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Data: 07/04/2018 10:25:00 - Autore: Lucia Izzo di Lucia Izzo - Non può essere ottenuta la restituzione del denaro pagato a chi millanta di procurare ad altri (nel caso di specie, alla figlia) un posto di lavoro in quanto tale prassi è da considerarsi non solo illecita, ma anche contraria al buon costume. Pertanto, troverà applicazione il principio della "soluti retentio", che consente all'altro di trattenere quanto gli è stato pagato, e non quello dell'indebito oggettivo. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sesta sezione civile, nell'ordinanza n. 8169/2018 (qui sotto allegata) pronunciandosi in relazione a una "prassi" che, nonostante la sua illiceità, si verifica di frequente, ovverosia il pagamento di una somma in cambio della promessa di un posto di lavoro. La vicendaNel caso in esame, un uomo aveva versato oltre 20mila euro a un "mediatore" le cui presunte e millantate "conoscenze" avrebbero potuto assicurare alla figlia un posto di lavoro in Banca. Tuttavia, poiché tale assunzione non avveniva, il padre della ragazza agiva in giudizio per ottenere il risarcimento della somma esponendo anche di aver sporto denuncia per truffa e millantato credito (da cui l'imputato era stato prosciolto per intervenuta prescrizione). In primo grado, tuttavia, la domanda del genitore veniva rigettata per mancanza di prove, mentre la Corte d'Appello riteneva di accoglierla e, per l'effetto, di condannare l'appellato al pagamento della somma. Per il giudice a quo, infatti, non avrebbe dovuto trovare applicazione la soluti retentio di cui all'art. 2035 c.c., bensì la disciplina dell'indebito oggettivo, poiché il versamento di denaro era avvenuto in violazione anche di norme imperative e non solo del buon costume. Cassazione: niente risarcimento della somma pagata per ottenere un posto di lavoroDi contrario avviso, invece, la Cassazione chiamata a pronunciarsi sulla vicenda. Gli Ermellini rammentano che la nozione dei negozi contrari al buon costume ricomprende, non solo, i negozi che infrangono le regole del pudore sessuale e della decenza, "bensì anche i negozi che urtano contro i principi e le esigenze etiche della coscienza collettiva, elevata a livello di morale sociale, in un determinato momento e ambiente". Rifacendosi a una precedente pronuncia (cfr. sent. 9441/2010) e dissociandosi da quanto in altra sede attestato (cfr. Cassazione penale sent. 35352/2010), il Collegio ritiene che chi ha versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume Per i giudici della Suprema Corte è indubbio che la consegna di una somma di denaro ai fini di un interessamento (vero o presunto) per l'ottenimento di un posto di lavoro configuri un negozio contrario a norme imperative, e quindi illecito. Inoltre, tale operazione integrerebbe anche gli estremi del negozio contra bonos mores, posto che "è contrario al concetto di buon costume comunemente accettato il comportamento di chi paghi del denaro per ottenere in cambio un posto di lavoro (e ciò a prescindere dall'esito, magari anche negativo, della trattativa immorale)". La Cassazione ritiene, dunque, non condivisibile la conclusione della Corte territoriale secondo non troverebbe applicazione l'art. 2035 c.c. ove la condotta, oltre a essere immorale, fosse anche illecita. Al contrario, i giudici ribadiscono che "la contemporanea violazione, da parte di una medesima prestazione, tanto dell'ordine pubblico quanto del buon costume, attingendo ad un livello di maggiore gravità, deve ricevere il trattamento previsto per la prestazione che sia soltanto lesiva del buon costume". Il pagamento oggetto del giudizio, quindi, non avrebbe potuto essere inquadrato nell'ipotesi dell'indebito oggettivo, bensì avrebbe imposto l'applicazione dell'art. 2035 c.c., secondo il noto brocardo romanistico per cui "in pari causa tuipitudinis melior est condicio possidentis". Cassata la sentenza impugnata, la parola passa al giudice del rinvio.
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