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Data: 24/02/2019 14:00:00 - Autore: Gianfranco Apollonio di Gianfranco Apollonio – In materia di pubblico impiego contrattualizzato, il lavoratore con rapporto di lavoro a tempo determinato, in caso di termine illegittimamente apposto, può ottenere, a titolo di danno presunto, e salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, l'indennità di cui all'art. 32, comma 5, della L. n. 183/2010, pari ad una misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Questo il principio ribadito dalla Cassazione con l'ordinanza n. 3189 del 04.02.2019 (sotto allegata). Il casoLa vicenda muove da un ricorso proposto da un dipendente per l'abusiva reiterazione di contratti di lavoro a termine da parte dell'ente pubblico datoriale. Il Tribunale, dopo aver accertato l'illegittimità dei suddetti contratti, in quanto stipulati in assenza delle condizioni richieste dal relativo contratto collettivo di lavoro, condannava l'ente convenuto al risarcimento del danno, quantificato in misura pari a venti mensilità dell'ultima retribuzione erogata. A seguito del gravame proposto, la sentenza veniva riformata nella parte riguardante l'avvenuto riconoscimento del danno, stante la mancata prova sul punto da parte del dipendente appellato. In particolare, secondo la Corte di appello, il lavoratore non aveva provato né la natura né, tanto meno, l'entità del pregiudizio sofferto a seguito dell'avventa stipulazione, in un arco temporale di tre anni, dei contratti a termine oggetto di censura, limitandosi, invece, ad un generico quanto insufficiente richiamo alle sole conseguenze connesse alla instabilità lavorativa denunciata. La decisione della CorteI Giudici di legittimità, in riforma della sentenza di merito, e richiamando quanto già statuito sul punto dalle Sezioni Unite con sentenza n. 5072 del 2016, hanno sostanzialmente ribadito che in materia di impiego pubblico privatizzato, nell'ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, il lavoratore pubblico ha diritto, senza necessità di prova alcuna - essendo sollevato, in parte qua, dal relativo onere probatorio - all'indennità risarcitoria di cui all'art. 32, comma 5, L. n. 183/2010, nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Quanto sopra non preclude, peraltro, al lavoratore di provare che le chances di lavoro che ha perso, in ragione delle illegittime repliche contrattuali, si siano tradotte in un danno patrimoniale più elevato. La Cassazione specifica, poi, che in tale materia il danno, non potendosi identificare nella perdita del posto di lavoro, non potrà essere risarcito facendo riferimento allo stato di disoccupazione del lavoratore, né potrà essere commisurato, come erroneamente sostenuto dalla difesa del dipendente, a tutte le retribuzioni che lo stesso avrebbe percepito qualora fosse stato assunto a tempo indeterminato. Per le suddette motivazioni – prosegue la Corte - la sentenza deve essere cassata con rinvio al Giudice dell'appello che dovrà procedere ad un nuovo esame attenendosi ai principi sopra enunciati. |
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