Data: 25/07/2017 18:30:00 - Autore: Giampaolo Morini

Avv. Giampaolo Morini - La rilevanza suscettibile di essere attribuita alle regole di condotta finalizzate alla tutela degli investitori fin qui individuate, deve essere, a questo punto, verificata con riferimento alla concreta applicazione di tali criteri di comportamento da parte dei giudici, nell'ambito dei giudizi promossi dai risparmiatori per ottenere il risarcimento dei danni derivanti dallo svolgimento dell'attività di gestione. A tal fine occorre premettere che nella nostra esperienza giuridica non è possibile individuare un vero e proprio diritto giurisprudenziale in materia di regole di comportamento degli intermediari. Allo stato attuale vengono in considerazione soltanto alcune pronunce adottate in mancanza di una specifica regolamentazione della materia e dunque applicando le regole di condotta desunte dalla clausola generale della buona fede, nonché altre poche pronunce di merito riguardanti gli obblighi degli intermediari che svolgono il servizio di gestione su base individuale di portafogli di investimento per conto terzi come regolato dalla legge n. 1/1991 e dai relativi regolamenti di attuazione.

La responsabilità degli intermediari: i primi orientamenti giurisprudenziali

Al riguardo, sembra condivisibile la tesi di chi ritiene questa scarsità di interventi giurisprudenziali collegata alla difficoltà di provare in giudizio i fatti costitutivi della responsabilità degli intermediari. Tra le prime pronunce conviene riferire della sentenza con cui la Cassazione ha affrontato per la prima volta il tema per la gestione di valori mobiliari chiusa in passivo *

La fattispecie traeva origine dal conferimento di un mandato avente ad oggetto la gestione di alcuni titoli azionari, successivamente revocato dal mandante che, non sod­disfatto dei risultati della gestione, aveva altresì citato in giudizio il man­datario, per contestargli la cattiva gestione del mandato ed il travalica­mento dei limiti del contratto, «che avrebbe dovuto avere solo ad oggetto la gestione conservativa dei titoli e non il compimento di operazioni a ri­schio e sproporzionate rispetto al valore del patrirnonio». Si innestavano così tre gradi di giudizio. Il tribunale di primo grado rigettava la domanda attorea sostenendo che il mandato conferito al mandatario attribuiva a que­sti un'ampia libertà di scelta sia dei titoli che dei tempi operativi atteso che il testo contrattuale non recava alcuna limitazione o indicazione specifica. In particolare i giudici di merito argomentavano che: (i) non vi era alcun dato concreto per affermare che, come sostenuto dall'attore, il contratto vincolasse il mandatario ad una gestione prettamente conservativa; (ii) il mandatario aveva diligentemente adempiuto il proprio dovere di informa­zione sull'andamento della gestione; (iii) le operazioni di borsa hanno ca­rattere fisiologicamente speculativo ed aleatorio. La Corte d'Appello, adita in secondo grado dal mandante, rigettava l'appello ripercorrendo intera­mente le considerazioni già effettuate dal tribunale di primo grado. La Su­prema Corte investita della questione ha rovesciato interamente l'orienta­mento assunto. Ammettendo definitivamente nel contratto in questione la natura di mandato per una gestione di denaro e titoli non meramente con­servativa, la Cassazione ha evidenziato la sussistenza di un danno al man­dante, che alla fine del rapporto si era visto restituire un valore inferiore rispetto a quello consegnato al mandatario. In particolare la Cassazione ha individuato una carenza di diligenza del mandante, desumendola dal­l'espressa necessità di valutare l'operazione compiuta nel suo complesso ed affermando che la diligenza del mandatario, al pari della buona fede e della correttezza, nell'esecuzione della prestazione dovuta (ex artt. 1710, 1175, 1375 c.c.), assume un contenuto particolarmente pregnante, trattandosi di un contratto che conferisce ad una delle parti una posizione preminente, sicche il rischio connaturato alle operazioni finanziarie convenute, all'inizio del rapporto e sia pure in modo generico, va correttamente distribuito alla stregua delle richiamate regole di integrazione del contratto applicate secondo canoni particolarmente rigorosi, «non potendosi confondere l'aleatorietà delle operazioni di borsa con la "rovinosità" delle medesime e con il puro e ingiustificato azzardo da parte dell'agente‑mandatario». La Corte ha dunque concluso nel senso di ritenere il mandatario responsabile per inosservanza del dovere di diligenza qualificata che doveva ritenersi in capo al mandatario ai sensi del combinato disposto degli artt. 1710 e 1776 c.c. e del combinato disposto degli artt. 1175 e 1375 c.c., considerato altresì che le operazioni che il mandatario avrebbe dovuto compiere erano assunte nell'interesse del mandante; essa ha inoltre affermato che nell'ambito dei rapporti in esame, al cospetto di eventuali ed ingenti perdite subite dal mandante, il mandatario è tenuto alla prova di aver eseguito l'incarico con la dovuta diligenza, anche in considerazione dei rischi connessi alle operazioni di investimento «e non evitabili nonostante un comportamento improntato alla dovuta prudenza ed avvedutezza» Allo stesso modo la Corte riesce a decidere anche con riferimento alla fattispecie di chuming denunciata dal gestito che si era visto registrare spese per commissioni pagate al gestore/negoziatore superiori a trecento milioni di lire in soli due anni. Non potendo fare riferimento alla specifica disciplina (introdotta con la legge n. 1/1991, non ancora entrata in vigore al momento dei fatti contestati) la Cassazione fa leva sulle clausole codicistiche di correttezza e diligenza e conclude che «non è possibile ritenere che sia conforme ai doveri richiamati l'affrontare dei costi di gestione» cosi rilevanti; «il giudice del merito avrebbe dovuto accertare sia gli effettivi costi (di commissioni, fiscali e quant'altro), sia la loro proporzione rispetto al capitale, e giudicare se le operazioni fossero state fatte al solo (o preminente) scopo di lucrare commissioni»).

