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Data: 17/02/2018 14:00:00 - Autore: Giuseppe Rizzi di Giuseppe Rizzi - In tema di reati tributari, quali sono le condizioni in presenza delle quali si può configurare un concorso del consulente fiscale nell'operazione fraudolenta commessa dal cliente? A questa domanda risponde la Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, con la sentenza 18 gennaio 2018, n. 1999 (sotto allegata). La vicenda
La pronuncia della Corte di legittimità trae l'abbrivio dall'ordinanza con la quale il Tribunale del Riesame di Milano disponeva il sequestro preventivo per equivalente di beni nella disponibilità dell'indagato, fino a concorrenza dell'ammontare dei crediti tributari inesistenti, oggetto del reato di indebita compensazione di cui all'art. 10 – quater, comma 2, del d. Lgs. 742000. Nello specifico, la particolare modalità evasiva che si contesta al consulente imputato comprende la trasmissione, da parte di costui, di modelli F24 mediante accollo del debito tributario del titolare della società (cd. accollo fiscale), consentendo a costui la regolarizzazione della propria posizione fiscale, il tutto utilizzando crediti fittizi. A tal riguardo, secondo gli insegnamenti della giurisprudenza, sono considerati crediti "inesistenti" quei crediti del tutto fittizi ovvero frutto di una vera a propria artificiosa creazione del contribuente con la presenza di un disegno criminoso (ad es. credito IVA derivante da fatture per operazioni inesistenti). Reati tributari, concorso per il commercialista ispiratore della frodeNel sostenere ciò, la Corte ha sottolineato l'assenza della buona fede nel consulente, facendo leva sulla particolare posizione di garanzia su di lui gravante, in virtù della qualifica di professionista nella veste della quale è chiamato ad assolvere agli oneri tributari della società presso la quale offre consulenza; stessa cosa dicasi in punto di elemento psicologico del reato, essendo l'imputato pienamente consapevole, secondo le risultanze delle intercettazioni telefoniche, del complessivo sistema evasivo facente capo alla società. In seguito, la Corte si concentra sulla natura del reato di indebita compensazione di cui all'art. 10 – quater d. lgs. 742000. Diversamente da quanto contestato dalla difesa, tale fattispecie è da qualificarsi alla stregua di un reato comune, in ragione dell'espresso riferimento normativo fatto all'agente in termini di "chiunque". Sottolinea la Corte che la norma pone l'accento non tanto su una qualifica soggettiva, ma su un soggetto individuabile in base alla condotta del mancato versamento delle somme dovute all'Erario, mediante il meccanismo dell'opposizione in compensazione di crediti inesistenti di cui all'17 del D.Lgs. n. 241/1997. Tale normativa postula l'indefettibile condizione per cui il soggetto debitore di un tributo verso lo Stato debba essere il medesimo cui sia riferibile il credito opponibile in compensazione, condizione questa che, fino ad una recente risoluzione dell'Agenzia delle Entrate, si è potuta eludere mediante la stipulazione di un contratto di accollo, in forza del quale soggetto debitore figura l'accollante. In realtà, come sottolineato dalla stessa Agenzia delle Entrate, richiamando la L. n. 212 del 2000, art. 8, comma 2, è ammesso l'accollo del debito d'imposta, senza liberazione del contribuente originario; se, però, come nel caso in esame, l'accollante paga mediante compensazione con un proprio credito, si applica la normativa tributaria sulla compensazione che prevede che in tali casi deve sussistere identità tra credito e soggetto contribuente. Oltre a ciò, la Corte sottolinea che il meccanismo dell'estinzione del debito tributario mediante compensazione può avvenire solo in presenza di un'apposita disposizione di legge che lo consenta; mancando, dunque, una norma di tal fatta, l'operazione è da considerarsi illecita e, in ragione delle particolari modalità estrinsecatesi nell'elaborazione di modelli di evasione fiscale, assume rilevanza penale ai sensi dell'art. 10 – quater d.lgs. 74 del 2000. La Corte, quindi, si sofferma sulla punibilità, a titolo di concorso con il debitore principale, del consulente, il quale figura autore diretto in ragione della commistione in sé della figura del debitore coobbligato e di creditore. Il sistema penale tributario attuale prevede solo reati aventi natura delittuosa e punibili a titolo di dolo (compreso il dolo eventuale). Non è configurabile un concorso del professionista consulente a titolo colposo che verrà chiamato a rispondere solo quando abbia dato intenzionalmente un contributo causale, materiale o morale, alla realizzazione del fatto illecito del cliente, agevolandone la condotta ovvero determinandone o rafforzandone la volontà con un proprio comportamento cosciente e volontario. La Suprema Corte, infatti, ha da tempo chiarito che il professionista può essere coinvolto in illeciti penali