Data: 06/06/2018 12:30:00 - Autore: Giampaolo Morini

Avv. Giampaolo Morini - Se da un lato è vero che il titolare di una posizione giuridica soggettiva è libero di attivare o meno la propria pretesa, libertà tutelata dall'ordinamento, è pur vero che tale libertà ha subito lo scorso secolo una rilettura in chiave di rilevanza sociale.


Abuso del diritto: ricostruzione storica

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Non vale più , dunque, il principio qui suo jure utitur neminem laedit, di stampo liberale la valorizzazione degli obblighi di solidarietà sociale e di civile convivenza, da cui sorge il c.d. abuso del diritto. Formulazione quest'ultima che ha suscitato non pochi dibattiti, definita da parte di autorevole dottrina un vero e proprio ossimoro.

È stato quindi necessario trovare il modo di rendere possibile la convivenza tra libertà ed abuso. La teorica dell'abuso della libertà contrattuale nasce e si sviluppa dunque a fronte dell'abbandono della visione liberale classica dei rapporti economici e per l'ormai inadeguatezza del principio di eguaglianza formale a garantire la giustizia del contratto.

L'abuso è senza dubbio un limite esterno alla libertà ed è uno strumento proprio della giurisprudenza utilizzato per dare "coerenza esterna al sistema nel suo complesso considerato".

L'abuso del diritto, quindi, si presenta strettamente correlato ai principi di buona fede e di correttezza, quasi riportando il sistema alla definizione di Celso per cui il diritto era "ars boni et equi" ed il suo oggetto avrebbe necessariamente dovuto tendere all'aequitas, ossia al raggiungimento della migliore soluzione possibile in concreto (e, aggiungiamo non contrastante, nemmeno indirettamente, con l'ordinamento ed i suoi principi).

In realtà, l'esigenza di definire i contorni del diritto, perché il suo utilizzo non divenisse contrario ai principi dell'ordinamento, era presente già in Platone (Politico) e Aristotele (Etica Nicomachea) che individuarono nell'equità il correttivo del giusto legale, esperienza che nel diritto romano troveremo nel concetto di bona fides. In realtà il concetto di abuso del diritto non è entrato in modo evidente e marcato nel nostro codice civile, anzi, l'epoca illuministica ne ha compromesso, direi definitivamente la sua positivizzazione. Infatti nell'esperienza illuministica il giudice era bouche de la loi, ovvero strumento della volontà legislativa non lasciano dunque alcun spazio a strumenti correttivi extra ordinem.

Nel codice del 1865 non troveremo quindi alcuna traccia dell'abuso del diritto; anzì vi fu chi definì l'abuso del diritto fenomeno sociale , non un concetto giuridico, anzi uno di quei fenomeni che il diritto non potrà mai disciplinare in tutte le sue applicazioni che sono imprevedibili: è uno stato d'animo, è la valutazione etica di un periodo di transizione, è quel che si vuole, ma non una categoria giuridica, e ciò per la contraddizion che nol consente.

Anche nel codice civile del 1942 è rimasto assente l'espressione di un principio generale di abuso del diritto. Pur essendoci stata discussione sul punto, i codificatori, al fine di non indebolire il principio della certezza del diritto con una clausola generale come quella dell'abuso del diritto, hanno deciso di non inserire, nella stesura definitiva del Codice civile del 1942, l'art. 7 del progetto preliminare secondo il quale nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto.

La questione non fu però ignorata, il legislatore ha preferito inserire nel codice vigente disposizioni specifiche con cui sanzionare l'abuso in relazione a determinate categorie di diritti: l'abuso della potestà genitoriale - art. 330; abuso dell'usufruttuario - art. 1015; abuso della cosa data in pegno da parte del creditore pignoratizio - art. 2793. Ci sono poi disposizioni di maggior portata applicativa quali l'art. 833, concernente il divieto di atti emulativi, impiegato come norma di repressione dell'abuso dei diritti reali in genere e gli artt. 1175 e 1375 che hanno consentito di disciplinare l'abuso di diritti relativi o di credito.

