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Data: 29/12/2018 18:30:00 - Autore: Filippo Pirisi Avv. Filippo Pirisi - Uno degli argomenti maggiormente dibattuti in tema di connessioni fra il diritto penale e quello sportivo è certamente l'indagine dei profili di responsabilità penale all'interno delle condotte sportive. Infatti, anche all'interno di queste ultime è possibile rinvenire aspetti di responsabilità penale, i quali, negli ultimi decenni, hanno comportato un'importante proliferazione dottrinaria ed interventi giurisprudenziali di spiccato prestigio argomentativo. Si tratta di dover comprendere quali siano i requisiti strutturali di una condotta (sportiva) perché la stessa possa comportare la "fuoriuscita" verso un ambito proprio della giustizia ordinaria. In altre parole, l'interrogativo è il seguente: quali requisiti deve avere una condotta sportiva per integrare (anche) un illecito penale?
Come ha scritto l'Avv. Di Tano, è una domanda che viene posta fin dagli albori del diritto, in quanto "già nell'antica Grecia vennero affrontate le questioni della responsabilità per lesioni cagionate dall'esercizio dell'attività sportiva. Indicativo il passo 54 di Demostene nell'opera "Contro Aristocrate", nel quale rileva l'assenza di colpa in caso di omicidio compiuto nel corso dei giochi in virtù della precisa scelta del legislatore di fare riferimento non al risultato bensì alle intenzioni del soggetto agente consistenti nella ricerca della vincita. Le stesse posizioni furono prese, successivamente, anche in epoca romanda: ci giungono, infatti, passi del Digesto giustinianeo che ribadiscono la liceità del danno cagionato nel corso dell'attività sportiva. Tale impostazione perdura, poi, anche in epoche successive, basti pensare al periodo medievale, quando erano considerati più che semplici consuetudini le giostre ed i tornei che vedevano coinvolti i cavalieri in scontri di gioco del tutto leciti sebbene spesso anche mortali per i partecipanti". Riportando la trattazione ai giorni nostri, non si può non richiamare il principio fondamentale nella qualificazione delle condotte penalmente rilevanti, ovvero quello generale ed astratto del neminem laedere. Principio che, però, per quanto oggi interessa, deve indubbiamente essere letto alla luce della carica agonistica connaturata alla pratica sportiva, sia che si tratti di sport "a violenza necessaria", anche detti "a contatto istituzionalizzato", sia che, invece, si faccia riferimento a quelli "a contatto eventuale". Infatti, in linea astratta, se quel principio generale fosse sempre applicabile comporterebbe la configurabilità di un reato a carico dello sportivo agente ogniqualvolta la sua condotta provochi una lesione. E' evidente, però, che ciò non sarebbe accettabile. Infatti, si può ritenere che il legislatore, sebbene senza una previsione specifica della materia, abbia tacitamente deciso di ricomprendere queste fattispecie nella scriminante ex art. 50 c.p., dando così riconoscimento di meritevolezza al consenso dell'atleta in tema di libera assunzione del rischio. Sul punto, anche alla luce dell'istituzionalizzazione degli sport attraverso il CONI e del principio sancito dall'art. 2 della Costituzione, merita rilievo un più recente ed accreditato orientamento per cui cui non dovrebbe ritenersi rilevante la suddetta scriminante quanto, invece, il richiamo all'art. 51 c.p. secondo cui l'atleta starebbe di fatto esercitando il proprio diritto alla pratica sportiva, per quanto "pericolosa". Interpretazioni, queste che precedono, che hanno trovato comune convivenza mediante un'illuminata valutazione (Garofoli, 2018) secondo cui, a bene vedere, il consenso ex art. 50 non opera quale autonoma causa di giustificazione ma, al contempo, come condizione necessaria perché possa essere invocata la causa di giustificazione dell'esercizio di un diritto di cui all'art. 51, poiché, diversamente, la scriminante andrebbe a scontrarsi con i limiti imposti dall'art. 5 c.c. in tema di libera disposizione del proprio corpo. Ad ogni buon conto, però, sia che si voglia concordare con l'una o l'altra teoria o, ancora, con la visione unitaria delle due, ciò che è decisivo nell'inquadramento della fattispecie è l'analisi sul "come" la condotta sportiva sia stata concretamente posta in essere: infatti dottrina a giurisprudenza concordano nel ritenere che il focus della questione consiste nell'accertamento della concreta condotta posta in essere, con l'automatica conseguenza che se la stessa si è compiuta all'interno dei dettami regolamentari di quella determinata disciplina sportiva, ancorché se accentuata dall'animus pugnandi, allora non potrà esserci violazione