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Data: 02/05/2017 14:00:00 - Autore: Lucia Izzo di Lucia Izzo - La convivente more uxorio deve lasciare la casa del compagno deceduto alla moglie separata e alla figlia in quanto eredi. Per le relazioni antecedenti la legge sulle unioni civili (76/2016), infatti, non è riconosciuto il diritto a permanere nella casa del compagno. In seguito alla Cirinnà, invece, la permanenza è concessa per il tempo necessario a trovare una nuova sistemazione, ma non oltre cinque anni, periodo modulabile in base alla durata della convivenza e altri parametri, come la presenza di figli minori o disabili. Lo ha precisato la Corte di Cassazione, terza sezione civile, nella sentenza n. 10377/2017 (qui sotto allegata) rigettando il ricorso di una donna condannata in sede di merito al rilascio di un immobile detenuto sine titulo a favore della moglie e della figlia del suo convivente separato. Per il giudice di merito il prolungato rapporto di convivenza "more uxorio" tra la donna e il compagno non attribuiva alla prima alcun titolo idoneo a possedere o detenere l'immobile, né il diritto di abitazione ex art 540, comma 2 e 1022 c.c. riservato al coniuge (avendo la Corte costituzionale n. 310/1989 ritenuto la esclusione del convivente more uxorio compatibile con gli artt. 2 e 3). In Cassazione, la ricorrente sostiene che l'evoluzione del sistema sociale e la preminenza assunta nell'ordinamento dalle formazioni sociali di cui all'art. 2 Cost. hanno portato la giurisprudenza costituzionale e della Corte di legittimità a qualificare come interesse meritevole di tutela l'affectio derivante dal rapporto di convivenza "more uxorio" ove caratterizzato da apprezzabile stabilità. Si sarebbe così, a detta di parte, riconosciuto al convivente non titolare di diritti reali o relativi sull'immobile destinato ad abitazione della coppia, la titolarità di una relazione con il bene qualificata come detenzione autonoma, tale da legittimare il godimento del bene anche dopo il decesso del convivente. Il convivente ha una "detenzione qualificata" dell'immobileCiononostante, per gli Ermellini il motivo è infondato. I giudici evidenziano che la convivenza "more uxorio", quale formazione sociale che dà vita a un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente. Questo è diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità e assume i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, con la conseguenza che l'estromissione violenta o clandestina dall'unità abitativa, compiuta da terzi e finanche dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest'ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l'azione di spoglio. Tuttavia, la detenzione qualificata del convivente non proprietario né possessore, è esercitabile e opponibile ai terzi in quanto permanga il titolo da cui deriva e cioè in quanto perduri la convivenza "more uxorio". Ne segue che una volta venuto meno il titolo, per cessazione della convivenza, dovuta a libera scelta delle parti ovvero in conseguenza del decesso del convivente proprietario-possessore, si estingue anche il diritto avente a oggetto la detenzione qualificata sull'immobile. Una continuazione della relazione di fatto tra il bene e il convivente (già detentore qualificato) superstite, potrà ritenersi legittima soltanto in base alla eventuale istituzione del convivente superstite come coerede o legatario dell'immobile in virtù di disposizione testamentaria oppure alla costituzione di un nuovo e diverso titolo di detenzione da parte degli eredi del convivente proprietario. La rilevanza sociale e giuridica che riveste la convivenza di fatto, non incide infatti, salvo espressa disposizione di legge, sul legittimo esercizio dei diritti spettanti ai terzi sul bene immobili: non è ratione temporis applicabile alla fattispecie, spiega la Cassazione, la norma dell'art. 1, comma 42, della legge 20 maggio 2016 n. 76 che conferisce al convivente superstite un diritto di abitazione temporaneo (non oltre i cinque anni) modulato diversamente in relazione alla durata della convivenza e alla presenza di figli minori o disabili. Nelle situazioni antecedenti la legge Cirinnà, dunque, potrà al più venire in rilievo il canone di buona fede e di correttezza "dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento" che impone al soggetto che legittimamente intende rientrare, in base al suo diritto, nella esclusiva disponibilità del bene, di concedere all'ex convivente un termine congruo per la ricerca di una nuova sistemazione abitativa. "Gratuità" delle prestazioni rese more uxorioAncora, la ricorrente di aver depositato in giudizio "dettagliati conteggi" della retribuzione spettante a una "badante" e che il valore patrimoniale di tali prestazioni, da lei effettuate negli ultimi due anni a favore del convivente poi deceduto, avrebbero determinato un arricchimento della figlia di questi. Anche tale motivo è infondato e vanno esclusi i presupposti dell'art. 2041 c.c. in quanto l'assistenza e la cura prestate al convivente fino al decesso dovevano ricomprendersi tra gli obblighi morali derivanti dal rapporto "more uxorio", come tali non riconducibili a causa di scambio connotata da nessi di corrispettività e commutatività tra le reciproche prestazioni. Ancora, il "de cuius" era percettore di pensione e aveva sostenuto con le proprie risorse economiche tutte le spese di assistenza e cura. Non può essere accolto l'assunto difensivo secondo cui non sussiste gratuità nelle prestazioni rese tra conviventi in ambito "more uxorio": questa teoria, spiegano i giudici, configge con la ricostruzione della convivenza di fatto come formazione sociale volta costituire una comunità familiare, nella quale l'apporto collaborativo economico e morale di ciascun convivente va riguardato non come adempimento di una serie di prestazioni autonomamente valutabili, ma come spontaneo contributo di ciascun convivente al perseguimento del benessere materiale e spirituale della comunità. Ancora, l'affermazione si pone in evidente contrasto con la tesi affermata dalla stessa ricorrente secondo cui la rilevanza giuridica della convivenza more uxorio doveva rinvenirsi nella "affectio" della coppia (non quindi nello scambio di reciproche attribuzioni patrimoniali tra i conviventi). Sicchè, avuto riguardo alla lunga durata della convivenza (quarantasette anni) appare del tutto implausibile una sorta di interversione della affectio in un rapporto di lavoro subordinato, come pretenderebbe la donna.
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