Abuso del diritto: diritto comparato

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Il diritto soggettivo attribuito dall'ordinamento giuridico ad un soggetto, non è privo di limiti, esso non si colloca in un universo fenomenologico assente di riflessi ed interazioni ma in una rete di diritti i cui titolari non si identificano in unico soggetto. Proprio la coesistenza di diritti in capo a più soggetti pone ed impone dei limiti stessi al diritto soggettivo, limite interni ed esterni. I limiti interni sono dati dalla stessa definizione del diritto, i suoi connotati, la sua portata, nel tempo e nello spazio (si pensi al diritto di proprietà e agli effetti del tempo in relazione all'usucapione) e la sua efficacia. Sussiste, tuttavia un ulteriore limite la cui esistenza non è sempre stata condivisa e positivizzata, che potremo definire esterno che è dato dall'esistenza stessa del diritto non più in una dimensione uti singuli ma uti societas. Il diritto soggettivo seppur riconosce in capo al suo titolare un potere, questo non può essere esercitato in dissonanza con l'utilità sociale intesa sotto il profilo della solidarietà (art. 2 Cost.). Proprio con lo scopo di sanzionare l'esercizio di un diritto dissonante con il principio di solidarietà sociale è stato elaborato nei secoli il c.d., ed oramai ritenuto, istituto dell'abuso del diritto al fine di intervenire sul relativo abuso.

Il divieto di abuso del diritto si pone dunque quale correttivo all'esercizio del diritto stesso quando esso si pone in contrasto con parte dei principi che lo hanno ispirato. Se indaghiamo sulla evoluzione degli ordinamenti moderni, possiamo rilevare che l'abuso del diritto, ovvero il suo divieto, ha origine giurisprudenziale, tuttavia, in alcune legislazioni tale istituto è stato recepito, attribuendo al giudice il potere di sindacare l'esercizio del diritto soggettivo. Utile è anche notare come gli ordinamenti che hanno normativizzato l'istituto in commento lo abbia collocato tra le disposizioni introduttive del codice civile[9], diversamente, negli ordinamenti in cui il principio dell'abuso non è stato espressamente previsto, e si è affermato attraverso il diritto vivente, trovando fondamento, in misura maggiore o minore, nella normativa sulla buona fede.

La formula abuso del diritto si rileva per la prima volta, nel secolo scorso, in materia di proprietà, nella giurisprudenza francese[10], allora fu posta la questione se ogni forma di esercizio del diritto soggettivo fosse da ritenersi legittima, in quanto estrinsecazione del diritto stesso, o se dovesse venir meno la tutela dell'ordinamento di fronte ad atti del proprietario che, pur essendo esplicazione del diritto, fossero ascrivibili dalla coscienza sociale come abusivi, in quanto non rispondenti ad alcuna meritevole esigenza[11]. Non è un caso che sia proprio l'esperienza francese ad elaborare l'abuso del diritto in quanto espressione dell'assolutezza dei principi affermati dopo la rivoluzione francese. Se da un lato la proclamazione dei diritti e la garanzia delle libertà attribuirono all'economia ciò che richiedeva, ovvero la certezza dei rapporti, dall'altro si assistette ad uno sviluppo dei rapporti assolutamente autonomo rispetto ad ogni controllo ed intervento dello Stato, favorendo inevitabilmente il verificarsi di abusi, in particolar modo in materia di proprietà, modello dello stesso diritto soggettivo nonché esplicazione dei principi di uguaglianza e di libertà[12].

Sarà, dunque, proprio la giurisprudenza francese a formulare il principio dell'abuso, mostrandosi attenta ad effettuare un controllo di tipo contenutistico del diritto soggettivo, rilevando plausibile la responsabilità del titolare del diritto, che nel suo esercizio abbia causato un danno ingiusto[13]. La posizione assunta dalla giurisprudenza sollevò, come è facile intuire, contrastanti opinioni tra coloro che ritenevano l'assoluta insindacabilità dell'esercizio del diritto, se non nella misura in cui avesse oltrepassato i limiti stabiliti dalla legge, e coloro che ritenevano insufficiente ed inadeguato il profilo della legittimità formale, senza tuttavia riuscire ad elaborare un criterio unitario per determinare le fattispecie abusive di esercizio del diritto[14].

