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Data: 15/11/2017 15:00:00 - Autore: Margherita Marzario Nell'art. 30 comma 4 della Costituzione si parla di "ricerca della paternità", mentre il comma 4 dell'art. 31, l'ultimo dei tre articoli costituzionali dedicati alla famiglia, detta: "[La Repubblica] Protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo". Per il raggiungimento e compimento della gioventù, pertanto, occorrono paternità e maternità, fonte della vita, con i rispettivi codici di vita. Il bioeticista Paolo Marino Cattorini scrive: "Una madre è buona (sufficientemente buona, come diceva Donald Winnicott, grande studioso dell'infanzia) quando sviluppa in gravidanza una condizione di premura primaria per il bambino. È grazie a questa speciale sensibilità, che la donna riesce a identificarsi col figlio e rispondere ai bisogni di quest'ultimo. Tale prossimità protegge il bambino e gli risparmia minacce di annientamento. Una donna è sana quando è in grado sia di raggiungere questo stadio, sia di uscirne quando il bambino la lascia libera. La fusione completa somiglierebbe invece a un pericoloso incantesimo magico. Nessun bambino può evitare le frustrazioni della crescita: deve fare i conti con la resistenza del mondo e ricordare che, anche quando la mamma non gli è addosso e sembra distratta, ella ha la possibilità di tornare, di rispondere. In questo modo la mamma (non quella presuntuosamente «perfetta») impara i tempi del figlio, promuove le sue prime rischiose esplorazioni". La figura materna, il ruolo materno e tutto quello che fa una madre costituiscono e trasmettono il cosiddetto codice materno. Una madre non può chiudersi a riccio, come spesso avviene, senza accettare consigli o confronti né chiudere il figlio in un mondo ovattato o esclusivo perché, prima o poi, deve rispondere del suo operato, delle sue scelte agli altri e in primis al figlio. Quella maternità che è "responsabile" insieme alla paternità, come si ricava dall'unico aggettivo al singolare usato nell'art. 1 della legge 405/1975 sull'istituzione dei consultori familiari, in quanto il codice materno e quello paterno scrivono e attribuiscono al figlio il codice della vita. "E il «codice materno» - spiega la sociologa Chiara Giaccardi - ci viene in aiuto per una antropologia alternativa a quella, iperindividualistica, della cultura contemporanea. Non è un modello astratto, moralistico. Non è un ideale. Non è qualcosa che ci sta davanti come un (minaccioso, per qualcuno) dover essere, bensì qualcosa che sta alle nostre spalle: di tutti, uomini e donne. Tutti siamo nati da una madre. È qualcosa che ci precede e ci consente di essere qui, grati. È la radice di una memoria, corporea prima di tutto. Ed è universale, di tutti. Qualcosa che ci ricorda che noi non siamo «individui» che poi cercano goffamente di costruire relazioni, ma esseri relazionali fin dal principio. Noi siamo relazione, e solo dopo, e grazie a questo, individui. Nessuno di noi sarebbe qui senza essere passato da quella relazione. Dove siamo stati accolti, nutriti e accompagnati all'essere, a prescindere da quel che ci è successo dopo. Viviamo perché abbiamo ricevuto la vita da altri. Non ci siamo fatti da soli. Se conserviamo questa memoria, potremo essere capaci di relazione. Accoglienti, sapendo che siamo stati accolti. Empatici, perché sappiamo che non siamo il centro del mondo, e che guardandoci l'ombelico non vediamo noi stessi, ma il legame che ci ha consentito di essere qui. Con questa memoria grata, possiamo essere persone che generano vita anche senza mettere al mondo figli, nei tanti modi diversi che la nostra libertà e la nostra responsabilità sapranno trovare". La maternità, uno dei due elementi costitutivi della genitorialità (quegli elementi che concorrono all'identità del fanciullo, disciplinata nell'art. 8 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell'Infanzia), è (o dovrebbe essere) generatrice, generativa e generosa. In tal modo esplica la "sua essenziale funzione familiare" di