Data: 23/01/2017 21:50:00 - Autore: Lucia Izzo
di Lucia IzzoChi risponde dei danni da mancato approvvigionamento idrico causati dai lavori svolti dall'impresa appaltatrice nel territorio del Comune? Prima di prendersela con l'ente territoriale, ai sensi dell'art. 2051 c.c., è necessario operare un'analisi fattuale della vicenda.

La giurisprudenza in molteplici casi ha condannato il gestore dell'acquedotto, che si era impegnato alla somministrazione dell'acqua nel contratto di servizio. Ciò è avvenuto, ad esempio, nella recente sentenza n. 2182/2016 con cui la Suprema Corte ha chiarito che il gestore dell'acquedotto che aveva fatto rimanere a secco i cittadini a causa dell'inquinamento prodotto da insediamenti industriali, avrebbe dovuto ricorrere a  a fonti di approvvigionamento alternative rispetto a quelle usuali, dichiarate fuori legge, senza aspettare che chi ha inquinato approntasse misure per affrontare l'emergenza.
Ciò avviene in quanto, ex art. 1218 c.c., il debitore, in quanto tenuto a dimostrare di non aver potuto adempiere la prestazione dovuta per causa a lui non imputabile, non può limitarsi a eccepire la semplice difficoltà della prestazione o il fatto ostativo del terzo, ma deve provare di aver impiegato la necessaria diligenza per rimuovere gli ostacoli frapposti all'esatto adempimento 

Diverso il caso valutato dalla Corte di Cassazione, nella sentenza n. 9309/2012, su ricorso promosso da una donna contro il Comune poichè, a seguito dello svolgimento di lavori per l'installazione di un elettrodotto da parte dell'ENEL nel territorio comunale, erano stati causati, da parte dell'impresa appaltatrice, danni alle condutture idriche situate nel sottosuolo, con conseguente mancato approvvigionamento idrico e danni alle colture esistenti su terreni di sua proprietà

Gli Ermellini evidenziano che, dalla sentenza di secondo grado che aveva escluso la responsabilità del Comune, era emersi elementi incontestati, ossia che: i tubi sotterranei furono danneggiati a causa di negligenze da parte della società, appaltatrice dei lavori per conto dell'ENEL; la proprietà di tali tubi era di un Consorzio rimasto sempre estraneo al giudizio e che la strada nel cui sottosuolo si verificò il fatto generatore di danno era appartenente al Comune.

Ciò premesso, spiegano i giudici, la responsabilità solidale del Comune per il mancato approvvigionamento idrico conseguente alla rottura delle tubazioni sotterranee di adduzione dell'acqua potrebbe essere affermata soltanto riconoscendo che a suo carico esiste un generico obbligo di custodia derivante dalla proprietà della strada, affermazione che non risponde ai criteri elaborati dalla giurisprudenza circa l'art. 2051 del codice civile.

In riferimento alla summenzionata norma, la Cassazione ha ribadito in più occasioni il carattere oggettivo di tale responsabilità, la quale si configura in base alla sola esistenza di un nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, salva l'esclusione derivante dal caso fortuito

Tali principi hanno ricevuto applicazione anche in riferimento alla custodia dei beni demaniali, fra i quali le strade: si è detto, a questo proposito, che l'ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume responsabile dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, salvo il fortuito (sentenze 20 novembre 2009, n. 24529, e 18 ottobre 2011, n. 21508).

Nel caso specifico esaminato, tuttavia, gli enunciati principi non sono applicabili, perché manca il presupposto stesso della custodia: il danno non è stato determinato da un fenomeno riguardante la strada in sé (presenza di fango, brecciolino, attraversamento di animali et similia), bensì è da ricondurre all'azione di un terzo (l'appaltatore) su un oggetto (i tubi di adduzione dell'acqua) collocato nel sottosuolo e non di proprietà del Comune, in esecuzione di lavori non riconducibili in alcun modo all'iniziativa del Comune stesso

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