Il principio dell'abuso, quale regola giurisprudenziale, venne accolto espressamente, tra l'altro, nell'ordinamento svizzero ed in quello tedesco. Si ha in effetti una esplicita enunciazione nell'art. 2 del codice civile svizzero, norma che nello stabilire che si deve agire secondo buona fede sia nell'esercizio dei propri diritti che nell'adempimento dei propri obblighi, censura il manifesto abuso del proprio diritto non è protetto dalla legge. La citata enunciazione nasconde tuttavia molte incertezze in quanto omette di indicare il criterio per la determinazione dei comportamenti abusivi, e pone il limite dell'abuso manifesto non definendolo. In realtà, la norma è coerente con il sistema svizzero che attribuisce al giudice il potere di decidere, nei casi non previsti dalla legge e in mancanza di consuetudine, secondo la regola che egli adotterebbe come legislatore (art. 1 cod. civ. svizzero). L'esperienza tedesca, influenzata dall'esperienza giurisprudenziale francese, accolse il principio dell'abuso del diritto, collegandolo all'intenzione di nuocere. Il § 226 BGB recita: l'esercizio del diritto è inammissibile se può avere soltanto lo scopo di provocare danno ad altri (quasi equivalente all'art. 833 c.c. italiano). Tale norma ha tuttavia subito la sorte dell'art. 833 del c.c. italiano restando rilegato ad un mero caso di scuola. Nel diritto italiano, come in quello tedesco, il principio del divieto di abuso del diritto ha trovato nella norma in tema di buona fede (§ 242 BGB) la propria musa ispiratrice. Lo strumento del divieto di abuso del diritto rappresenta nell'esperienza tedesca un valido strumento di bilanciamento dei contrapposti interessi[15].

Le scelte del legislatore italiano e le reazioni della giurisprudenza

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Le norme da ultimo citate nel paragrafo precedente, consentono di porre un sindacato sulle scelte e sulle azioni del titolare del diritto relativo, ampliando, la buona fede, l'area della valutazione dei rapporti obbligatori. Appare decisiva la Cassazione civile sez. un. 13 settembre 2005 n. 18128 nella decisione sul potere di esercitare d'ufficio la riduzione della penale ex art. 1384 c.c. secondo cui

«La penale può essere diminuita equamente dal giudice, se l'obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l'ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento».

In realtà sino alla sentenza n. 10511/99 C. Cass., la giurisprudenza della Suprema Corte è stata concorde nell'affermare che il potere del giudice di ridurre la penale non può essere esercitato d'ufficio. La sentenza n. 10511/99 non trovò tuttavia seguito nella successiva giurisprudenza della Corte, che (fatta eccezione per la sentenza n. 8188/2003) ha confermato l'orientamento tradizionale, con le sentenze nn. 5324/2003, 8813/2003, 14172/2000.

Le Sezioni Unite, hanno confermato il principio espresso dalla sentenza n. 10511/1999, cui si è adeguata la sentenza n. 8188/2003. La ragione per cui ho ritenuto di dover richiamare in questa sede il dibattito sull'art. 1384 è la motivazione, all'avanguardia, adoperata dalla Corte. La ragione fondamentale individuata dai Giudici è: "fondata sull'osservazione che l'esegesi tradizionale non appariva più adeguata alla luce di una rilettura degli istituti codistici in senso conformativo ai precetti superiori della Costituzione, individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi, nell'esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie, da valutare insieme ai canoni generali di buona fede oggettiva e di correttezza (artt. 1175, 1337, 1359, 1366, 1375 c.c.).

In proposito è sufficiente ricordare ciò che accade in tema di nullità del contratto, che il giudice può dichiarare d'ufficio purché risultino dagli atti i presupposti della nullità medesima, senza che per l'accertamento della nullità occorrano indagini di fatto per le quali manchino gli elementi necessari (Cass. n. 1768/86 e più di recente Cass. n. 1552/2004, secondo cui «La rilevabilità d'ufficio della nullità di un contratto prevista dall'art. 1421 c.c. non comporta che il giudice sia obbligato ad un accertamento d'ufficio in tal senso, dovendo invece detta nullità risultare "ex actis", ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, essendo i poteri officiosi del giudice limitati al rilievo della nullità e non intesi perciò ad esonerare la parte dall'onere probatorio gravante su di essa», nonché da ultimo Cass. Sez. Un. n. 21095/2004.

