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Data: 14/12/2018 11:00:00 - Autore: Marino Maglietta di Marino Maglietta – Facendo riferimento e confermando un proprio precedente intervento, la Cassazione (ordinanza n. 31902/2018) documenta convincentemente che il sistema legale, soprattutto ai più alti livelli, non ha ancora accolto la riforma del 2006 e le sue chiare indicazioni a favore di una applicazione fedele dei principi di cui all'art. 30 della Costituzione. Leggi Cassazione: bigenitorialità non vuol dire tempi uguali coi figli
Si fa notare, anzitutto, l'aspetto sostanziale della scelta, che è quella di respingere la richiesta di un genitore di essere maggiormente presente e partecipe della crescita e dell'educazione della figlia, di per sé sempre auspicabile e da premiare. A maggior ragione, visto che si sostiene frequentemente l'inopportunità di disporre affidamenti di pari impegno a padri e madri per la carenza di candidature di genere maschile. Un diniego aggravato dalla circostanza che l'intervento contestato, aveva addirittura contratto il numero di pernottamenti precedentemente fissati. Occorre riconoscere, tuttavia, che anche la richiesta non era supportata da motivazioni e premesse ineccepibili. Il ricorso, infatti, presenta quale primo motivo "non avere individuato il genitore più idoneo a curare l'interesse della figlia". Una contestazione che evidentemente appartiene alla filosofia dell'affidamento esclusivo e nulla ha a che vedere con i fondamenti della bigenitorialità. Uno spunto iniziale, dunque, che indebolisce fortemente la successiva nota critica, che invoca la "violazione del principio di parità tra i genitori". Si direbbe, dunque, che i fondamenti della riforma del 2006 siano poco chiari anche a chi contesta le decisioni del merito su quei medesimi principi. Purtroppo, nemmeno la Suprema Corte dimostra di ben aderire alle circostanze sulle quali si fonda l'affidamento condiviso in alternativa all'affidamento esclusivo a uno solo dei genitori o all'affidamento ai Servizi Sociali. Fornisce, difatti, subito in partenza una sua definizione della bigenitorialità che non può non lasciare perplessi: "il principio di bigenitorialità si traduce nel diritto di ciascun genitore ad essere presente in maniera significativa nella vita del figlio". La prima osservazione – di non piccolo rilievo – è che così procedendo intesta il diritto in capo ai genitori e non ai figli, esattamente capovolgendo sia lo spirito che la lettera della norma (art. 337-ter, comma I c.c.). Erra d'altra parte, così facendo, anche nella misura, sia perché il diritto indisponibile della prole attiene sia alla quantità che ai contenuti della citata "presenza" dei genitori. La misura non è "significativa", ma "equilibrata e continuativa"; ovvero alla definizione del legame dell'avente diritto con i genitori è stato sostituito quello con gli ascendenti e gli altri parenti, declassando i primi. Inoltre, viene ignorata completamente la seconda parte del diritto, ovvero quello a ricevere "cura", e non semplicemente e riduttivamente "mantenimento economico", da ciascuno dei genitori. Il che porta ad esaminare la serie di argomentazioni con le quali si sostiene l'inesistenza di un diritto alla "parità" dei tempi della frequentazione. Un diniego che chi scrive considera ragionevole verso chi pretendesse la parità sempre e comunque, ma non altrettanto ove si assumesse la necessità sempre e comunque dell'opposto, ovvero di un "genitore collocatario": che è appunto ciò che la Cassazione più o meno velatamente si propone di fare. Il riferimento alla precedente decisione appare rivelatore. Il "giudizio prognostico che il giudice, nell'esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione" a null'altro assomiglia che alla ricerca del genitore più idoneo ad essere l'affidatario, come si usava prima della riforma del 2006. Non a caso, "va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti ... fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi,"(Cass. n. 18817 del 23/09/2015). Dove è evidente che la stabilità non è intesa come regolarità di