Data: 11/10/2017 10:00:00 - Autore: Paolo Accoti

Avv. Paolo Accoti - Quello della regolamentazione delle spese del giudizio è argomento che sta particolarmente a cuore alle parti in causa che, nella definizione del giudizio, non vorrebbero mai trovarsi a dover pagare le spese conseguenti.

Per espressa previsione legislativa, normalmente, il giudice, con la sentenza che definisce il processo, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa (art. 91 Cpc).

Tale assioma, trova un contemperamento nella formulazione del successivo art. 92 Cpc, a mente del quale, laddove il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all'articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue ovvero indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all'art. 88 (dovere di lealtà e probità), essa ha causato all'altra parte.

Ed ancora, qualora vi sia soccombenza reciproca ovvero concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione – quali ad esempio, la complessità o novità delle questioni giuridiche o l'applicazione di norme di recente introduzione ovvero in caso di orientamenti giurisprudenziali contrastanti – il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti.

Spese del giudizio in caso di rinuncia agli atti o cessazione della materia del contendere

Vi è da chiedersi a questo punto cosa succede, con riferimento alle spese del giudizio, quando il processo non giunge alla sua naturale definizione (pubblicazione della sentenza), ma subisce particolari ipotesi di estinzione, quali quelle della rinuncia agli atti o della cessazione della materia del contendere.

Nel caso di rinuncia agli atti e conseguente accettazione, il Giudice, se la rinuncia e l'accettazione sono regolari, dichiara l'estinzione del processo e il rinunciante deve rimborsare le spese alle altre parti, salvo diverso accordo tra loro, su liquidazione fatta dal giudice istruttore con ordinanza non impugnabile. Tuttavia, se le parti si sono conciliate, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione (art. 306 Cpc).

Tale norma è stata interpretata nel senso che <<il provvedimento che dichiari l'estinzione del giudizio, a seguito di atto di rinuncia effettuato prima della costituzione della controparte, non deve contenere alcuna statuizione in ordine alle spese processuali, le quali vanno poste a carico del rinunciante soltanto nel caso in cui la controparte, già costituita, abbia accettato la rinuncia, ai sensi dell'art. 306, comma 4, c.p.c.>>.

Sulla scorta dell'anzidetto principio, pronunciato dalla Corte di Cassazione nell'ordinanza n. 23620, pubblicata in data 9 ottobre 2017 (sotto allegata), la stessa ha cassato la sentenza della Corte d'Appello di Napoli la quale, nonostante la rinuncia agli atti notificata prima della costituzione in giudizio dei convenuti, nello specifico appellati, aveva comunque disposto la condanna alle spese di parte appellante, così incappando nella violazione dell'art. 306, IV comma, Cpc, quantunque applicabile anche in grado di appello in virtù del generale rinvio di cui all'art. 359 Cpc.

Per quanto concerne invece la disciplina delle spese relativa all'ipotesi di cessazione della materia del contendere, il Giudice è tenuto in ogni caso a liquidarle – anche compensandole, se ricorrono i presupposti di legge (soccombenza reciproca ovvero concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni) – in virtù del principio della cd. soccombenza virtuale, in forza del quale il decidente, secondo una valutazione prognostica, dovrebbe stimare la domanda fondata o meno, in altri termine se, la stessa sarebbe stata accolta o rigettata.

In virtù di ciò, la Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 23618, pubblicata in data 9 ottobre 2017 (sotto allegata), ha cassato con rinvio la sentenza della Corte d'Appello di Palermo con la quale, la stessa, in seguito alla declaratoria di cessazione della materia del contendere, aveva ritenuto legittimo condannare parte attrice al pagamento delle spese processuali in virtù della <<pervicacia dell'attore nell'insistere per l'accoglimento delle proprie pretese>>.

La Suprema Corte, premette che, in base ai principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, il Giudice con la dichiarazione della cessazione della materia del contendere, deve, comunque, pronunciarsi sulle spese secondo il cosiddetto principio della soccombenza virtuale, <<laddove tale soccombenza dovrà essere individuata in base ad una ricognizione della "normale" probabilità di accoglimento della pretesa della parte su criteri di verosimiglianza o su indagine sommaria di delibazione del merito>>, o anche ad una compensazione, se ricorrono i presupposti di legge.

La stessa, dopo aver ricordato come, anche secondo l'insegnamento della Corte Costituzionale (Sent. n. 274/2005), la condanna al rimborso delle spese di giudizio non ha natura sanzionatoria, né si fonda su un risarcimento del danno, essendo soltanto conseguenza oggettiva della soccombenza, conclude, nello specifico, che <<la Corte distrettuale ha disatteso questi principi ed ha errato nel non aver predisposto il regolamento delle spese processuali in ragione della soccombenza virtuale>>, non potendosi ritenere legittima una regolazione delle spese fondata sul mero contegno processuale di una parte (la <<pervicacia nell'insistere per l'accoglimento delle proprie pretese>>).



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