Anche recentemente, la Cassazione[16], in materia di condominio, ha ribadito che L'atto emulativo vietato ex art. 833 c.c. presuppone lo scopo esclusivo di nuocere o di recare pregiudizio ad altri, in assenza di una qualsiasi utilità per il proprietario, non deve pertanto essere ricondotto a tale categoria quell'atto che comunque corrisponde ad un interesse del proprietario. La corte, specifica, poi, che il giudice non può compiere una valutazione comparativa discrezionale fra gli interessi in gioco o formulare un giudizio di meritevolezza e prevalenza fra gli stessi; il merito della questione aveva ad oggetto , la presunta natura emulativa della richiesta di ripristino dell'impianto di riscaldamento centralizzato, soppresso da una delibera dichiarata illegittima, considerando la sproporzione tra i costi necessari all'uopo e quelli per realizzare un impianto unifamiliare nell'appartamento dell'istante.

Per risolvere la questione, la Corte parte dal tema dell'autonomia contrattuale, ovvero dai suoi limiti.

L'art. 1322 c.c. attribuisce alle parti:

a) il potere di determinare il contenuto del contratto;

b) il potere di concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare.

Ed ecco i limiti, l'autonomia delle parti deve svolgersi «nei limiti imposti dalla legge», ed il contratto deve essere diretto «a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico».

I limiti tracciati sono soggetti a sindacato del giudice, che non può riconoscere il diritto fatto valere, se esso si fonda su un contratto il cui contenuto non sia conforme alla legge ovvero sia diretto a realizzare interessi che non appaiono meritevoli secondo l'ordinamento giuridico.

L'intervento del giudice in tale casi è indubbiamente esercizio di un potere officioso attribuito dalla legge.

Il potere del giudice di modificare l'accordo delle parti

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Se da un lato il legislatore ha lasciato nelle mani dei contraenti la possibilità di predeterminare, in tutto o in parte, l'ammontare del risarcimento del danno dovuto dal debitore inadempiente (se si vuole privilegiare l'aspetto risarcitorio della clausola), ovvero di esonerare il creditore di fornire la prova del danno subito, di costituire un vincolo sollecitatorio a carico del debitore, di porre a carico di quest'ultimo una sanzione per l'inadempimento (se se ne vuole privilegiare l'aspetto sanzionatorio), e ciò in deroga alla disciplina positiva in materia, ad esempio, di onere della prova, di determinazione del risarcimento del danno, della possibilità di istituire sanzioni private, dall'altro ha riservato al giudice un potere di controllo sul modo in cui le parti hanno fatto uso di questa autonomia. Così facendo il legislatore ha in sostanza spostato l'intervento giudiziale, diretto al controllo della conformità del manifestarsi dell'autonomia contrattuale nei limiti in cui essa è consentita, dalla fase formativa dell'accordo - che ha ritenuto comunque valido, quale che fosse l'ammontare della penale - alla sua fase attuativa, mediante l'attribuzione al giudice del potere di controllare che la penale non fosse originariamente manifestamente eccessiva e non lo fosse successivamente divenuta per effetto del parziale adempimento.

Un potere di tal fatta appare concesso in funzione correttiva della volontà delle parti per ricondurre l'accordo ad equità.

La Corte prosegue ricordando che: "vi sono casi in cui la correzione della volontà delle parti avviene automaticamente, per effetto di una disposizione di legge che ne limita l'autonomia e che sostituisce alla volontà delle parti quella della legge (in tali casi l'accordo delle parti, che non rispecchia il contenuto tipico previsto dalla legge, non viene dichiarato nullo ma viene modificato mediante la sostituzione della parte non conforme); ve ne sono altri, in cui una inserzione automatica della disciplina legislativa, in sostituzione di quella pattizia, non è possibile perché non può essere determinata in anticipo la prestazione dovuta da una delle parti, che quindi non può essere automaticamente inserita nel contratto; in tali casi la misura della prestazione è rimessa al giudice, per evitare che le parti utilizzino uno strumento legale per ottenere uno scopo che l'ordinamento non consente ovvero non ritiene meritevole di tutela, come è reso evidente, proprio in tema di clausola penale, dal fatto che il potere di riduzione è concesso al giudice solo con riferimento ad una penale che non solo sia eccessiva, ma che lo sia «manifestamente», ovvero ad una penale non più giustificabile nella sua originaria determinazione, per effetto del parziale adempimento dell'obbligazione".

Il potere di controllo attribuito al giudice non ha la funzione di tutela nell'interesse della parte ma l'interesse dell'ordinamento, per evitare che l'autonomia contrattuale travalichi i limiti entro i quali la tutela delle posizioni soggettive delle parti appare meritevole di tutela, anche se ciò non toglie che l'interesse della parte venga alla fine tutelato, ma solo come aspetto riflesso della funzione primaria cui assolve la norma.

