Data: 06/06/2017 15:50:00 - Autore: Emanuele Cocchiara
di Emanuele Cocchiara - Per capire l'impatto e la portata della controversa sentenza 251/2016 (sotto allegata) con cui la Corte Costituzionale ha bocciato il punto cardine della riforma della Pubblica Amministrazione, è necessario innanzitutto capire quali principi e precedenti sono alla base del pensiero espresso dai giudici costituzionali e, successivamente, analizzare il vero nodo centrale della questione, ossia il controllo di legittimità costituzionale sulla legge delega.
Numerose dichiarazioni, di esponenti politici e del mondo del diritto, hanno evidenziato come
la sentenza 251/2016 sia inaspettata e addirittura senza precedenti.
Tuttavia si deve necessariamente evidenziare e distinguere quali aspetti della sentenza possono
essere definiti inaspettati e quali, al contrario, sono in realtà principi più volte rimarcati in
precedenti sentenze della Consulta.
Partiremo pertanto dai principi costituzionali ricavati da pronunce passate e riemersi in questa
sentenza, prima di passare al punto decisamente più controverso e con più conseguenze
pratiche.

1.Precedenti e principi sulla ripartizione di competenze: la leale collaborazione

La sentenza che ha sostanzialmente bocciato il punto cardine della tanto auspicata riforma della
Pubblica Amministrazione, dichiarando illegittimo il procedimento di emanazione dei decreti
legislativi delegati, aveva come base il principio, ritenuto violato dalle disposizioni della legge
delega, di leale collaborazione sancito in particolare dall'Art.120 Cost.
Il principio di leale collaborazione viene richiamato in numerosi precedenti in materia di
questioni di legittimità portate avante dalle regioni nei confronti di leggi dello stato, riguardanti
materie di potestà legislativa concorrente o residuale, che non sono passate al vaglio dell'intesa.
Come ricordato dal Presidente della Corte Costituzionale, Alessandro Criscuolo, nella relazione
annuale del 2015, vi sono state pronunce di rigetto su questioni promosse dalle regioni riguardo
ad ambiti che riguardavano materie sulle quali si riscontrava una competenza prettamente
statale; infatti la sentenza 297/2012 rigetta una questione promossa sul decreto legge 91/2012, il
quale prevedeva la copertura di oneri finanziari concernenti il Fondo per lo sviluppo e la
coesione, poichè si trattava di una materia di competenza statale e pertanto non poteva essere
richiamato tale principio.
Tuttavia da questa affermazione emerge che, qualora non si identifichi l'ambito di competenza
prevalente in un determinato testo di legge, il principio di leale collaborazione deve
necessariamente essere applicato in modo da contemperare gli interessi statali e regionali; in
questo senso vanno alcune più recente sentenze, le quali affermano invece che se non si
individua in termini qualitativi e quantitativi un ambito materiale prevalente sugli altri,
comportando l'impossibilità di applicare il principio di prevalenza, risulta necessaria
l'attuazione di un mezzo di collaborazione fra Stato ed enti locali che vada oltre il mero parere.
Un esempio è la sentenza 140/2014, che individua una competenza concorrente fra stato e
regioni nei d.l 91/2013 e 83/2014 e pertanto sanciva che "in assenza di criteri contemplati in
Costituzione e avendo riguardo alla natura unitaria delle esigenze di tutela e valorizzazione del
patrimonio culturale, giustifica l'applicazione del principio di leale collaborazione, che deve,
