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Data: 29/12/2016 15:00:00 - Autore: Giuseppe Carpino Dott. Giuseppe Carpino - Non basta far firmare gli atti giudiziali a un professionista abilitato, per escludere la punibilità del falso avvocato ai sensi dell'art. 348 c.p., per il reato di esercizio abusivo di professione. È quanto ha stabilito la sesta sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza del 14 dicembre 2016, n. 52888 (qui sotto allegata). Prima di esaminare le importanti conclusioni raggiunte in tema di abusivo esercizio di una professione è utile effettuare una breve premessa rispetto alla fattispecie delineata dall'art. 348 c.p. La norma summenzionata punisce chi abusivamente eserciti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato. L'oggetto della tutela prevista dalla norma in questione è costituito dall'interesse generale, riferito alla pubblica amministrazione, che determinate professioni, richiedenti in concreto particolari requisiti di probità e competenza tecnica, vengano esercitate esclusivamente da chi, avendo conseguito una particolare competenza abilitativa di natura amministrativa, risulti in possesso dei requisisi morali e culturali richiesti dalla legge. Ad essere tutelati sono soltanto gli atti propri riservati a ciascuna professione, e non anche gli atti che, mancando di tale tipicità, possono essere compiuti da chiunque, anche se abbiano qualche connessione con quelli professionali (Cass. pen., sez. VI, 29 novembre 1983, n. 2286). Emerge, inoltre, dalla natura della norma, come la stessa, per la sua concreta operatività faccia necessario riferimento ad ulteriori fonti di integrazione necessaria, le quali hanno il compito di precisare quali risultino essere le professioni soggette ad abilitazione speciale statale nonché quando il loro esercizio debbe considerarsi abusivo. L'art. 348 c.p. assume, pertanto, natura di norma penale in bianco, tale per cui la violazione delle suddette norme integrative, risulti idonea a perfezionare il delitto in esame. L'esercizio abusivo sussiste nel momento in cui l'agente sia sfornito del titolo, ovvero non abbia adempiuto alle formalità prescritte, oppure si trovi temporaneamente interdetto o inabilitato dall'esercizio della professione. È sufficiente che il colpevole non sia iscritto nell'albo dei professionisti ovvero ne sia stato radiato quale che sia il motivo, che non può essere censurato dal giudice (Cass. pen., 13 giugno 1950, Focci, GCCC 50, 4228). Secondo la giurisprudenza, l'esame circa la sussistenza delle condizioni sopra menzionate va effettuato in concreto, verificando se, in relazione all'attività effettivamente svolta, il soggetto poteva dirsi legittimato secondo le leggi vigenti. Deve, peraltro, aggiungersi che di recente la Cassazione ha affermato che l'esercizio abusivo della professione legale non implica necessariamente la spendita al cospetto del giudice o di altro pubblico ufficiale della qualità indebitamente assunta. Il reato, infatti, si perfeziona per il solo fatto che l'agente curi pratiche legali dei clienti, ovvero predisponga ricorsi anche senza comparire in udienza qualificandosi come avvocato, tale che nell'ipotesi in cui la condotta da ultimo menzionata si accompagni alla prima, deve ritenersi leso anche il bene giuridico della fede pubblica tutelato dall'art. 495, con conseguente concorso dei reati (Cass. Pen., sez. II , 6 aprile 2004; Cass. Pen., sez. V, 6 novembre 2013, n. 646). Per quanto attiene l'elemento psicologico, la fattispecie non richiede il dolo specifico, pertanto è sufficiente la volontarietà dell'azione nella quale si concreta la condotta criminosa. Altro non occorre; né può avere rilevanza la convinzione di non operare contra legem, sia a fin di bene, perchè questa si risolve in ignoranza della legge penale (Cass. pen., sez. VI, 3 maggio 1969). Nel caso in esame, l'imputato, seppur radiato, aveva assistito il cliente in tutte le fasi della procedura, concordando con lui la strategia difensiva e incassando i compensi. Inoltre, aveva indotto l'assistito a credere che egli fosse regolarmente abilitato, in quanto ricevuto nel suo studio nel quale figurava chiaramente la scritta "avv.". Secondo la difesa, invece, si escludeva che l'attività svolta potesse essere ricondotta nel paradigma dell'art. 348 c.p. e le relative argomentazioni facevano leva sulla circostanza che egli non aveva sottoscritto le carte processuali, ma si era limitato solamente a fornire consulenza nella fase precedente al giudizio. La firma agli atti era stata, invece, apposta da un collega di studio dell'imputato regolarmente iscritto all'Ordine. La Suprema Corte nel respingere la tesi difensiva ha affermato che che costituisce esercizio abusivo della professione legale lo svolgimento dell'attività riservata al professionista iscritto nell'albo degli avvocati, anche nel caso in cui il reo abbia adottato lo stratagemma di far firmare l'atto tipico, da lui predisposto, da un legale abilitato. Da qui, dunque, il rigetto del ricorso. |
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