Se ne ricava l'impressione che la Cassazione, pur non potendo, nel caso di specie, applicare direttamente le disposizioni che oggi regolano l'intermediazione mobiliare, inesistenti all'epoca dei fatti, attraverso le clausole generali di buona fede, diligenza e correttezza, riesca comunque a tutelare l'investitore danneggiato, pur in assenza di precise regole prudenziali che ne proteggessero gli interessi.

Responsabilità degli intermediari: gli altri orientamenti

Venendo al secondo gruppo delle pronunce richiamate conviene prendere le mosse dalla sentenza del Tribunale di Biella del 3 gennaio 2001, in cui sono posti in luce alcuni elementi rilevanti nell'ambito dell'individuazione dei canoni di correttezza nello svolgimento del servizio di gestione individuale. Nel caso di specie, il convenuto (un istituto bancario) aveva stipulato un contratto avente ad oggetto la gestione in nome e per conto dell'attore del suo patrimonio, in forza del quale la banca aveva investito il portafoglio in strumenti finanziari negoziati in mercati non regolamentati, senza tuttavia ottenere la necessaria autorizzazione preventiva richiesta dal contratto di gestione. L'autorizzazione, in realtà, non era che la trasposizione della disciplina vigente al tempo e, in particolare, dell'art. 8, l° co., lett. b), legge n. 1/1991 e dell'art. 33, del reg. di attuazione n. 5387 adottato dalla CONSOB con delibera del 2 luglio 1991 (In particolare, l'art. 8, 1° co., lett. b), legge n. 111991, disponeva che «i valori mobiliari non trattati nei mercati regolamentati possono formare oggetto dell'attività di gestione esclusivamente nei limiti stabiliti nel regolamento». Sul punto, l'art. 33, reg. CONSOB n. 5387, prevedeva che «in ogni caso gli acquisti di valori mobiliari non negoziati su mercati regolamentati sono preventivamente e singolarmente autorizzati per iscritto»). Il Tribunale, nel caso in esame, ha ritenuto che le operazioni oggetto di contestazione erano state effettivamente svolte fuori dai mercati regolamentati e che le stesse non erano state autorizzate dal cliente. Come rilevato dal giudice di merito, tale circostanza risultava confermata dal fatto che la banca aveva incentrato la propria difesa sull'effettiva quotazione sui mercati regolamentati di titoli oggetto di contestazione, ammettendo in questo modo, sia pure implicitamente, la mancata acquisizione dell'autorizzazione del cliente. Inoltre, alcune operazioni oggetto di contestazione erano state indicate nella rendicontazione periodica prodotta dalla banca come effettuate al di fuori dei mercati regolamentati, rendendo così ininfluente per tali strumenti finanziari la verifica dell'esistenza di un mercato regolamentato, atteso che proprio dalla documentazione prodotta si evinceva che le operazioni erano comunque avvenute al di fuori di tali mercati. Sulla base delle informazioni e delle prove documentali raccolte, il Tribunale ha dunque ritenuto provato l'inadempimento contrattuale della banca, procedendo quindi alla liquidazione del danno a favore del cliente. Tale ultimo aspetto presenta alcuni profili interessanti sia per quanto attiene al momento per la quantificazíone del danno emergente, sia per quanto riguarda la risarcibilità del lucro cessante. Con riferimento al primo aspetto, il Tribunale era chiamato a decidere se il danno dovesse, o meno, essere liquidato alla data in cui il cliente aveva disposto, per fatti concludenti, la revoca del mandato gestorio. Secondo la banca, infatti, il passaggio degli strumenti finanziari nella sfera di controllo del cliente aveva imposto di valutare l'esistenza e l'entità del danno al momento di tale fatto, dovendosi ritenere tutti gli eventi successivi dovuti alle scelte gestionali dell'attore. Alla luce del disposto dell'art. 1223 c.c. ‑ che prevede la risarcibilità della perdita subita e del mancato guadagno se conseguenza immediata e diretta del danno ‑ il Tribunale ha ritenuto che «il comportamento costituente la causa