in ogni caso, permeare di sé i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie", dichiarando
conseguentemente le disposizioni illegittime nelle parti in cui non prevedevano l'intesa.
La fondamentale importanza dell'intesa in sede di Conferenza Unificata si evince a contrario da
prununcie che hanno dichiarato inammissibile ricorsi avente ad oggetto una presunta lesione
della leale collaborazione nonostante la previsione dell'intesa.
Emblematica in tal senso è la sentenza 1/2016, riguardante il ricorso proposto dalle Province
Autonome di Trento e Bolzano sul d.l. 133/2014 ("Misure urgenti per l'apertura dei cantieri la
realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione
burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività' produttive")
ossia il c.d. Decreto sblocca Italia.
I ricorrenti lamentano che l'Art.31 del d.l. andrebbe a intaccare materie di competenza
legislativa e amministrativa delle province autonome, quali l'edilizia e il turismo e che la
previsione della intesa in sede di Conferenza Unificata non sarebbe adeguata a garantire la leale
collaborazione perchè consente al Governo di procedere unilateralmente, con deliberazione
motivata, quando l'intesa non è raggiunta entro trenta giorni, ovvero in caso di «motivata
urgenza», salvo sottoporre entro 15 giorni i provvedimenti adottati all'esame della Conferenza
Stato-Regioni.
La Corte Costituzionale si esprime per l'inammissibilità del ricorso, precisando che la facoltà
per l'esecutivo di procedere è un normale strumento di superamento del dissenso, volto ad
impedire che il mancato accordo pieno blocchi l'intero procedimento, specificando però che
l'agire del governo non può essere giustificato meramente dalla mancanza dell'accordo entro il
termine; infatti la sentenza dichiara espressamente: Il principio di leale collaborazione esige
che le procedure volte a raggiungere l'intesa siano configurate in modo tale da consentire
l'adeguato sviluppo delle trattative al fine di superare le divergenze. Interpretata alla luce dei
suddetti principi, la disciplina di cui al d.lgs. n. 281 del 1997, richiamata dalla disposizione
impugnata, richiede che l'eventuale determinazione unilaterale da parte del Governo in caso di
mancata intesa sia corredata da una motivazione esplicita, specifica e concreta, ove si dia
conto degli scambi intercorsi e dei perduranti punti di dissenso e, alla luce di ciò, si illustrino
le ragioni per cui si ritiene urgente una determinazione della sola parte statale, o comunque
non più praticabile - eventualmente anche dopo la scadenza del previsto termine di 30 giorni -
un ulteriore protrarsi delle trattative. Degli eventuali difetti di questa motivazione e della
dialettica ad essa retrostante, le Regioni e le Province autonome potranno eventualmente
dolersi nei modi appropriati, anche dinanzi a questa Corte.
In uno dei numerosi commenti a questa sentenza (Alessandro Candido, docente dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, Giurisprudenza Costituzionale Giuffrè vol.1, 2016), viene fatto notare che la decisione della corte fa venir meno la distinzione ipotizzata fra intese forti (che se non completate impediscono
l'avanzare del procedimento) e quelle deboli (che vengono superate con atto motivato
dell'esecutivo), ritenendo esistente un solo tipo di intesa che corrisponderebbe a quella
considerata "debole" e che, nonostante la possibilita di superamento unilaterale, rappresenta la
via della concretizzazione del parametro della leale collaborazione (sentenza 31/2006)

