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Data: 03/12/2018 06:00:00 - Autore: Lucia Izzo di Lucia Izzo - Minacce e insulti rivolti nei confronti dell'ex a seguito della fine della relazione, seppur alternati ad ammissioni di colpa e richieste di perdono o pietà, sono idonei a integrare il reato di stalking avendo provocato nell'altro uno stato di ansia e paura. Tanto emerge dalla sentenza n. 53630/2018 (qui sotto allegata) con cui la Corte di Cassazione, terza sezione Penale, ha respinto il ricorso di un uomo imputato per stalking nei confronti della ex fidanzata. Questi aveva mal digerito la fine della loro relazione e aveva iniziato a tempestare la donna di telefonate e messaggi di posta attraverso i social network, cagionandole un perdurante e grave stato d'ansia o paura, ingenerando il fondato timore per l'incolumità propria e costringendola ad alterare le proprie abitudini di vita. In Cassazione l'uomo ritiene insussistente il reato di stalking a suo carico. Evidenzia come i comportamenti molesti erano stati reciproci, al punto che la stessa persona offesa era stata condannata per il reato di minacce ai suoi danni e che la ragazza aveva poi ritirato poi la denuncia. Inoltre, nonostante la reciprocità degli insulti e delle aggressioni fisiche e verbali, la donna aveva continuato a frequentare lui e la sua comitiva anche dopo la fine della relazione sentimentale. Tutte prove documentali e testimoniali che consentivano di concludere che non aveva arrecato un cambiamento nelle abitudini di vita della persona offesa. Stalking le minacce e gli insulti all'ex anche se alternate a richieste di perdonoPer gli Ermellini, invece, i giudici di merito hanno compiutamente risposto a tutte le doglianze che il ricorrente ha riproposto pedissequamente in sede di legittimità. La Corte territoriale ha vagliato criticamente tutti i fatti, dichiarazioni e messaggi dell'imputato, valorizzando le minacce, gli insulti, le recriminazioni alternate ad ammissioni di colpa e richieste di perdono o pietà, nonché il perdurante e grave stato di ansia e paura in cui era stata ridotta la persona offesa come da sue dichiarazioni ritenute attendibili perché caratterizzate da pacatezza e precisione. Un impianto sul quale la Corte di Cassazione ritiene di non poter sindacare, posto anche che nel caso di specie ci si trova dinanzi ad una "doppia conforme" e cioè ad una doppia pronuncia di eguale segno: quindi, il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in Cassazione solo ove il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che l'argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado. In sostanza, le sentenze di primo e di secondo grado si saldano tra loro e formano un unico complesso motivazionale, qualora i giudici di appello, come nella specie, abbiano esaminato le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai fondamentali passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione impugnata. Parimenti inammissibile il motivo con cui il ricorrente ha recriminato l'omessa acquisizione di un atto a suo avviso decisivo e cioè il presunto accertamento della responsabilità della donna per reato di molestie a suo danno: l'esistenza della sentenza, spiega la Corte, non vale di per sé a minare la credibilità della donna e, d'altra parte, l'omessa pronuncia era spiegabile con l'implicito rigetto dell'acquisizione di un atto irrilevante.
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