem factum. Le S.U. nella pronuncia in commento, sulla base di un orientamento già ampiamente consolidatosi, evidenziano come la preclusione del ne bis in idem opera nel caso in cui vi sia una "corrispondenza biunivoca fra gli elementi dell'art. 7 della legge n. 203 del 1991) e quella di concorso esterno in associazione mafiosa di cui all'art. 416 bis Tale questione è tutt'ora problematica poiché comporta innumerevoli problemi interpretativi nelle aule giudiziarie, soprattutto quando si verifica il caso inverso, ossia quando un soggetto imputato per una condotta di favoreggiamento personale aggravata dalla ricorrenza della circostanza di cui all'art. 7 della legge n. 203 del 1991 sia già stato condannato per il reato di cui all'art. 416 bis c.p. Si attende per tale motivo l'esito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dinanzi la Consulta relative a tali aspetti.silvia.leone1993@gmail.com |
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