1.1 Chiamata in sussidiarietà

Vi sono stati casi in cui lo Stato, nel disciplinare determinate materie, ha agito stabilendo
regole dettagliate quando avrebbe dovuto limitarsi a delineare i principi entro cui le regioni
avebbero dovuto legiferare, data la potestà concorrente della materia in oggetto secondo
l'Art.117 Cost.
Sostanzialmente è cio che il ricorrente Regione Veneto, nel caso della sentenza 251/2016, ha
evidenziato con riguardo all'Art.11 della legge delega in materia di Dirigenza Pubblica, in
quanto non si limitava a dettare principi generali ma disciplinava nel dettaglio la materia.
Una legiferazione statale su una materia di potestà concorrente o residuale non è contraria
all'ordinamento poichè lo stesso Titolo V della costituzione prevede la chiamata in
sussidiarietà, ossia la facoltà per lo Stato di disciplinare materie per le quali non gode di potestà
esclusiva, derogando pertanto alla ripartizione di competenze, come emerso da più pronunce
costituzionali.
Tuttavia, per non comportare un'eccessiva compressione della potestà regionale e per evitare un
mancato contemperamento di interessi, è previsto in questi casi un preventivo coinvolgimento
delle Regioni, che, se non attuato, comporterebbe una inevitabile declaratoria di illegittimità.
Nel corso degli anni lo Stato ha agito spesso attraverso chiamata in sussidiarietà senza essersi
confrontato adeguatamente, e quindi attraverso un'intesa in sede di Conferenza Unificata, con le
Regioni; infatti vi sono numerose pronunce nella medesima direzione, come ricordato dalla
sentenza 163/2012, la quale dichiara parzialmente illegittimo il d.l 98/2011, che prevede un
piano strategico per la la creazione ed il finanziamento di una struttura di telecomunicazioni a
banda larga, poichè non prevede che tale piano sia concordato attraverso un intesa con le
regioni.
Quest ultima pronuncia specifica che "nei casi di attrazione in sussidiarietà di funzioni relative
a materie rientranti nella competenza concorrente di Stato e Regioni, è necessario, per
garantire il coinvolgimento delle Regioni interessate, il raggiungimento di un'intesa, in modo
da contemperare le ragioni dell'esercizio unitario di date competenze e la garanzia delle
funzioni costituzionalmente attribuite alle Regioni".
Dall'applicazione di questi due principi da parte della giurisprudenza della Corte Costituzionale
emerge che in realtà la sentenza 251/2016 non è una novità nel nostro ordinamento, poichè non
fa altro che riaffermare il principio generale secondo cui lo Stato può, da un lato evocare a se
competenze concorrenti o residuali delle regioni, ma dall'altro deve necessariamente, se non si
limita a dettare principi generali, agire con una preventiva intesa di conferenza unificata, in
modo da prendere una decisione dopo un reale e concreto confronto con le Regioni.

2. Avendo analizzato i principi che hanno ispirato la sentenza, constatando la loro presenza nella
giurisprudenza costituzionale, rimane adesso da analizzare la pronuncia da un punto di vista più
"tecnico", evidenziando la tipologia di sentenza e la categoria di atto oggetto del giudizio di
legittimità.


2.1 Sentenza additiva di procedura

La peculiare tipologia di sentenza che censura la norma impugnata nella parte in cui non
prevede un adeguato coinvolgimento delle regioni, richiamando sempre il principio di leale
collaborazione, è chiamata additiva di procedura; questo perchè nell'accogliere il ricorso, la
Corte aggiunge una o più fasi nell'iter approvativo della norma impugnata.
La nascita di questo tipo di pronuncia è ovviamente collegata alla ripartizione di competenze fra
stato ed enti locali sancita dalla riforma del Titolo V, legge cost. 3/2001.
Partendo dal presupposto che non vi sono norme di rango costituzionale che impongono precise
forme di raccordo fra Stato e Regioni nel procedimento legislativo, si arriva alla conclusione
che non può essere dichiarata incostituzionale l'intera norma che non prevede una procedura
ispirata alla leale collaborazione, ma solamente la specifica disposizione che omette quel
procedimento.
Nel caso in cui la sentenza, riguardante una legge che da all'esecutivo il compito di emanare atti
amministrativi, interviene a dichiarare l'illegittimità della procedura quando tali atti sono già
stati emanati, incontra il limite dei "rapporti esauriti" nonostante la sua efficacia retroattiva.
Per questo motivo appare ancora più problematico l'effetto della sentenza 251/2016, non già
riguardo a quei d.lgs approvati dal Consiglio dei Ministri ma non ancora emanati (come quello
sulla dirigenza pubblica) ma riguardo a quelli che erano già entrati in vigore come ad esempio il
Testo Unico sulle Società a partecipazione pubblica.
Infatti ci si chiede se questi atti già divenuti legge dello stato, siano colpiti da irregolarità
successiva o siano sanabili con una semplice intesa a posteriori.