originaria di tutti i danni risulta costituito da acquisti effettuati fuori dai mercati regolamentati». Inoltre, il Tribunale ha escluso la sussistenza del concorso del cliente ai sensi dell'art. 1227 c.c., che stabilisce che il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe dovuto evitare usando l'ordinaria diligenza. Sul punto, infatti, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che, per escludere la risarcibilità di quei danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando il criterio della diligenza, il debitore responsabile del danno ha l'onere di provare la violazione, da parte del danneggiato, del dovere di correttezza imposto dall'art. 1227 c.c.. Inoltre, secondo l'orientamento giurisprudenziale prevalente, il comportamento richiesto al debitore si riferisce, a comportamenti attraverso i quali il danno può essere evitato con certezza, non potendo interpretarsi la norma nel senso di prevedere a carico del debitore l'onere di attività rischiose comportanti spese. Nel caso di specie, l'attività richiesta era la negoziazione in borsa che costituisce, per definizione, un'attività di per sé rischiosa, in quanto avente come oggetto scelte che non hanno il carattere della certezza in ordine al risultato delle stesse, e dunque ben si ravvisa, la ragione per cui il Tribunale non ha ritenuto sussistere la fattispecie di cui all'art. 1227, 2' co., c.c. Il Tribunale ha, quindi, proceduto a quantificare il danno emergente come differenza tra complessivo ammontare delle spese sostenute per compiere gli acquisti non autorizzati e complessivo ammontare del ricavato delle vendite. Con riferimento, invece, al risarcimento del lucro cessante, il Tribunale ha rilevato che: non avendo il cliente dimostrato un impiego alternativo fruttuoso del denaro in quel preciso contesto economico‑finanziario, il parametro da utilizzarsi era quello del tasso di interesse legale; che la data di decorrenza degli interessi era quella di costituzione in mora così come richiesto dall'art. 1219 c.c.; che la base di calcolo era costituita dal valore del credito al momento iniziale del calcolo (la data di costituzione in mora), da rivalutarsi annualmente sulla base degli indici Istat. Un'ulteriore pronuncia di particolare interesse è quella resa dal Tribunale di Bari nella sentenza n. 1020 del 3 maggio 2001. Nel caso di specie, il cliente, che aveva conferito ad una banca l'incarico di gestire per suo conto una somma ingente di denaro. aveva successivamente revocato il mandato e citato in giudizio la banca. contestando i metodi di gestione da essa adottati, sotto il profilo della violazione ai principi dettati dalla legge n. 1/1991 e dai reg. CONSOB n. 5387 e n. 5880, in base ai quali «gli intermediari sono tenuti ad operare con diligenza e professionalità nonché secondo criteri di economia di operazione in rapporto alla situazione finanziaria del cliente», e sotto il profilo dell'inadempimento dell'obbligo, derivante dal mandato, di operare su tutte le categorie mobiliari, in quanto la banca aveva omesso di considerare quel valori che assicuravano un maggiore rendimento, sia pure solo in previsione, nonché di operare sul mercato estero, a quell'epoca più favorevole di quello nazionale. La banca, nel richiedere il rigetto della domanda, sosteneva la regolarità dell'attività di gestione, giustificando le scelte di investimento effettuate sulla base della loro compatibilità con le caratteristiche della gestione concordate con il cliente e dei criteri di discrezionalità ad essa riconosciuti contrattualmente oltre che normativamente. Il Tribunale di Bari ha rigettato la domanda attorea sulla base di un percorso logico ineccepibile. Preliminarmente, chiamato ad inquadrare la fattispecie considerata, il Tribunale, scioglie ogni dubbio circa la natura giuridica della responsabilità, affermando che la fattispecie riguarderebbe senz'altro un'ipotesi di responsabilità contrattuale, dovendosi verificare l'esistenza di un danno (da