tributari, anche in concorso con il contribuente, qualora sussistano gli elementi di dolo, mentre si richiede, al fine di andare esente da colpevolezza, che nell'esercizio delle sue funzioni il commercialista osservi sempre la diligenza richiesta dalla normativa e dalla disciplina e deontologia della professione avendo l'obbligo di verificare, nella specie, la correttezza delle informazioni rese dal cliente ed escludere dalla dichiarazione dei redditi, ad esempio, eventuali oneri sprovvisti di documentazione giustificativa. Sono, a tal riguardo, rinvenibili, nella giurisprudenza di legittimità, esempi in cui è da considerarsi sussistente l'elemento soggettivo del dolo in capo al consulente fiscale: consulente che ha predisposto una dichiarazione infedele utilizzando documenti della cui falsità sia a conoscenza (Cass. 2625/1995); consulente che ha predisposto una dichiarazione infedele utilizzando documenti che si è attivato personalmente a reperire sul mercato delle "cartiere" (Cass. 35453/2010 e Cass. 26138/2010); consulente che abbia suggerito al cliente particolari espedienti idonei a fargli conseguire un'evasione d'imposta o un indebito rimborso (Cass. 23522/2014); consulente che coordinando la contabilità di varie aziende le ha aiutate ad evadere tramite un giro di fatture false (Cass. 29899/2011); consulente che assiste il contribuente nell'approntamento e realizzazione di atti simulati o fraudolenti per sottrarsi al pagamento di imposte dovute (Cass. 38925/2009 e Cass. 21013/2012); consulente che nell'ambito di una consulenza professionale si spinga oltre l'ambito della sua prestazione e suggerisca al cliente un mezzo fraudolento finalizzato a celarne le reali condizioni economiche (Cass. 21.10.1998); consulente che suggerisca al cliente l'emissione di fatture per operazioni inesistenti e la contemporanea emissione di note di credito correttive, allo scopo di realizzare una temporanea evasione d'imposta, differendo artificiosamente i tempi di versamento (Cass. 15.4.1991). Ebbene, in base alle prove raccolte nell'ambito del giudizio di merito, secondo la Corte non è in dubbio il contributo causale fornito dal consulente fiscale alla realizzazione del fatto illecito posto in essere dal cliente – contribuente, quale professionista a questi legato da regolare contratto nonché quale domiciliatario di varie società beneficiarie dell'indebita compensazione; in ciò, infatti, va intravisto il suo ruolo attivo di partecipe, estrinsecatosi mediante l'adozione di meccanismi fraudolenti volti alla trasmissione telematica di modelli F24, con accollo del debito tributario riferibile a terzi, in ciò consentendo l'apparente regolarizzazione della propria posizione fiscale, utilizzando crediti fittizi. A tal riguardo, la Corte sottolinea l'indefettibile condizione della sussistenza dell'elemento psicologico del dolo: il concorso del commercialista è configurabile solo laddove questi fosse consapevole e cosciente del fatto di porre in essere una frode fiscale, comportandosi più che da consulente, da autentico regista di una complessa operazione evasiva, mediante lo schema dell'indebita compensazione, tramite F24, di crediti inesistenti, con la finalità di omettere i versamenti Iva dovuti. Il consulente, dal suo canto, non è stato in grado di produrre alcuna prova circa la sua estraneità ai fatti contestati, anche perché sarebbe stato quasi diabolico accertare un suo ruolo meramente residuale nella vicenda; sia perché, curando la contabilità, di certo era conoscenza dei crediti dal momento della formazione fino al loro utilizzo; sia perché la compilazione "tecnica" e la trasmissione del modello F24 erano adempimenti eseguiti dal consulente. Il principio di diritto della CassazioneDeve, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto: "In tema di reati tributari, è responsabile a titolo di concorso il consulente fiscale per la violazione tributaria commessa dal cliente (nella specie, per il delitto di indebita compensazione), quando il primo sia l'ispiratore della frode, ed anche se solo il cliente abbia beneficiato della operazione fiscalmente illecita".
La Corte, infine, si sofferma sulla circostanza aggravante di nuovo conio di cui all'art. 13 – bis comma 3 d. lgs. 74 del 2000. La norma, infatti, rappresenta un'ipotesi di "concorso qualificato", relativo a condotte peraltro già punibili a titolo di concorso "ordinario" di cui all'art. 110 c.p., se non fosse per la peculiarità di assoggettare l'applicabilità dell'aggravante alla sussistenza di due requisiti, uno soggettivo (l'essere un professionista, un intermediario finanziario o bancario), da intendersi peraltro in senso sostanziale, ed uno oggettivo (le modalità "seriali" della condotta, concretantesi nell'elaborazione o commercializzazione di modelli di evasione), rappresentativa di una certa abitualità, ripetitività della condotta incriminata. |
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