3. Giudizio di legittimità sulla legge delega

Il punto cardine della questione non è però la tipologia di sentenza, perchè la Corte sovente
indica al legislatore quale procedimento sarebbe stato più corretto adottare per emanare una
determinata disposizione impugnata e, come abbiamo già visto, neanche quello che attiene alla
condanna sul procedimento lesivo della leale collaborazione sancito dalla legge delega, ma il
punto controverso è il fatto che venga sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale una legge
delega che per natura è rivolta al Governo e non intacca direttamente i diritti e le competenze
regionali.
Infatti in un primo momento storico la giurisprudenza, e parte della dottrina, negano la
possibilità di passare al vaglio di legittimità una legge delega.
Quando la questione è affrontata per la prima volta della Corte Costituzionale, nella sentenza
111 del 1972, poi richiamata dalla sentenza 91/1974, i giudici sanciscono che "la legge di
delegazione legislativa è soltanto fonte di un potere governativo, ha valore preliminare e, per
non essere legge materiale interessante la Regione, dovrà essere integrata dall'atto di esercizio
della delegazione. Il suo controllo di legittimità è strumentale a quello relativo alla legittimità
della legge delegata; non può essere cioè promosso come fine a se stante, tanto più che non si
può escludere in via di fatto che il termine della delegazione trascorra inutilmente"
A queste si susseguirono altre numerose sentenze che però andavano nella medesima direzione,
fino ad un radicale mutamento avvenuto con la sentenza 224/1990, avente ad oggetto la
legittimità della legge delega 349/1989 (disposizioni in materia doganale) su ricorso della
Provincia Autonoma di Bolzano.
Questa sentenza, seppur in quel caso specifico dichiarava infondata la questione, è di
fondamentale importanza perchè attraverso di essa per la prima volta si riconosce alla legge
delega la caratteristica di un vero e proprio atto normativo e non più un mero atto formale,
come si è ritenuto fino a quel momento.
Perciò, riconoscendogli questa caratteristica, non si può più escludere con facilità che essa
"possa contenere un principio di disciplina sostanziale della materia o una regolamentazione
parziale della stessa ovvero possa stabilire norme attributive di competenza, da cui potrebbe
derivare una diretta e immediata incidenza sulle attribuzioni costituzionalmente garantite alle
regioni o alle province autonome", e di conseguenza potrà quindi essere oggetto di
impugnazione al fine di impedire l'emanazione di decreti legislativi delegati ulteriormente lesivi
di diritti e principi sanciti dalla costituzione.
Quello che emerge da successive sentenze, in relazione a ricorsi riguardanti presunte violazioni
di potestà legislative regionali, è che l'analisi non riguarda la tipologia di atto in sé, ma riguarda
la possibilità che i principi e criteri sanciti dalla legge delega diano spazio al legislatore
delegato di agire in modo da non violare il dettato costituzionale sulle competenze regionali e
sulle modalità di concertazione.
Tuttavia, nonostante l'evoluzione dottrinale sopra evidenziata, non deve essere trascurato il fatto
che la Consulta si è comunque trovata a giudicare la legittimità di leggi delega da un altro punto
di vista, ossia quello della sua caratteristica fondmentale di dover contenere i principi e criteri