di rilievo penale (Cass. Pen, 207791/1998, 377/1999, 505/1999, 3056/2001, 167/2003 e, da ultima, sez. IV, 9559/2016). La ratio di questa interpretazione, oramai maggioritaria e consolidata, risiede nel fatto che lo sportivo, liberamente scegliendo di partecipare a quella competizione, ha accettato il cosiddetto "rischio consentito" ma solo se garantito dal rispetto che quelle che, a lui ben note, sono le dinamiche cautelari imposte dall'ordinamento sportivo di riferimento. E' per questo che la tesi dominante è attualmente quella della scriminante atipica per come inquadrata dalle note sentenze Cass. Pen., sez. IV, 2765/2000 e sez. V 19473/2005: il soddisfacimento dell'interesse generale della collettività allo svolgimento dell'attività sportiva può consentire l'assunzione del rischio della lesione di un interesse individuale quale è quello all'integrità fisica, ma solo se i soggetti coinvolti sono stati regolarmente informati su ogni aspetto della disciplina, se hanno prestato il loro consenso e se la competizione e le singole condotte si sono svolte nel pieno ed assoluto rispetto della normativa sportiva di riferimento. E' in questo contesto che acquistano rilievo sia l'aspetto della condotta -oggettivamente- consentita dall'ordinamento sportivo sia quello della condotta -soggettivamente- in concreto perpetuata dall'agente poiché, in certe situazioni, la portata della scriminante atipica è tale da poter meritare applicabilità anche quando vi sia una "violazione" delle regole. La giurisprudenza ha infatti risposto a questo quesito interpretativo con pronunce orientate al principio -ben noto anche nella regolamentazione CONI- della "lealtà sportiva", secondo cui le condotte compiute nel rispetto della buona fede agonistica dovranno ritenersi lecite mentre quelle compiute o in evidente violazione delle norme sportive o, comunque, in ogni caso, al di fuori dell'agonismo consentito, dovranno invece ritenersi meritevoli di censura. Il difficile sarà, dunque, interpretare quegli episodi ad liminem, in cui la linea di discrimine fra la condotta sportiva in senso stretto e la condotta "esorbitante" non sia di agevole comprensione ed identificazione: in questi casi si ritiene che elemento decisivo dovrà essere l'indagine sulla reale volontà del soggetto agente, con l'ulteriore precisazione di rilievo in tema di colpa o dolo. E' infatti più volte stato ribadito che avranno rilievo penale quelle condotte in cui non si possa rilevare alcuna connessione fra la concreta azione e le finalità sportive: in altre parole, le concrete modalità della trasgressione cautelare della regola sportiva, se anche lette in combinato con le caratteristiche specifiche dell'agonismo, dovranno distinguere quando e se l'azione debba o meno assumere rilievo penale. All'interno di questo preciso quadro interpretativo, come anticipato sopra, assume particolare rilievo l'analisi della volontà del soggetto agente, la quale fungerà da metro di accertamento della propria eventuale responsabilità; oppure, per meglio dire, fungerà da metro di accertamento sia nell'an della sussistenza della responsabilità penale che nel quantum della stessa, misurata in ordine alla colpa o al dolo. Un primo parametro di riferimento, anche alla luce della oggettiva difficoltà di analisi sulla concreta volontà dell'agente, risiede nello studio della definizione di "rischio consentito", rintracciabile nell'alveo di quelle condotte che, collegate all'esercizio della performance sportiva, non rientrano nei limiti imposti dalla rigida normativa ma si esplicano in azioni di gioco che, seppur vietate, possono comunque ritenersi accettabili nel normale agonismo fra contendenti contrapposti (per prima, Cass. Pen, sez. V, 1726/1992). Ne consegue che, ad contrarium, fatte salve le specifiche del caso in relazione ai singoli sport, siano essi a violenza necessaria o eventuale, il rischio non è più consentito quando la condotta, seppur finalizzata ad uno "scopo sportivo", al fine di conseguirlo travalica la normale lealtà e conduce l'agente a sacrificare volontariamente e deliberatamente l'integrità fisica del suo avversario. Il tutto con la precisazione ulteriore che, sul punto, si avrà condotta dolosa quando la manifestazione sportiva sia solo un pretesto per compiere un'azione violenta e si avrà condotta colposa quando, invece, la consapevole violazione è finalizzata all'ottenimento di un riconoscimento sportivo ma, per le sue ontologiche e insite caratteristiche, è comunque illecita poiché causativa di un pregiudizio ingiusto. In altre parole, ogniqualvolta viene messa coscientemente a repentaglio l'integrità fisica dell'avversario, si ha illecito per superamento