Può essere affermato allora che il potere concesso al giudice di ridurre la penale si pone come un limite all'autonomia delle parti, posto dalla legge a tutela di un interesse generale, limite non prefissato ma individuato dal giudice di volta in volta, e ricorrendo le condizioni previste dalla norma, con riferimento al principio di equità.

Anche prima dell'intervento delle Sezioni Unite la Cassazione (n. 2749/1980) pur non accogliendo la tesi della rilevabilità d'ufficio, affermava che il potere conferito al giudice dall'art. 1384 c.c. di ridurre la penale manifestamente eccessiva è fondato sulla necessità di correggere il potere di autonomia privata riducendolo nei limiti in cui opera il riconoscimento di essa, mediante l'esercizio di un potere equitativo che ristabilisca un congruo contemperamento degli interessi contrapposti, valutando l'interesse del creditore all'adempimento, cui ha diritto, tenendosi conto dell'effettiva incidenza di esso sull'equilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale.

Il dovere di reciproca lealtà e principio della buona fede

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Nella sentenza Cassazione civile sez. III 18 settembre 2009 n. 20106 la Corte, definisce il principio della buona fede oggettiva, come reciproca lealtà di condotta, che deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Da tali assunti , prosegue la Corte, tra la conseguenza che

la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto.

Già la Cass. 15.2.2007 n. 3462 aveva rilevato che l'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza è un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica. Una volta trasfigurato il principio della buona fede sul piano costituzionale diviene una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.

Il criterio della buona fede costituisce quindi strumento, per il giudice, per controllare, sia in senso modificativo che integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. Daltrone il criterio della reciprocità lo si desume già dalla Relazione ministeriale al codice civile: il principio di correttezza e buona fede, richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore.

In sintesi, dice la Corte, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato.

La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione.

Pregio della sentenza in commento è di aver individuato che:

Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto.

A tal fine individua gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto che sono:

1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto;

2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate;

3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico;

4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.

Abuso del diritto, quale alterazione dello schema formale del diritto

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L'abuso del diritto, non è una violazione in senso formale, ma delinea una utilizzazione alterata dello schema formale del diritto,

finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore.

E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede.

Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.

E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.

La Corte ribadisce che nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto per le ragioni storiche già trattate, tuttavia rileva che:

in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (principio ribadito in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). In materia societaria è stato posto il sindacato, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere si trattava di una deliberazione per lo scioglimento della società), ritenendo principio dell'ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale).

In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (v. Cass. 11.6.2003 n. 9353).

Il caso concreto appena citato mostra ancora una volta come il dover ricorrere a divieto di abuso del diritto come principio generale non consente di ricostruire un comportamento a contenuto prestabilito, ma si pone esclusivamente come limite esterno all'esercizio di una pretesa, per contemperare degli opposti interessi. Sempre in materia societaria l'istituto dell'abuso del diritto è servito a esaminare l'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie da parte del socio ai fini della sua esclusione dalla società, nonché il fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258).

Nell'ambito, dei rapporti bancari è stato in più occasioni ribadito, in virtù del principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede, non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, seppur pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642).

Resta pur sempre da rispettare il fondamentale principio dell'esecuzione dei contratti secondo buona fede (art. 1375 c.c.), alla stregua del quale non può escludersi che, anche se pattiziamente consentito in difetto di giusta causa, il recesso di una banca del rapporto di apertura di credito sia da considerare illegittimo, ove in concreto esso assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari; connotati tali, cioè, da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai comportamenti usualmente tenuti dalla banca ed all'assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista creditizia per il tempo previsto, e non potrebbe perciò pretendersi sia pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate, se non a patto di svuotare le ragioni stesse per le quali un'apertura di credito viene normalmente convenuta.

Ma la verifica, in concreto, dell'eventuale contrarietà a buona fede del recesso - non diversamente, d'altronde, da quella in ordine all'esistenza di una giusta causa, ove la legittimità del recesso sia da questa condizionata - è rimessa al giudice di merito, la cui valutazione al riguardo, se sorretta da congrua e logica motivazione, si sottrae al sindacato della cassazione (Cass. 21.5.1997 n. 4538).


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