Data: 13/04/2017 10:00:00 - Autore: Lucia Izzo
di Lucia Izzo - Gravi problemi di salute occorsi all'avvocato oppure a un suo congiunto costituiscono causa di possibile giustificazione per il mancato assolvimento dell'obbligo di formazione continua. Lo ha stabilito il Consiglio Nazionale Forense, nella sentenza n. 218/2016 (qui sotto allegata), pubblicata sul sito istituzionale il 9 aprile 2017.

Il ricorso era stato presentato da un avvocato al quale il competente Consiglio dell'Ordine aveva inflitto la sanzione disciplinare della censura, per aver violato gli obblighi di formazione continua previsti dal Codice Deontologico e dal Regolamento del 13 luglio 2007, non avendo conseguito nel triennio 2008/2010 la misura minima di 50 crediti formativi relativi richiesti.

Nelle sue difese, tra l'altro, il professionista ha evidenziato e documentato circostanze straordinarie e rilevanti problemi familiari legati ad una delicata patologia del figlio, che lo avrebbero pressoché totalmente assorbito costringendolo anche a viaggi all'estero, limitando la sua partecipazione ai corsi formativi ritenuti di maggior interesse.

Nonostante tali difese, il COA aveva ritenuto ugualmente di sanzionare l'iscritto: da qui, il reclamo tempestivamente presentato al Consiglio Nazionale Forense, il quale, esaminate le doglianze, ritiene che il ricorso vada accolto.

Il COA, precisa il Collegio, non ha dato la dovuta rilevanza alle circostanze familiari enunciate e sufficientemente documentate dal professionista, trascurando di valutare la gravità e il susseguirsi delle patologie che hanno colpito il figlio dell'avvocato dal marzo 2008; il COA avrebbe trascurato altresì la rilevanza degli effetti psicologici che tali patologie e gli interventi chirurgici susseguitisi sono in grado di generare nei genitori, in base alla comune esperienza.

Non si può affermare che la doglianza vada archiviata perché il figlio aveva 26 anni di età e quindi "già di età adulta" e che il viaggio all'estero era durato solo dieci giorni: infatti, non possono trascurarsi il trauma e la sofferenza che derivano, a qualsiasi genitore "degno" del suo ruolo e compito, dalla necessità di sottoporre il figlio ad un secondo ricovero all'estero, con un secondo intervento cardiaco, cui fanno seguito "trattamenti fisioterapici e rieducativi" protrattisi per circa tre mesi.

Se agli interventi suddetti si aggiungono quelli ulteriori, prima all'occhio sinistro e poi all'occhio destro, la valutazione del COA territoriale non appare condivisibile in quanto, pur sussistendo il fatto addebitato, non ha adeguatamente valutato la eventuale insussistenza dell'elemento soggettivo, giungendo alla decisione solo in forza del dato fattuale della mancanza di crediti sufficienti.

L'art. 3 del codice deontologico, in vigore al momento della decisione, oggi ripreso dall'art. 4 dell'odierno CDF, prevede che la responsabilità professionale derivi dalla inosservanza dei doveri e delle regole di condotta, purché frutto di un comportamento cosciente e volontario, sia esso commissivo od omissivo.

Il Consiglio dell'Ordine non ha adeguatamente valutato proprio la volontarietà del comportamento e quindi la sussistenza dell'elemento psicologico in capo all'incolpato: la domanda che non è stata formulata è se l'avvocato abbia deliberatamente deciso di non frequentare i corsi di aggiornamento o fosse piuttosto pressoché totalmente assorbito dalla situazione di pericolo in cui viveva il figlio prima per gli interventi a cuore aperto (evidentemente non di routine se si è ritenuto di appoggiarsi ad una struttura canadese) e poi, a distanza di un anno e mezzo circa, a entrambi gli occhi.

Nonostante possa eccepirsi la mancanza di una prova certa degli effetti che la complessa e complessiva situazione sanitaria del figlio ha generato nei genitori, proprio nel triennio, in tal caso per il Collegio si può, e forse si deve, proprio in assenza di prova certa, fare ricorso alla comune esperienza e/o alla prova presuntiva.

Queste consentono al Consiglio di ritenere che la gravità delle condizioni di salute del figlio, tale da generare in qualsiasi genitore il timore per la sua sopravvivenza o per la qualità della vita che ne deriverà, sia circostanza di fatto tale da generare nei genitori (e nel padre, per quel che ci occupa) un stato di ansia così rilevante, intenso e protratto nel tempo sicuramente idoneo a togliere ogni certezza in ordine alla sussistenza dell'elemento psicologico, imposto dai menzionati articoli del Codice.

Il fatto che poi l'avvocato abbia comunque conseguito dei crediti formativi, che non sia incorso in precedenti comportamenti deontologicamente rilevanti, che avesse un'età (irrilevante sotto il profilo dell'obbligo di aggiornamento) nella quale notoriamente si acuiscono gli effetti ansiosi, che a volte sfociano in depressione specie a fronte di situazioni di pericolo che colpiscono i propri famigliari e i figli in particolare, sono tutte circostanze che inducono legittimamente a presumere che l'avvocato non "volesse" compiere la violazione accertata, ma sia stato sommerso da un complesso e da un divenire di situazioni familiari che lo hanno assorbito il proprio "centro di interesse", lasciando scivolare in un secondo piano il dovere di aggiornamento.

Neppure, in senso contrario, si potrà argomentare che, in ogni caso, l'avvocato ha svolto la propria attività professionale in quanto, all'evidenza, si tratta di "doveri" posti su piani diversi: il primo attiene agli obblighi assunti nei confronti della clientela e dei terzi in generale (dipendenti, collaboratori, giudici ecc.); il secondo è un obbligo che investe sé stessi ed è proprio questo che è destinato a soccombere a fronte di eventi sicuramente traumatici, quali quelli vissuti dall'avvocato.

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