mancato guadagno) subito dall'investitore e di un nesso di causalità con l'attività del gestore, imputabile ad un suo difetto di diligenza alla stregua degli impegni negoziali reciprocamente assunti, dopo di che, il Tribunale sottolinea il ruolo dell'intermediario tenuto ad eseguire i servizi di investimento in conformità ad una serie di obblighi di comportamento e con la diligenza richiesta in un settore particolarmente complesso, in mancanza dei quali sarà tenuto al risarcimento del danno che sia conseguenza diretta ed immediata del proprio inadempimento, individuabile ai sensi dell'art. 1223 c.c. sia nella perdita subita (danno emergente) che nel mancato guadagno (lucro cessante). Così, non avendo rilevato l'inadempimento della banca agli obblighi impostile dalla normativa di settore, il tribunale respinge le argomentazioni dell'attore che rivendicava di aver subito un danno consistente nella mancanza di un rendimento maggiore dell'investimento casualmente collegato alla censurata condotta della banca. In particolare, per ciò che concerne il pregiudizio economico lamentato dall'attore perché conseguenza della limitazione della gestione soltanto ad alcuni strumenti finanziari, la condotta della banca è ritenuta pienamente giustificata, non emergendo dal testo contrattuale alcun limite alla operatività del gestore ma anzi un'ampia autonomia nelle modalità di gestione, nell'ambito della categoria di investimento prescelta dal cliente. Il Tribunale ha poi sottolineato ‑ sotto il profilo dell'aspettativa dell'investitore ad un maggiore guadagno ‑ che tale valutazione non può farsi attraverso una ricognizione di altri prodotti finanziari presenti sul mercato, comparando i risultati ottenuti dalla gestione e quelli che altrimenti potevano ottenersi. Attesa la aleatorietà dei mercati, l'intermediario, il quale abbia eseguito la sua attività seguendo gli standard della diligenza e della perizia, infatti, non può sopportare il rischio connesso alle transazioni poste in essere per conto del cliente. Secondo il Tribunale, tuttavia, un riscontro effettivo della logica della gestione è pur sempre possibile, servendosi di categorie omogenee all'interno della massa dei prodotti finanziari, perché esiste la possibilità di di prodotti aventi caratteristiche simili a quelli che hanno costituito oggetto del contratto, delineando in tal modo un parametro di riferimento, da adeguare alle caratteristiche del contratto. Nel caso di specie, tuttavia, essendo emerso che il gestore poteva attingere per l'esecuzione della gestione ad un'enorme vastità di titoli, per cui il paniere di riferimento risultava composto da titoli disparati, con conseguente impossíbilità di ricavarne un parametro utile, il Tribunale ha concluso che avendo il cliente scelto una tipologia di gestione che non consentiva un riscontro del genere, il mancato guadagno costituisce, nella valutazione della responsabilità della banca, una mera aspettativa, irrilevante sul piano del risarcimento da inadempimento. Il Tribunale ha infine toccato il profilo concernente la ripartizione degli oneri probatori, facendo specifico riferimento all'art. 13, 10° co., legge n. 1/1991, ai sensi del quale nei giudizi di risarcimento dei danni derivanti dallo svolgimento delle attività di intermediazione spetta all'intermediario l'onere di provare di aver agito con la diligenza del mandatario (comprensiva anche della perizia) e traendone la conseguenza che è sufficiente che il primo provi il pregiudizio economico subito nonché il rapporto causale tra il danno e l'attività dell'intermediario, spettando poi al secondo dimostrare di aver osservato una condotta conforme agli standard di diligenza del mandatario. Un'ultima interessante pronuncia è stata resa dal Tribunale di Roma, sez. IX, civ., con la sentenza n. 7348 del 21 febbraio 2002. Nel caso di specie un investitore aveva affidato in gestione ad una banca un patrimonio composto di Btp e liquidità, convenendo che la liquidità