Data: 17/03/2023 11:00:00 - Autore: Annamaria Villafrate

Piano di rientro: cos'è e come funziona

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Il piano di rientro bancario è l'atto con cui la banca negozia l'estinzione del debito del cliente in via stragiudiziale. Il piano di rientro o di risanamento prevede il pagamento rateale progressivo dell'importo concordato con la banca fino alla sua estinzione. Trattandosi di un accordo negoziale la banca e il cliente devono tentare di trovare una soluzione che consenta:

  • alla banca di soddisfare il proprio diritto di credito;
  • al cliente di sostenere il pagamento delle rate senza troppe difficoltà.

Per questo è importante che il cliente predisponga un piano realistico, che è sicuro di sostenere nel tempo. La banca da parte sua, dopo aver valutato la proposta di rientro avanzata dal cliente è libera di accettarlo o rifiutarlo.

Come proporre un piano di rientro alla banca

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Pensare che predisporre un piano di rientro con la propria banca sia un compito facile e alla portata di tutti è errato. Sempre meglio rivolgersi a professionisti del settore, ovvero avvocati esperti in diritto bancario o a società di analisti bancari.

Questo perché l'elaborazione di un piano di rientro richiede la capacità di dimostrare che l'accordo è fattibile e che il cliente è in grado di onorarlo. Non solo.

Attraverso l'analisi degli accordi e degli estratti conto del cliente è possibile utilizzare eventuali irregolarità, illeciti ed anomalie delle condizioni contrattuali applicati dalla banca per negoziare un piano di rientro più vantaggioso per il debitore.

Piano di rientro bancario: quando conviene

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Il piano di rientro bancario fa seguito solitamente alla revoca del fido bancario e alla richiesta di rientro dell'affidamento bancario. In questi casi è importante verificare la legittimità e la fondatezza dell'istanza dell'istituto bancario. Si possono infatti verificare due ipotesi:

1) La banca dopo aver verificato la posizione debitoria del cliente, attenendosi ai principi di correttezza e buona fede, in caso apertura di credito a tempo indeterminato (ipotesi più frequente) provvede a notificare al debitore, con un anticipo di 15 giorni rispetto alla revoca del fido, un preavviso scritto contente una giusta causa di recesso (comma 3 art 1845 c.c). In questo caso, è chiaro che, in presenza di gravi e giustificati motivi, come l'inaffidabilità e/o l'insolvenza del debitore, la banca è legittimata, in qualsiasi momento, a recedere dal contratto. Il correntista non potrà quindi fare altro che restituire subito e in un'unica soluzione le somme richieste o proporre un piano di rientro. Questa soluzione si rivela particolarmente conveniente poiché la mancata restituzione del quantum richiesto dalla banca comporta:

  • la segnalazione alla Centrale dei Rischi;
  • l'avvio della procedura giudiziale di recupero del credito (decreto ingiuntivo, precetto, pignoramento, azione esecutiva ed eventuale istanza di "fallimento").
2) Può però accadere anche che la banca, senza rispettare i principi di correttezza e buona fede, non invii alcun preavviso al cliente e non adduca neppure una giusta causa di recesso (ipotesi consentita solo nei contratti di apertura del credito a tempo determinato). In questo caso, ossia al di fuori cioè dei casi consentiti dalla legge, è il cliente a poter contestare il comportamento la banca creditrice, citandola in giudizio per condotta abusiva.

Piano di rientro bancario: natura giuridica

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Della natura giuridica del piano di rientro si è occupata la Cassazione stabilendo che "il piano di rientro concordato tra la banca ed il cliente, ove abbia natura meramente ricognitiva del debito, non ne determina l'estinzione, né lo sostituisce con nuove obbligazioni, sicché resta valida ed efficace la successiva contestazione della nullità delle clausole negoziali preesistenti" (cfr. Cass. n. 19892/2014; Cass. n. 24546/2016).

La pronuncia conferma l'orientamento sancito dalla sezione III della Suprema Corte, secondo la quale: "La ricognizione di debito, al pari della promessa di pagamento, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto effetto conservativo di un preesistente rapporto fondamentale, realizzandosi, ai sensi dell'art. 1988 c.c. - nella cui previsione rientrano anche dichiarazioni titolate - un'astrazione meramente processuale della causa, comportante l'inversione dell'onere della prova, ossia l'esonero del destinatario della promessa dall'onere di provare la causa o il rapporto fondamentale, mentre resta a carico del promittente l'onere di provare l'inesistenza o l'invalidità o l'estinzione di detto rapporto, sia esso menzionato oppure no nella ricognizione di debito" (cfr. Cass. n. 4019/2006).

Ne consegue che "qualora il promissario, agendo per l'adempimento dell'obbligazione, dia la prova della promessa, incombe sul promittente l'onere di provare la inesistenza o la invalidità o l'estinzione del rapporto fondamentale. A tal fine non è sufficiente che lo stesso alleghi e dimostri che «altro» rapporto fondamentale è stato estinto, dovendo viceversa provare l'identità tra tale rapporto e quello presunto per effetto della ricognizione di debito, non bastando una mera «compatibilità» astratta tra i due titoli".


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