del rischio consentito (Cass. Pen., sez. IV, 24942/2001). Orientamento, questo, che ha trovato conferma ed ulteriori specificazioni in Cass. Pen., sez. IV, 33577/2006 conf. 34977/2016, laddove, sul punto, si è compiuta un'importante differenziazione fra attività sportiva professionistica o dilettantistica o, ancora, amatoriale, prevedendo per i tre diversi casi una sorta di gerarchia applicativa, secondo cui nell'ambito professionistico le maglie del rischio consentito debbono intendersi leggermente più larghe per andare poi via via restringendosi fino alle manifestazioni amatoriali in cui i partecipanti sono tenuti ad osservare regole cautelari maggiormente rigorose. Riprendendo il concetto della "volontà del soggetto agente" e ribadito che trattasi di operazione particolarmente complessa avendo come protagonisti soggetti da considerarsi in stato di sofferenza psicofisica, è risaputo che, anche a prescindere dal contesto sportivo, il legislatore abbia spesso privilegiato la valutazione dell'oggettività della colpevolezza e posto, invece, meno attenzione al profilo della soggettività della stessa, trincerandosi spesso dietro lo spauracchio dell'agente-modello. La condotta sportiva, invece, rappresenta proprio una di quelle casistiche in cui un più approfondito esame della misura soggettiva della colpevolezza potrebbe rappresentare la chiave di volta per il corretto accertamento della valutazione sulla singola fattispecie, dando rilievo a fattori non normativi ma psicologici come, ad esempio, l'involontarietà di un fatto, un rischio o una regola cautelare non conosciuti, non percepiti o imprevedibili, o ancora un particolare stato di stress che, incidendo sul riconoscimento del pericolo, dovranno andare a limare il requisito della colpa quale minimum per la configurazione del reato. Si tratta di circostanze che potranno adeguatamente essere ricondotte a casi di astratta momentanea incapacità tali da considerare inesigibile un certo comportamento, seppur standard, che in situazioni normali sarebbe stato rispettato senza alcuna difficoltà. In altre parole, "lo sportivo, seppur imputabile in senso stretto, non si potrà ritenere colpevole in quanto la violazione cautelare da lui realizzata si è verificata solo a causa di una -non colpevole- erronea valutazione delle circostanze fattuali, andando così ad incorrere in un mero errore esecutivo o cognitivo" (Castronuovo, La colpa penale, Giuffrè, 2009, pag 565). Orientamento, questo, che ha trovato (uno dei) riscontri nella già citata e nota pronuncia Cass. Pen, sez. IV, 9559/2016 in cui, ormai pacificamente condiviso il principio secondo cui il superamento del limite consentito debba essere valutato come non risolvibile solo con criteri oggettivi ed empirici ma mediante indagine delle specifiche peculiarità e caratteristiche del singolo caso specifico, sono stati ribaditi i confini della disciplina: in primis, l'esclusione assoluta dell'operatività della scriminante sportiva per condotte sconnesse alle finalità agonistiche e nei casi in cui l'agente si sia macchiato di mancanza di lealtà sportiva verso l'avversario, ed in secondo luogo il necessario rilievo del compiersi della condotta in un contesto d'azione particolarmente intenso, sia in senso oggettivo che, ancor di più, soggettivo, al fine di giungere alla corretta valutazione sulla finalità ultima dell'intenzione del soggetto agente. Da ultimo, giova evidenziare che, in tema di risarcimento del danno, si è espressa sul punto anche la giurisprudenza civile (Cass. Civ., sez. IV, 12912/2002) la quale ha fatto propri i medesimi ragionamenti argomentativi di cui sopra, precisando che i criteri che, in astratto, devono essere utilizzati per escludere o ammettere l'antigiuridicità del fatto, sono gli stessi riferibili alla volontà o meno della lesione. In particolare, si è ritenuto doversi escludere l'antigiuridicità del fatto (e, quindi, l'annesso obbligo risarcitorio) quando la condotta sportiva sia stata posta in essere senza volontà lesiva e che quando l'evento dannoso è conseguenza diretta dell'attività sportiva, seppur si abbia a che far con condotte che travalichino il regolamento di gioco, se esse sono ad esso strettamente legate e connesse, non può esservi censura. Per converso, viene riconosciuta l'antigiuridicità del fatto, escludendosi dunque che la condotta possa ricomprendersi fra i poteri scriminanti, quando si constati assenza di collegamento tra l'evento lesivo e la competizione sportiva o quando la violenza esercitata risulti sproporzionata rispetto alle concrete caratteristiche del gioco, della natura e della rilevanza dello stesso. |
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