venisse investita in strumenti finanziari, mentre ì Btp ‑ stante la loro redditività sicura ‑ fossero mantenuti in portafoglio. La banca, contravvenendo alle indicazioni ricevute, vendeva i Btp del cliente ai fondi comuni del proprio gruppo, acquistando in cambio per il portafoglio del cliente quote degli stessi fondi (c.d. operatività in contropartita diretta). Il cliente, conosciuti i fatti, revocava il mandato gestorio e citava in giudizio la banca per sentirla condannare al risarcimento dei danno per grave inadempimento. La banca si difendeva adducendo la genericità del mandato conferitole dal cliente, la mancanza di un obbligo per il gestore di far conseguire un vantaggio patrimoniale al gestito, l'insindacabilità nel merito della stessa attività gestoria, l'esistenza di un'autorizzazione del cliente all'acquisto di quote di fondi comuni dello stesso gruppo. La banca, affermava, infine che il danno subito dal cliente non era determinabile, in quanto l'investimento censurato, se portato a compimento avrebbe potuto rilevarsi più conveniente, sino ad escludere qualsiasi danno, circostanza questa non dimostrabile a causa del recesso dell'investitore. Il Tribunale di Roma ha accolto la domanda attorea e dichiarato risolto il contratto di gestione patrimoniale stipulato dall'investitore per l'ìnadempimento rappresentato dal compimento di operazioni in « evidente condizione di conflitto di interessi e senza la preventiva autorizzazione » dell'attore, condannando la banca al risarcimento del danno (Al riguardo il Tribunale rilevava che l'autorizzazione a compiere operazioni di acquisto di titoli della stessa azienda bancaria o dello stesso gruppo di questa, effettivamente contenuta nel mandato gestorio «non appare in contrasto con il dovere della banca di ottenere dalla stessa l'autorizzazione per l'operazione in contestazione. Infatti risulta chiara la diversità delle due attività consentite al mandatario nell'uno e nell'altro caso, quindi evidente la relativa separazione dei poteri da questo avuti nelle due ipotesi. Nella prima, ossia quella prevista dal contratto, si indica solamente la possibilità di effettuare operazioni di investimento anche su titoli della stessa azienda di credito ovvero del gruppo cui la stessa appartiene, nella seconda, quella sostenuta dall'attrice e qui accolta, si rileva che in concreto il conflitto d'interessi sotteso dall'operazione è costituito non solo dall'acquisto di fondi comuni dello stesso gruppo economico della convenuta, bensi dal fatto coevo che la vendita dei BTP era obiettivamente sconveniente per l'attrice e non necessaria al momento della attuazione »). Il giudice, in particolare, ha riconosciuto fondate le domande dell'attore, basate sulla «violazione e inosservanza dei doveri di correttezza e diligenza professionale previsti in generale dalle norme in materia di mandato, in particolare dalla legge 2 gennaio 1991, n. 1 in materia dì attività finanziarie, oltre che dal contratto concluso tra le stesse parti ». Per questa via viene contestato all'intermediario di aver violato i principi normativi che regolano la materia de qua (quali quelli contenuti nella legge n. 1/1991) e quelli generali in tema di obblighi del mandatario «di non compiere operazioni contrarie all'interesse del mandante». Peraltro, il Tribunale sottolinea come l'aspetto più rilevante sotto il profilo del grado di negligenza dimostrato sia rappresentato dal palese conflitto di interessi cui le operazioni compiute davano luogo: nel caso di specie, infatti, a venire in evidenza non è ‑ secondo la pronuncia in esame ‑ la discrezionalità tecnica dell'operatore gestore (pure rivendicata dalla banca come ambito insindacabile della propria attività) ma «l'uso improprio e assolutamente irregolare» di tale autonomia operativa e decisionale sugli investimenti, da cui, nel caso di effetti dannosi, deriva la responsabilità del gestore.

Avv. Giampaolo Morini

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