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Data: 03/10/2020 05:00:00 - Autore: Annamaria Villafrate
Pari dignità alle donne, a partire dal linguaggio[Torna su]
E' quasi inconsapevole, ma soprattutto scontato chiamare avvocato una donna che esercita la professione forense. Questo perché storicamente, gli uffici e gli incarichi, soprattutto se di un certo prestigio, erano preclusi alle donne. Non ci si poneva, e ancora oggi spesso in realtà non ci si pone, neppure il problema di pensare a declinare i titoli al femminile. Con il passare del tempo però, per fortuna, questa esigenza inizia a farsi sentire. Di recente poi, grazie all'operatività delle nuove linee guida dell'Accademia della Crusca, il linguaggio sia parlato che scritto sta iniziando a cambiare. Studiosi di lingua italiana e comunicazione del resto ritengono sia importante, per riconoscere alla donna pari dignità, partire dal linguaggio, superando il problema meramente apparente secondo cui certi vocaboli declinati al femminile non verrebbero utilizzati solo perché "suonano male". Liberi quindi da ogni pregiudizio morale e sessista, lasciamo che sulla questione siano gli esperti dell'Università Cà Foscari e dell'Accademia della Crusca a pronunciarsi sulla questione se è più corretto chiamare una donna che esercita la professione legale avvocata o avvocatessa, piuttosto che avvocato. Università Cà Foscari: linee guida del linguaggio di genere[Torna su]
Le linee guida dell'Università Cà Foscari (sotto allegate) precisano che "L'uso della lingua, quando non rispettoso delle differenze di genere, è una delle forme di discriminazione più diffuse e, allo stesso tempo, meno percepita come tale". Per quanto riguarda l'argomento che qui ci interessa trattare, esse precisano in particolare che: "nominare al femminile ruoli e funzioni, specialmente se di prestigio, rappresenta il primo, fondamentale passo da compiere per favorire il cambiamento culturale nella direzione delle pari opportunità e del riconoscimento e rispetto delle differenze di genere. L'uso della forma femminile per definire l'incarico o la funzione quando a ricoprirla è una donna conferisce visibilità (…)". Non solo una questione di forma grammaticale quindi, più o meno corretta o più o meno gradevole all'orecchio, ma secondo questa prestigiosa Università, una vera e propria discriminazione nei confronti del genere femminile. Detto questo è vero che, superato e archiviato il titolo di avvocato al maschile, anche per definire una donna che esercita la professione, il dilemma che occupa e preoccupa chi scrive per mestiere, riguarda sicuramente la scelta tra avvocata o avvocatessa. Avvocata o avvocatessa? Per la Crusca via libera a entrambi[Torna su]
Nel linguaggio comune, tra gli addetti ai lavori che si occupano di comunicazione, ma anche all'interno del mondo dell'avvocatura, il problema non si pone, visto che entrambi i termini avvocata e avvocatessa vengono utilizzati con disinvoltura e alternativamente. E' necessario però interrogarsi più profondamente per comprendere se, dal punto di vista grammaticale e linguistico, esiste effettivamente una forma più corretta di un'altra per definire questa la professione forense quando è svolta da una donna. Sul punto non ha mancato di dire la sua, con piena cognizione di causa, l'Accademia della Crusca, la quale, tenendo conto di quanto già avviene nel linguaggio parlato, approva l'utilizzo di entrambe le forme: avvocata e avvocatessa. Del resto, la lingua non è statica, ma evolve, si arricchisce di nuove forme espressive e nel fare questo rappresenta la società e il suo sentire. Fino a quando per certi ruoli di prestigio sarà considerato normale utilizzare solo la declinazione al maschile, senza preoccuparsi di trovare il corrispondente femminile, significa che il sentire comune non sarà evoluto a tal punto da doversi preoccupare di risolvere questo problema. Guardiamo quindi con positività il fatto che oggi lo scontro da risolvere riguardi comunque due vocaboli declinati al femminile e che dalla lotta, per la Crusca, nessuno abbia la meglio sull'altro. Per altri meglio avvocata[Torna su]
Se la Crusca lascia spazio a entrambi i termini, lo stesso non fa la sociolinguista Vera Gheno, per la quale il termine corretto è avvocata. Lo dice al quotidiano "Il dubbio", affermando che, posto che utilizzare il termine avvocato per riferirsi a una donna è scorretto, preferendo avvocatessa ad avvocata si rischierebbe di dare al termine un'accezione burlesca, come si era soliti fare quando sono nati i femminili in "-essa".
Secondo quanto riportato nella lunga intervista pubblicata il 3 settembre 2020, più precisamente, "I femminili in "- essa" sono nati in un periodo storico in cui questo suffisso veniva spesso usato in modo canzonatorio, oppure per indicare la ‘ moglie di' (come la sindachessa). La forma avvocatessa – osservano i linguisti – non è mai entrato troppo nell'uso. Il dizionario Zingarelli, uno dei più precoci in questo senso, registra oltre 800 forme femminili di nomina agentis a partire dal 1994: sfogliandolo si può agilmente constatare che la forma che termina in "a" è preferenziale". Insomma: "il consiglio dei linguisti è quello di preferire, laddove la forma non sia particolarmente penetrata nell'uso, le forme a suffisso zero: quelle in ‘- a' e non in ‘- essa'. La presidente, ad esempio, invece di presidentessa". |
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