direttivi per l'emanazione dei decreti legislativi delegati.
Infatti la Corte è stata chiamata a specificare che tali principi e criteri devono essere
sufficientemente dettagliati, evitando le c.d. Deleghe in bianco che sostanzialmente lasciano
all'esecutivo uno spropositato margine di manovra (dopo che numerose aveva aveva già
dichiarato illegittimi dei decreti legislativi per eccesso di delega)
Già con la sentenza 158/1985 la Corte sancisce che "le direttive, i principi ed i criteri servono,
da un verso, a circoscrivere il campo della delega, sì da evitare che essa venga esercitata in
modo divergente dalle finalità che l'hanno determinata, ma, dall'altro, devono consentire al
potere delegato la possibilità di valutare le particolari situazioni giuridiche da regolamentare.
In particolare, la norma di delega non deve contenere enunciazioni troppo generiche o troppo
generali, riferibili indistintamente ad ambiti vastissimi della normazione oppure enunciazioni
di finalità, inidonee o insufficienti ad indirizzare l'attività normativa del legislatore delegato".
Basandosi sul principio affermato in questa ed altre sentenze più recenti, si è arrivati a
dichiarare illegittima una legge delega con la controversa sentenza 280/2004, la quale ha ad
oggetto la delega conferita dalla legge 133/2003 (Legge La Loggia) all'Art.1 commi 5 e 6.
La "Legge la Loggia", che reca disposizioni per adeguare l'ordinamento alla riforma del Titolo
V con legge costituzionale 3 del 2001, viene impugnata dalla Provincia autonoma di Bolzano e
le Regioni autonome di Sardegna e Valle d'Aosta, in particolare con riferimento ai commi 4, 5 e
6 dell'Art.1.
Il primo di essi, il comma 4, è quello che sostanzialmente conferisce la delega, stabilendo che
"per orientare l'iniziativa legislativa dello Stato e delle Regioni fino all' entrata in vigore delle
leggi con le quali il Parlamento definirà i nuovi principi fondamentali, il Governo è delegato
ad adottare, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge...uno o più
decreti legislativi meramente ricognitivi dei princìpi fondamentali che si traggono dalle leggi
vigenti, nelle materie previste dall'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, attenendosi ai
princìpi della esclusività, adeguatezza, chiarezza, proporzionalità ed omogeneità ".
La questione controversa è pero quella che attieni ai due commi successivi, poichè vanno oltre i
decreti legge meramente ricognitivi e la "lettura minimale"2 prospettata dallo stesso comma 4.
2 punto 3 del considerato in diritto, sentenza 280/2004
Per l'appunto la Corte evidenzia come dalla lettura della disposizione che conferisce la delega,
combinata con il contesto in cui si muove, comprese le finalità della legge stessa, è
ingiustificata una delega che va oltre la mera ricognizione dei principi, sfociando nella
"innovazione – determinazione dei principi costituzionali vigenti"(punto 4 del considerato in diritto, sentenza 280/2004).
Trascurando il fatto che, secondo alcuni, anche lo stesso comma 4 rischia di allargare l'oggetto
della delega andando oltre il piano della ricognizione (Giovanni di Cosimo, docente di Diritto Costituzionale all'Università di Macerata, "Le Regioni" n.1/2005), e non entrando nel merito di un'altra
sentenza estremamente dibattuta, ci troviamo comunque di fronte ad una sentenza che ha
declarato l'illegittimità di una legge delega, con riferimento al nuovo art.117.

