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Data: 23/10/2017 14:00:00 - Autore: Lucia Izzo di Lucia Izzo - Non solo gli "imprenditori", bensì anche gli avvocati possono essere condannati per concorrenza sleale. Si tratta di una lettura evolutiva che è stata descritta dal Tribunale di Milano nella sentenza n. 6359/2017 (qui sotto allegata). I giudici meneghini hanno offerto ampia motivazione decidendo per l'accoglimento della richiesta dei soci di uno studio legale nei confronti di due avvocati che, a detta degli attori, avevano nei loro confronti assunto una condotta illecita connotata da profili di concorrenza sleale. La vicendaUno dei due convenuti aveva iniziato a collaborare con lo studio legale attore per la costituzione di un "German Desk", ma il rapporto si era risolto alcuni anni dopo e, dopo l'abbandono dello studio, l'avvocato decideva di mettersi in proprio, portando con sé uno dei suoi colleghi. Tuttavia, a causa delle anomale modalità di abbandono dello studio, gli attori avevano intrapreso delle attività investigative per verificare eventuali manomissioni o un'indebita appropriazione di informazioni riservate dei clienti, e avevano ottenuto un procedimento cautelare per ottenere il sequestro di tutti quei beni (documenti, oggetti, etc.) di loro proprietà industriale e intellettuale, o comunque riconducibili a esso o ai suoi clienti, che fossero stati indebitamente rinvenuti nel possesso dei due avvocati. Da una CTU espletata, infatti, era emersa un'intrusione illecita nel sistema informatico dello studio attore, la riproduzione integrale del suo archivio, l'indebita appropriazione del suo intero know how, nonché la riproduzione fotostatica selettiva di documenti personali e privati di componenti dello Studio e di terzi. Comportamenti per i quali parte attrice non solo aveva avanzato una denuncia, conclusasi con una condanna in sede penale per una serie di reati (artt. 615-ter c.p. e 167 c.p. in relazione agli artt. 4 e 23 d.lgs. 30 giugno 2003 n. 19), ma agiva poi in sede civile lamentando il compimento di plurime attività di concorrenza sleale da cui sarebbero derivati danni in termini di perdita di fatturato conseguente allo sviamento della clientela, danno all'immagine, costo delle ore lavorative dei professionisti e dello staff di supporto che sarebbe stato necessario reimpiegare per supplire ai "buchi informativi" lasciati dai due con riguardo alle pratiche dei clienti tedeschi a loro affidate. In loro difesa, i convenuti contestano, tra l'altro, che si possa ravvisare nella fattispecie oggetto di causa un'ipotesi di concorrenza sleale, in mancanza dei presupposti soggettivi e oggettivi asseritamente necessari per detta qualificazione dell'illecito dedotto. Tribunale di Milano: sì alla concorrenza sleale tra avvocatiDa un lato, per il Tribunale meneghino appare ampiamente dimostrato (anche visti gli esiti del giudizio penale) che la copia e il trasferimento dei dati fosse funzionale ad agevolare l'avvio della nuova attività del legale e non destinati, invece, a uso personale o a far valere i propri diritti. Il punto maggiormente controverso su cui i giudici concentrano la loro attenzione riguarda la possibilità di applicare le norme poste a tutela della libera concorrenza nell'ambito delle libere professioni e, in generale, a fronte di soggetti che operano sul mercato, ma non hanno le caratteristiche dell'imprenditore. Una tesi tradizionale, infatti, contesta la possibilità di un'interpretazione estensiva della disciplina in discorso, ma i giudici milanesi ritengono che debba darsi preferenza a una tesi estensiva, più aderente alla storia, alle finalità, all'evoluzione e alla ratio stessa dell'istituto della libera concorrenza. Ciò che va valorizzata, si legge nella sentenza, è la dimensione oggettiva della "concorrenza leale", come obiettivo in sé, e strumento di tutela di interessi generali (basti pensare all'evoluzione della normativa antitrust). In virtù di tale assunto è possibile affermare che ciò che rileva per l'accesso a detta tutela non è la circostanza che un certo soggetto sia "imprenditore" quanto, piuttosto, che operi in un contesto entro il quale può vantare il diritto a concorrere e competere in modo leale. Un orientamento che sarebbe coerente non solo con il quadro normativo costituzionale, ma anche con quello normativo comunitario, ove, rispetto alla disciplina della concorrenza, la Corte di Giustizia è univoca nel far riferimento a qualsiasi entità economica, a prescindere dalla sua forma giuridica e dal suo modo di finanziamento (comprese le professioni intellettuali). Pertanto, non pare sussistere alcun argomento idoneo a impedire un'interpretazione estensiva della disciplina anche all'attività dei liberi professionisti, indipendentemente dalla dimensione dei mezzi impiegati, e, quindi, dalla possibilità di ravvisare nell'agire del professionista i requisiti dell'attività dell'imprenditore, come colui che ex art. 2082 organizza i mezzi per la produzione o lo scambio di beni o di servizi (e quindi indipendentemente da quanto già prevede l'art. 2238 c.c.). Impresa e studio professionale sono entrambe realtà economicheD'altronde, tanto l'impresa, quanto lo studio professionale, precisa il Tribunale, sono realtà economiche all'interno delle quali si svolgono attività preordinate all'acquisizione e alla conservazione di una stabile clientela, dunque di una "quota di mercato": attività sulle quali certamente può incidere un atto di concorrenza sleale, senza che la dimensione dei mezzi preordinati al fine economico perseguito abbia alcuna rilevanza. I giudici non mancano di enfatizzare a sostegno del proprio ragionamento anche la previsione contenuta nella nuova legge professionale forense n. 247/2012, che, oltre a consentire l'esercizio della professione in forma societaria (art. 16 e seg.) stabilisce all'art. 3 che "La professione forense deve essere esercitata con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale della difesa e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza". Pertanto, nel caso di specie devono essere ravvisati i requisiti dell'illecito contestato da parte attrice ex art. 2598, n. 3, c.c. per il quale i convenuti dovranno risarcire allo Studio Legale oltre 100mila euro di danni, oltre interessi di mora, a cui si aggiungono le spese di lite. Una condanna che comprende anche l'avvocato "stornato" (che aveva seguito il collaboratore nella sua attività), non condannato in sede penale. Per i giudici il suo concorso si evince, non solo in ragione del comportamento successivo, di piena adesione al risultato dell'avviamento della nuova attività professionale con siffatte modalità, ma anche di una condivisione ex ante, di cui v'è traccia documentale. |
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