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Data: 12/04/2018 20:00:00 - Autore: Lucia Izzo di Lucia Izzo - Sono tre i requisiti che devono sussistere affinchè sia soddisfatto l'adempimento previsto dall'art. 38 del Codice Deontologico Forense (Rapporto di Colleganza) ove l'avvocato decida di agire in giudizio nei confronti di un collega per fatti attinenti l'esercizio della professione. A esprimersi sul punto, individuando tali requisiti, è stato il Consiglio Nazionale Forense nella sentenza n. 231/2017 (qui sotto allegata) pronunciandosi sulla vicenda da di un avvocato ritenuto colpevole per aver usato espressioni offensive nei confronti di una collega. Inoltre, all'avvocato era contestato anche di non aver dato alla medesima collega preventiva comunicazione per iscritto dell'intenzione di promuovere nei suoi confronti domanda di risarcimento danni per colpa professionale. La vicendaLa collega aveva emesso due decreti ingiuntivi nei confronti dei suoi assistiti per ottenere il pagamento di compensi professionali e i due, con il patrocinio dell'avvocato ricorrente, presentavano tempestive e distinte opposizioni. Uno dei due atti di opposizione conteneva, tuttavia, anche una domanda riconvenzionale di condanna nei confronti dell'avvocatessa per risarcimento danni da responsabilità professionale. Il competente COA, a seguito di un esposto della professionista, aveva ritenuto di sanzionare l'avvocato sia per le frasi offensive da lui utilizzate nei confronti della collega, che per il non aver fatto precedere la domanda di risarcimento da alcuna preventiva comunicazione scritta. Le regole prima di agire in giudizio contro il collegaIl CNF, chiamato a pronunciarsi sulla vicenda, conviene con la decisione impugnata per quanto riguarda la proposizione della domanda riconvenzionale nei confronti della collega, integrante la fattispecie di all'art. 38 del Codice Deontologico Forense (già art. 22 cod. prev.). Tale norma prevede che l'avvocato che intenda promuovere un giudizio nei confronti di un collega per fatti attinenti all'esercizio della professione dovrà dargliene preventiva comunicazione per iscritto, salvo che l'avviso possa pregiudicare il diritto da tutelare. Secondo il Collegio, l'adempimento di tale obbligo deve ritenersi soddisfatto se concorrono tre requisiti: - quello formale, consistente nell'adozione dello scritto quale veicolo della comunicazione; - quello sostanziale, consistente nel rendere chiara l'intenzione di chi comunica che agirà in giudizio; - l'ultimo, anch'esso di carattere sostanziale, consistente nel palesare la ragione dell'iniziativa. Mentre il primo requisito ha la funzione di impedire qualsiasi equivoco, spiega la sentenza, il secondo e il terzo consentono al destinatario della comunicazione di evitare di essere convenuto in giudizio rimuovendo, o tentando di rimuovere, le ragioni della controversia. Ciò risulta possibile, tuttavia, solo se la comunicazione sia titolata ed esplichi i motivi del contrasto, consentendo quello spatium deliberandi da parte del destinatario che possa permettere a quest'ultimo di evitare la sede giudiziaria. Nel caso di specie, gravava sull'avvocato ricorrente l'onere di preavvisare per iscritto la collega dell'intenzione di promuovere nei suoi confronti una domanda di condanna per responsabilità professionale e ciò in modo da consentirle di poter usufruire di un congruo spazio di tempo per una completa valutazione della situazione anche al fine di evitare la sede giudiziaria. Non avendo l'incolpato rispettato tale onere, e neppure avanzato valide giustificazioni per negare la sua responsabilità disciplinare, il COA conferma il provvedimento ritenendosi altresì congrua e rispettosa dei principi del Codice Deontologico la sanzione commiantacensura). Avvocati: il diritto di difesa non scrimina le frasi offensive al collegaIl Consiglio abbraccia le conclusioni del COA anche per ciò che concerne l'attribuibilità alle frasi incriminate dei caratteri di offensività o sconvenienza richieste dal Codice all'attuale art. 52, concludendo a sua volta per il carattere non rispettoso e lesivo della figura anche professionale della collega. Il ricorrente, nelle sue frasi, ha accusato la collega di comportamenti (non tanto diretti a veder accertare l'esistenza del suo credito, quanto) volutamente "persecutori" nei confronti dei clienti e caratterizzati da malafede. L'avvocatessa è infatti stata accusata dall'incolpato di voler "spillar quattrini", ovvero, di voler carpire con astuzia. L'esercizio del diritto di difesa, spiega il CNF, non potrà fungere da scriminante dell'illiceità deontologica di espressioni esorbitanti (come quelle utilizzate dall'incolpato) perché non pertinenti né necessarie a sostenere la tesi adottata, gratuitamente offensive nei confronti del collega e, come tali, non rispettose dei generali doveri di dignità e decoro ai quali l'avvocato è comunque tenuto a conformarsi. |
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