abitudini, ma come netta prevalenza di un contesto abitativo e di un maggior potere decisionale di un genitore rispetto all'altro. Si evidenzia, dunque, un problema interpretativo, con tutta probabilità di matrice culturale, ovvero il rischio di un rigetto sistematico di qualsiasi normativa che ponga i genitori in condizioni paritetiche. Un rischio davvero pesante, perché l'equilibrio, o meglio sapere di essere in condizioni di pari opportunità in un giudizio legale ne allontana l'eventualità e eccresce la probabilità di adesione a percorsi di mediazione e la loro probabilità di successo. Pertanto, se un modello di approccio può, sommessamente, suggerirsi al sitema legale è quello di porre i genitori in condizioni assolutamente paritetiche sotto il profilo giuridico-formale, quale necessaria condizione di partenza per assicurare ai figli pari opportunità al fine di ricevere, anche asimmetricamente, dall'uno e dall'altra ciò che ad essi maggiormente serve in quel momento, in una sorta di equilibrio statistico, mediamente bilanciato E sempre compatibilmente con le oggettive circostanze di fatto, ma non in dipendenza di opinabili convinzioni pseudo-sociologiche. Si osserva, viceversa, una visione chiaramente adultocentrica, come dimostra il modo di gestire la parte economica nella pressoché totale giurisprudenza, sistematicamente ancorata alla forma indiretta, a dispetto delle prescrizioni di legge, che privilegiano il mantenimento diretto. In effetti sul punto nulla può essere rimproverato alla Suprema Corte nel caso in esame, poiché la stessa parte ricorrente aveva limitato i propri rilievi alla misura e non alla forma del contributo (anche se realmente 800 € mensili sono cifra adeguata per uno studente universitario fuori sede, non per mantenere una bimbetta). Una omissione che dimostra ulteriormente quanto sia estesa per la legge 54/2006 la scarsa comprensione soprattutto delle norme sul mantenimento, a dispetto dei numerosi e concordi interventi della dottrina (ex pluris, C.M. Bianca, T. Auletta, B. De Filippis, M.Sesta, L. Rossi Carleo e C. Caricato, E. Quadri, G. Frezza, G. Giacobbe, A. Morace-Pinelli, G. Ballarani, A. Arceri, A. Costanzo etc.). E soprattutto manca la capacità di riconoscere alla forma del mantenimento la sua immensa valenza relazionale, sulla quale qui non insiste, rimandando, ad es., alle linee guida del tribunale di Brindisi, una delle poche eccezioni. Preme, tuttavia evidenziare una delle principali distorsioni interpretative, legata alla presunta necessità di ancorare il mantenimento diretto alla vicinanza geografica dei genitori, dimenticando che ai capitoli di spesa non legati alla convivenza (dall'affitto della casa alle spese per l'istruzione, dai mezzi di trasporto alle attività ricreative e sportive e perfino all'abbigliamento) si può benissimo provvedere anche dal Canada, visto che comunque dei contatti continuano ad esserci, anche se concentrati in determinati periodi dell'anno. Anzi, proprio nel caso di genitori che abitano a grandi distanze appare decisamente consigliabile che il soddisfacimento dei bisogni non quotidiani sia attribuito al genitore che è forzatamente escluso dalla quotidianità. Allo stesso modo se, come nel caso presente, si ricorre all'affidamento ai Servizi Sociali per limitare contatti tra i genitori che possano essere fonte di conflitto, visto che necessariamente in questi casi c'è un collocamento prevalente presso uno dei due, ci si dovrebbe rammentare che si crea il terreno più fertile perché abbiano effetto sul bambino quelle sottili manipolazioni che inducono in lui una crescente distanza affettiva, fino al rifiuto. Dovrebbero, quindi, essere incentivate, se non prescritte, tutte quelle forme di contatto oggi disponibili, come Skype e WhatsApp, che mantengano vivo il rapporto. Tutto questo quando il danno non si sia già manifestato: nel qual caso indubbiamente l'esempio da seguire sarebbe quello fornito recentemente dal tribunale di Brescia (ord. 19 novembre 2018), ovvero togliere drasticamente potere al genitore alienante.
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