Data: 03/03/2017 11:00:00 - Autore: Chiara Muratori

Avv. Chiara Muratori - L'art. 269 c.c. nel disciplinare l'istituto della dichiarazione giudiziale di paternità e/o maternità naturali statuisce che nel giudizio promosso la prova della fondatezza della domanda può trarsi anche unicamente dal comportamento processuale delle parti. Pertanto non sussistendo un ordine gerarchico delle prove in merito all'accertamento giudiziale, il rifiuto ingiustificato del padre di sottoporsi agli esami ematologici o al tampone salivare può essere liberamente valutato dal Giudice ai sensi dell'art. 116 c.p.c., anche in assenza di prova dei rapporti sessuali tra le parti.

La dichiarazione della madre, da sola, non determina infatti una prova come non è sufficiente dimostrare solo l'esistenza nel periodo del concepimento di relazioni o rapporti tra la madre ed il presunto padre. Tuttavia tali circostanze, se unite ad ulteriori elementi, possono essere impiegate a sostegno del convincimento del giudice compreso il rifiuto di sottoporsi alle indagini per il test del DNA da parte del padre presunto. Tale accertamento rappresenta, del resto, la prova principe poiché consente di accertare la fondatezza della domanda in termini oggettivi e senza ragionevoli margini di errore.

Premesso che la prova della paternità può essere data con qualsiasi mezzo, il Giudice è libero di valutare i fatti e gli indizi acquisiti ed in particolare il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad un prelievo ematico che consenta con un margine di certezza del 99% di escludere la paternità. Affinché ciò si verifichi si dovrà trattare di un rifiuto ingiustificato e pretestuoso da parte del presunto padre che andrà collocato nel quadro probatorio degli altri elementi raccolti nel giudizio così da formare la conclusione della gravità e della concordanza delle presunzioni ai sensi dell'art. 2729 c.c.

Commette, quindi, una grave imprudenza il presunto genitore naturale che rifiuta di sottoporsi all'esame del DNA nel corso del giudizio sorto per l'accertamento della genitorialità naturale.

Il rifiuto di sottoporsi al test del DNA, se privo di valida giustificazione, è valutabile come un'ammissione di responsabilità e stessa valutazione si avrà in caso di assenza ingiustificata agli appuntamenti fissati dal consulente per procedere ai prelievi. Tale visione ed interpretazione non costituisce una forzatura rispetto alla volontà o ai diritti della persona nei confronti della quale è in corso l'accertamento, poiché questo tipo di indagine non lede né la privacy dei soggetti coinvolti né costituisce una minaccia per il loro stato di salute.

Va, infine, ribadito che dalla possibilità di dedurre argomenti di prova dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi a prelievi ematici o salivari al fine dell'espletamento dell'esame del DNA, non deriva una restrizione della libertà personale, avendo il soggetto piena facoltà di determinazione in merito all'assoggettamento o meno ai prelievi, mentre il trarre argomenti di prova dai comportamenti della parte costituisce applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne resti pregiudicato il diritto di difesa. Inoltre, il rifiuto aprioristico della parte di sottoporsi ai prelievi non può ritenersi giustificato nemmeno da esigenze di tutela della riservatezza, tenuto conto sia del fatto che l'uso dei dati nell'ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di giustizia, sia del fatto che il sanitario chiamato dal giudice a compiere l'accertamento è tenuto tanto al segreto professionale che al rispetto della L. 31 dicembre 1 1996 n. 675 (Cass. Civ. Sez. I n. 5116 del 3 aprile 2003, n. 9394 del 18 maggio 2004 e n. 27237 del 14 novembre 2008).

La Suprema Corte (Cass. Civ. Sez. I n. 10947 del 19.5.2014) chiarisce che i dati genetici - dotati di una loro peculiarità in quanto contenenti un corredo identificativo unico ed esclusivo per ciascun individuo - possono essere anche dati sensibili, potendo qualora essere destinati a rivelare uno del profili indicati nell'art 4, comma 1, lett. d, D.lgs. 30 giugno 2003 n. 196 a tutela dell'origine razziale ed etnica, delle convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, delle opinioni politiche, dell'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché dello stato di salute e della vita sessuale. Non sono considerati dati sensibili, invece, pur essendo certamente personali, quando sono diretti, come nel caso di specie, allo svolgimento di indagini per verificare la consanguineità tra due soggetti. Di qui la loro disciplina specifica, contenuta in un apposito capo del titolo V del D.lgs. n. 193 del 2003, relativo ai dati sanitari, e in particolare nell'art. 90, che richiede, in generale, per il trattamento dei dati genetici da chiunque effettuato, un'apposita autorizzazione del Garente della privacy ed il consenso informato del titolare dei dati. Mente però l'autorizzazione del Garente n. 2 del 2002 era relativa ai dati genetici idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, ossia quei dati genetici di natura sanitaria (rispetto ai quali consentiva per certe finalità, essenzialmente di tutela di diritti in sede giudiziaria, il trattamento anche senza il consenso dell'interessato), solo con l'autorizzazione 22 febbraio 2007 il Garante è intervenuto a disciplinare il trattamento anche dei dati genetici di natura non sanitaria. Tuttavia, osserva ancora la Corte, il trattamento di dati genetici di natura non sanitaria, quali quelli diretti allo svolgimento di indagini per verificare la consanguineità tra due soggetti, in vista di una futura azione di disconoscimento o accertamento della genitorialità, non ha alcuna finalità sanitaria e non è riconducibile all'esercizio, in sede giudiziaria, di un diritto della personalità di rango quantomeno pari a quello del controinteressato.

Ciò premesso l'esame genetico in sede di giudizio di accertamento di genitorialità appare del tutto conforme al disposto dell'art. 30 Cost. che demanda alla legge di determinare i modi per la ricerca della paternità nonché all'art. 13 Cost. che prevede che nessuna ispezione, perquisizione o restrizione delle libertà personali è consentita, se non nei casi previsti dalla legge e su atto motivato dell'Autorità Giudiziaria, dal momento che l'art. 269 co. 2 c.c. in attuazione di detti disposti costituzionali stabilisce che la prova della paternità può essere data con qualunque mezzo, tra cui però può ben comprendersi anche l'esame ematico o salivare. La Cassazione, come detto, ha già avuto modo di accertare che il prelievo ematico è di ordinaria amministrazione medica e non lede la dignità o la psiche della persona (art. 2 Cost.) né mette in pericolo la vita, l'incolumità o la salute (art. 32 Cost.)

Avv. Chiara Muratori

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