4. Conseguenze: dottrina e pareri

In un analisi dottrinale della sentenza 251/2016 (Raffaele Bifulco, Federalismi.it – L'onda lunga della sentenza 251/2016), si sottolinea l'importanza del richiamo che la
corte fa alla sentenza 303/2003, la quale inaugura il modello della chiamata in sussidiarietà ,
superando quella rigidità sancita dal riparto di competenze dell'Art.117 dopo la riforma del
Titolo V del 2001, e consistente nell'avocazione allo Stato centrale della competenza legislativa
corrispondente a quella amministrativa che intende disciplinare, e la sentenza 6/2004 che
rinviene nel principio di sussidiarietà un criterio flessibile - operante sia sul versante
amministrativo sia su quello legislativo - in grado di regolare, sulla base di procedure
decisionali partecipate e ispirate al principio di leale collaborazione, il riparto delle
competenze tra i diversi livelli di governo .
Da questi emerge, seppur non esplicitamente, che la Corte non chiudeva la porta ad un futuro
rapporto di collaborazione Stato – Regioni nel procedimento legislativo, emerso infatti da
questa ultima sentenza.
Parte della dottrina ritiene che questa decisione potrebbe essere estesa a qualsiasi procedimento
legislativo ma ciò comporterebbe uno stravolgimento dei rapporti costituzionali, perciò appare
più adeguata l'interpretazione secondo la quale il principio sancito dalla sentenza 251/2016 si
estenda solamente i procedimenti di delega legislativa.
Infatti il parere dato dal Consiglio di Stato del Gennaio 2017, al Ministro della Pubblica
Amministrazione dopo la sentenza sulla Riforma Madia, ribadisce che il meccanismo
dell'intesa si configura come un procedimento riferito tipicamente agli organi esecutivi. E,
d'altra parte, apparirebbe problematico individuare per il Parlamento vincoli procedimentali
diversi e ulteriori rispetto a quelli tipizzati dalla Carta costituzionale, fermo restando,
ovviamente, il limite del rispetto, sul piano sostanziale, delle regole costituzionali di riparto
delle funzioni legislative.
Elemento contingente, ma rilevante al momento dell'emanazione della sentenza, è il rapporto
con la situazione politica del momento, infatti fu depositata a pochi giorni dal Referendum
Costituzionale del 4 Dicembre 2016, il quale, qualora non fosse stato bocciato dalla volontà
popolare, avrebbe stravolto, oltre l'assetto parlamentare, anche la ripartizione di competenze
sancita dalla legge cost.3/2001, rendendo scarsamente rilevante questa sentenza. Per questo
motivo alcuni commentatori non hanno nascosto che l'intento della Consulta sarebbe potuto
essere quello di spingere ad un esito positivo del referendum, il quale avrebbe evitato simili
problemi sulla potestà legislativa concorrente e residuale.
Alcuni giuristi ritengono che fra gli effetti di questa decisione può esserci quello di far
riemergere l'Art.11 della legge cost.3/2001, come soluzione per riportare in equilibrio lo
strumento legislativo a disposizione del Parlamento che la sentenza potrebbe aver alterato.
In questo modo il rapporto di collaborazione non sarebbe delineato dalla giurisprudenza
costituzionale poichè la disposizione in oggetto recita:
1. Sino alla revisione delle norme del titolo I della parte seconda della Costituzione, i
regolamenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono prevedere la
partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali alla
Commissione parlamentare per le questioni regionali.
2. Quando un progetto di legge riguardante le materie di cui al terzo comma dell'articolo 117 e
all'articolo 119 della Costituzione contenga disposizioni sulle quali la Commissione
parlamentare per le questioni regionali, integrata ai sensi del comma 1, abbia espresso parere
contrario o parere favorevole condizionato all'introduzione di modificazioni specificamente
formulate, e la Commissione che ha svolto l'esame in sede referente non vi si sia adeguata,
sulle corrispondenti parti del progetto di legge l'Assemblea delibera a maggioranza assoluta
dei suoi componenti.
4.1 Tralasciando la responsabilità politica di una "svista" procedurale, con una tentata
giustificazione sulla base dell'inaspettato mutamento della giurisprudenza, l'illegittimità parziale
della Riforma Madia comporta problemi interpretativi, riguardo la ripartizione di competenze e
i corrispondenti procedimenti legislativi, che nell'immediato, pongono questioni pratiche in
relazione ai d.lgs già emanati.
In merito a questo ultimo punto, il Ministro per la Semplificazione e la Pubblica
Amministrazione ha chiamato ad esprimersi il Consiglio di Stato, al fine di sapere quali
adempimenti il governo dovrebbe adottare come conseguenza della censura della Corte; l'organo consultivo si è espresso con il parere del 17 Gennaio 2017, stabilendo che:
- il vizio procedimentale riscontrato nella legge delega può essere sanato mediante interventi
correttivi sui decreti legislativi già adottati
- per porre in essere i suddetti interventi correttivi il Governo, sulla base della normativa
vigente (d.lgs. n. 281/1997), può raggiungere ora l'intesa con le Regioni in Conferenza
StatoRegioni, o in Conferenza unificata, a seconda dei casi;
- tali intese debbono riferirsi ai
decreti legislativi nel loro complesso, non a singole disposizioni degli stessi ritenute lesive delle
competenze regionali;
- nell'intesa possono essere disciplinati anche gli effetti già dispiegati nel periodo intercorso tra
l'entrata in vigore del decreto legislativo originario e quella dell'intervento correttivo.
Inoltre raccomanda al Governo una particolare attenzione sui d.lgs in materia di Dirigenza
Pubblica e Servizi Pubblici locali, per i quali la delega è già scaduta, attraverso l'emanazione di
una nuova legge delega analoga alla precedente ma conforme alla pronuncia 251/2016.


