Data: 14/01/2019 19:00:00 - Autore: Giovanni Chiarini
Avv. Giovanni Chiarini - La giurisprudenza di legittimità si è più volte pronunciata, anche recentemente, al fine di chiarire in punto di diritto gli elementi differenziali che intercorrono tra le due norme incriminatrici, che pur essendo strutturalmente diverse possono raggiungere una forte vicinanza in varie situazioni che, di fatto ed in concreto, possono avvicinarsi, e dunque devono essere analizzate e interpretate in profondità per poter comprendere sotto quale veste giuridica ricondurre la concreta condotta criminosa; vi possono essere, infatti, ipotesi di derubricazione da tentato omicidio a lesioni personali aggravate (gravi o gravissime) o viceversa.

Le norme

Come noto, l'art. 575 c.p. punisce l'omicidio volontario stabilendo che "chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno". Qualora non si verifichi l'evento-morte, tale condotta si presenterà quindi in forma tentata ai sensi dell'art. 56 c.p. quando siano stati compiuti atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, e l'autore risponderà di delitto tentato perché l'evento non si è verificato o l'azione non si è compiuta.

Tuttavia, in non poche ipotesi non è facile distinguere i casi omicidio tentato da tutti quei casi di lesioni aggravate ai sensi dell'art. 583 c.p., in particolare nella sua forma "grave" (punite dai 3 ai 7 anni di reclusione) se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni, o se il fatto produce l'indebolimento permanente di un senso o di un organo; parimenti, ed anzi soprattutto, non poche difficoltà si possono incontrare anche nei casi di lesioni "gravissime" (punite dai 6 ai 12 anni di reclusione) ed in particolare qualora si provochi una malattia certamente o probabilmente insanabile, la perdita di un senso, la perdita di un arto o una mutilazione che renda l'arto inservibile, ovvero la perdita dell'uso di un organo o della capacità di procreare ovvero una permanente e grave difficoltà della favella o la deformazione ovvero lo sfregio permanente del viso.

Sono tutte ipotesi, infatti, dove il confine tra tentato omicidio e lesioni, considerata l'entità e la carica dannosa di queste ultime, può apparire piuttosto labile.

Sul punto, quindi, è intervenuta (e tuttora interviene) la giurisprudenza di legittimità al fine di porre criteri di distinzione da applicare volta per volta e da calare al caso concreto.

La giurisprudenza di legittimità del 2018

Non potendo fare, per ovvie ragioni di sintesi, una ricognizione cronologica della giurisprudenza, si è ritenuto di riportare quanto espresso solo nelle più recenti pronunce.

Sul punto, la Corte di cassazione penale, sez. I, Sent. 5 ottobre 2018, n. 44598, ha enunciato[1] che devono ritenersi "indicativi sia dell'idoneità degli atti a cagionare la morte della persona offesa e della univoca direzione degli stessi a determinare l'evento letale, sia della presenza di un dolo omicidiario, pur configurato nelle forme del "dolo alternativo" rispetto alle mere lesioni personali: l'uso di un micidiale strumento di offesa, l'estrema vicinanza tra lo sparatore e la vittima, l'indirizzamento dei colpi verso una zona corporea sede di organi vitali, chiaramente indicativa dell'animus necandi o, indifferentemente, di una volontà di offendere l'integrità fisica della vittima".

Ancora, la Corte di cassazione penale, sez. I, Sent. 13 settembre 2018, n. 40700 ha invece soffermato l'attenzione sui "criteri" che devono essere utilizzati. Scrive la Suprema Corte[2], nel confermare la sentenza del Tribunale di merito: "gli elementi sintomatici dell'azione criminosa, dai quali dedurre la sussistenza del dolo, indicando: a) le circostanze di tempo e di luogo dell'azione (...); b) la consistenza della condotta (...); c) la qualità del mezzo usato (...) e la sua notevole potenzialità offensiva; d) la zona attinta dal colpo da arma (...); e) la complessiva condotta dell'imputato antecedente e successiva al fatto". Viene osservato, inoltre, che "la prova del dolo di omicidio o di tentato omicidio deve essere ricercata attraverso un procedimento inferenziale, analogo a quello utilizzabile nel procedimento indiziario, da fatti esterni e certi, aventi sicuro valore sintomatico, che, con l'ausilio di appropriate massime di esperienza, consentano di desumere l'esistenza del dolo".

Sempre la I Sezione, Sent. 31 luglio 2018, Sent. n. 36981 ha osservato poi che[3] "nell'omicidio tentato la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell'imputato sul punto, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall'agente; con la conseguenza che, in funzione dell'accertamento della sussistenza della volontà di uccidere, nel delitto tentato assume valore determinante l'idoneità dell'azione che va apprezzata in concreto, senza essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti (dovendosi, diversamente, l'azione ritenersi sempre inidonea, per non aver determinato l'evento) e tale giudizio di idoneità è una prognosi, formulata ex post, con riferimento alla situazione così come presentatasi al colpevole al momento dell'azione, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare".

In ultimo, sempre in via non esaustiva ma esemplificativa, la Corte di cassazione penale, sez. I, 5 febbraio 2018, n. 5304 ha riportato che[4] "il dolo diretto può manifestarsi anche nella forma del dolo alternativo, che ricorre quando il soggetto agente prevede e vuole indifferentemente due eventi alternativi tra loro come conseguenza della sua condotta, elemento soggettivo compatibile con il tentativo".

Giovanni Chiarini

(Avvocato del Foro di Piacenza, già tirocinante ex art. 73 D.L. 69/2013 presso la Procura della Repubblica di Lodi)


[1] Corte di cassazione penale, sez. I, Sent. 5 ottobre 2018, n. 44598

[2] Corte di cassazione penale, sez. I, Sent. 13 settembre 2018, n. 40700

[3] Corte di cassazione penale, sez. I, 31 luglio 2018, n. 36981

[4] Corte di cassazione penale, sez. I, 5 febbraio 2018, n. 5304


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