Data: 19/02/2017 17:00:00 - Autore: Lucia Izzo
di Lucia Izzo - Rischia una condanna per esercizio abusivo della professione il praticante dell'avvocato che si presenta al cliente come il professionista incaricato di trattare il caso, riscuote acconti, firma quietanze e intrattiene contatti con la controparte.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 7630/2017 (qui sotto allegata) chiamata a esprimersi sulla vicenda di un praticante, condannato per falso materiale in scrittura privata ed esercizio abusivo della professione di avvocato.

L'imputato, collaboratore presso uno studio legale, nonostante non fosse abilitato all'esercizio della professione, si era presentato agli assistiti come avvocato incaricato della trattazione della causa, facendo sottoscrivere ai clienti quietanze e attestazioni di pagamento e ricevendo acconti in denaro.

Stante la conferma della condanna alla pena di giustizia e al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, il ricorrente in Cassazione si difende affermando che l'aver fatto sottoscrivere ai clienti quietanze e attestazioni di pagamento, nonché l'aver ricevuto acconti in denaro, non avrebbero rappresentato un'attività tipica della professione legale, da cui far discendere la condanna per il reato di cui all'art. 348 del codice penale.

Gli Ermellini disattendono tali assunti, evidenziando come la Corte d'Appello abbia richiamato una giurisprudenza consolidata al fine di ritenere che le attività che lo stesso imputato ha ammesso di aver svolto nell'ambito della controversia civilistica fossero, nel suo complesso, tipiche della professione forense.

Le Sezioni Unite, nella sentenza n. 11545/2011, hanno infatti affermato che "integra il reato di esercizio abusivo do una professione (art. 348 c.p.), il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da un soggetto regolarmente abilitato".

Nonostante la dichiarata inammissibilità del ricorsi, i giudici di Cassazione annullano senza rinvio parte della sentenza impugnata limitatamente al fatto di cui all'art. 485 c.p. (falsità in scrittura privata) in quanto, a seguito di depenalizzazione, non è piu previsto dalla legge come reato.

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