5. Osservazioni finali

La sentenza 251/2016 pone delle conseguenze sotto numerosi punti di vista.
Da un punto di vista prettamente politico i risvolti prescindono da ogni analisi dottrinale, sia sui
principi sia sul giudizio sulla legge delega, poichè nel progetto dell'esecutivo questa riforma
doveva essere il punto cardine, quasi al pari della Riforma Costituzionale bocciata dal
referendum popolare del dicembre 2016.
Non si può tralasciare il fatto che una simile riforma della pubblica amministrazione, auspicata
a propugnata da anni da ogni parte politica, non poteva non essere varata con un adeguato
coinvolgimento delle regioni e con una maggiore cura nelle procedure per l'adozione del testo
di legge in modo da evitare un ricorso alla Corte Costituzionale che, qualora fosse fallito
avrebbe comunque portato delle seppur limitate conseguenze politiche, e che una volta accolto
dalla consulta ha reso quasi del tutto vani gli sforzi di portare a termine in toto la grande riform
protesta.
Dal punto di vista giuridico invece le conseguenze che porta sono molteplici:
Partendo dai principi costituzionali alla base della sentenza, avendo accertato che essi sono già
stati usati dalla corte come parametro di legittimità seppur per diverse tipologie di atti
normativi, il loro utilizzo in una pronuncia che va a dichiarare illegittime delle disposizioni di
una così ampia portata non può non far riflettere ulteriormente sul complesso rapporto di
competenze legislative, e amministrative, fra Stato e Regioni.
Lo stato dovrebbe quindi prodigarsi affinchè vi sia una maggiore collaborazione, non già dal
punto di vista politico, bensi dalla collaborazione nel procedimento decisionale, almeno fino a
quando non interviene una riforma costituzionale che definisce in modo più chiaro competenze,
procedure e concertazione.
Riguardo invece alla declaratoria di illegittimità di una legge delega i problemi sono più
consistenti.
Nonostante si è avuto modo di constatare la presenza di una limitata e non recentissima, ma non
trascurabile, giurisprudenza costituzionale sulle leggi delega, la Corte Costituzionale ha
probabilmente voluto far riemergere delle potenzialità insite nella propria giurisprudenza,
lasciate in disparte negli anni della crisi economica e del conseguente riaccentramento. (sul punto, ancora Raffele Bifulco, Federalismi.it – L'onda lunga della sentenza 251/2016)

Da questo momento in poi non si può più agire confidando in una giurisprudenza costituzionale
a favore, dal momento che vi sono dei principi insiti nelle stesse sentenze passate che possono
riemergere in qualunque momento con il giusto caso concreto, le quali hanno evidenziato come
sono molteplici gli atti che vanno al di la di un carattere meramente formale e che possono
ledere i principi costituzionali, nel caso quelli del Titolo V, fondamentali per l'equilibrio
dell'ordinamento.
Si potrebbe pertanto ipotizzare che i giudici costituzionali abbiano voluto, condivisibilmente,
sottolineare la necessità di una maggiore collaborazione fra tutti gli organi dello Stato nella sua
interezza, collaborazione che è stata trascurata in un momento storico dove era necessario
adottare provvedimenti celeri che solo un accentramento poteva permettere a che, adesso,
debbano lasciare spazio a scelte più ponderate e più largamente condivise possibili.

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