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Data: 14/04/2017 21:00:00 - Autore: Gabriella Lax di Gabriella Lax - Criticare il capo su WhatsApp può essere giusta causa di licenziamento? Sarà il giudice del lavoro di Parma a dover trovare una risposta a questo quesito. Il caso, come racconta Adnkronos, ha avuto come protagoniste due lavoratrici di 29 anni, assunte a tempo indeterminato in una piccola azienda parmense che si occupa di confezionamento di prodotti alimentari e ortofrutticoli. Come succede sovente nell'era della comunicazione social, le dipendenti dell'azienda in questione hanno un piccolo gruppo WhatsApp usato per concordare esigenze lavorative o eventuali scambi di turno e, se scappa, anche parlare del più e del meno. In un momento critico dal punto di vista lavorativo le due dipendenti si sono lasciate andare, facendosi scappare qualche parola di troppo nei confronti del capo azienda che dalla chat privata era escluso. «Atti di goliardia – commenta Silvia Caravà, avvocato di Fai Cisl che difende le due lavoratrici – probabilmente non troppo dissimili da quelli che si sentono in tutti i luoghi di lavoro». Peccato però che qualcuno ha stampato i messaggi e li ha fatti pervenire al diretto interessato che, a gennaio, ha prima inviato contestazione disciplinare alle dipendenti facendo riferimento a «pesanti offese» ricevute dalle stesse e quindi, trascorsi i cinque giorni che la legge prevede per le repliche, ha comminato loro la massima sanzione prevista in circostanze del genere, ossia il licenziamento. L'avvocato insiste, «I messaggi, poi, non avevano alcuna caratteristica diffamatoria. In azienda non c'era un clima particolarmente sereno, le ragazze si sfogavano con battute e considerazioni goliardiche: nessun insulto, niente offese». Il provvedimento è stato impugnato dalle due lavoratrici che hanno chiesto di essere reintegrate nel posto di lavoro ed il risarcimento danni, con una difesa che punta sulla segretezza della conversazione che ha dato origine al licenziamento e il contenuto tutt'altro che diffamante delle affermazioni in questione. «Sul primo versante – afferma l'avvocato Caravà – c'è una sentenza del Tribunale di Milano che, riferendosi a quanto scritto in una newsletter, dà ragione ai dipendenti, tirando in ballo l'articolo 15 della Costituzione. E mi pare che un gruppo di WhattsApp sia perfettamente accomunabile a una newsletter. Quanto al contenuto delle esternazioni, non c'è nulla che possa aver arrecato reale nocumento alla controparte». La vicenda arriverà in aula tra poche settimane poiché la prima udienza davanti al Tribunale del Lavoro di Parma è in programma a maggio. Se la causa venisse svolta in tutto il suo iter, potrebbe durare un anno o anche meno. Al Foro di Parma la decisione finale… |
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