cui all'art. 37 comma 1 della Costituzione. Lo psicologo e psicoterapeuta Osvaldo Poli commenta[1]: "Il codice materno tende a proteggere il figlio dal dolore e dalle fatiche della vita, il codice paterno tende a incoraggiarlo ad accettarle e superarle, a non nascondersi, a non evitarle, a non averne paura. A non scappare sempre dalla prova, ma ad accettarla. A "lasciarsi provare" acconsentendo di fare ciò che le circostanze richiedono come giusto, opportuno, necessario". Sono fondamentali il codice materno e il codice paterno e che siano differenti (né diversi né duplicati) per fornire al figlio un adeguato codice della vita, come per la nascita e sin dalla nascita. In altre parole, i codici devono essere differenti, né divergenti né indifferenti l'uno dall'altro. A proposito dell'esperienza del dolore la scrittrice Michela Murgia afferma: "Narrare la morte è affrontare un dolore che ci accomuna tutti, dargli un codice, farlo uscire dall'afasia culturale". Nell'art. 23, relativo al fanciullo fisicamente o mentalmente disabile, par. 3 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell'Infanzia si legge di "far raggiungere al fanciullo l'integrazione sociale e lo sviluppo individuale più completo possibile, incluso lo sviluppo culturale e spirituale". Lo sviluppo culturale e spirituale (binomio usato una sola volta in tutta la Convenzione) riguarda ogni bambino e prevede anche l'educazione alla morte (morte che, fra l'altro, ha ispirato e ispira ogni forma d'arte e cultura) per non rendere menomati i bambini rispetto al normale flusso della vita. E in questo riveste un ruolo determinante il padre o almeno in passato lo ha rivestito. Lo psicologo Poli aggiunge: "Più in generale si può affermare che nella attuale società il padre è stato ucciso destituendo di ogni fondamento le ragioni del suo istinto educativo, presentando come pericoloso e inadatto ciò che il codice maschile richiederebbe come decisivo per la crescita dei figli. Più o meno esplicitamente esso è ritenuto troppo duro, esigente, incapace di capire i figli, e implicitamente, contrario all'amore loro dovuto. Con il codice paterno sono state bandite le parole che lo qualificavano: prova, rinuncia, disciplina e soprattutto sacrificio. La cultura educativa che non comprende più il modo di amare maschile cresce figli più deboli, più difficili da gestire in famiglia e nelle istituzioni ma soprattutto incapaci di reggere la vita con le sue inevitabili difficoltà". Con l'esautoramento della figura paterna è stata abbattuta ogni forma di autorità, da quella scolastica a quella statale. "Autorità" deriva dal verbo latino "augere", "far crescere", quindi è insita nella vita. "Nell'etimologia di autorità è dunque inclusa l'idea che nell'uomo si realizza l'humanitas quando un principio di natura non empirica lo libera dallo stato di soggezione e lo porta al fine che è suo, di essere razionale e morale" (da Treccani.it). Ogni figlio per diventare quello che è scritto nella sua vita ha bisogno della figura paterna che sia tale: né assente, né deficiente, né subalterna alla madre, né "maternalizzata", né altro. Il padre è padre e deve essere padre. Una delle prime leggi in cui si è cominciato a escludere la figura paterna è stata la legge 194/1978 sull'interruzione volontaria della gravidanza. Ogni bambino ha diritto a un padre, che sia non solo certo, ma esistente ed evidente, non un "aborto di padre". Amare è dare e far sentire l'altro amato perché a sua volta sia capace di amare e dare. Questo è generare vita. Dare la vita perché così è nel codice della vita: questa è la genitorialità e non semplicemente un patrimonio genetico. Gli adulti danno ai bambini la vita, i bambini danno agli adulti la gioia della vita: insieme compongono l'inno alla vita. Così si esprime la "biofilia" (amore per la vita) della e nella genitorialità, la paternità e la maternità insieme.
[1] O. Poli in "Cuore di papà. Il modo maschile di educare", San Paolo Edizioni 2008 |
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