Data: 15/04/2019 14:00:00 - Autore: Giovanni Tringali
di Giovanni Tringali - Dalla relazione del primo semestre del 2018 della Direzione Investigativa Antimafia emerge come l'estorsione, reato sintomatico della criminalità organizzata, sia il delitto più frequente non solo in Sicilia, in Calabria, in Campania, in Puglia, ma in pratica in tutte le regioni italiane. Fa eccezione solamente il Friuli Venezia Giulia dove il reato più frequente è il riciclaggio.

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Il reato di estorsione

Il reato di estorsione è previsto e punito dall'art. 629 c.p. secondo il quale «1. Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000.

2. La pena è della reclusione da sette a venti anni e della multa da euro 5.000 a euro 15.000, se concorre taluna delle circostanze indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo precedente».

Il bene giuridico protetto è la libertà personale e il patrimonio. Si tratta di un reato "plurioffensivo" perché la violenza può cadere sul soggetto passivo (violenza personale) - in modo diretto o in anche su una terza persona - ma anche sulle cose (violenza reale). E' un reato necessariamente "plurisoggettivo" perché prevede la cooperazione artificiosa della vittima nel compimento di un atto di disposizione patrimoniale cosciente e volontaria, pur se dovuto alla violenza e alla minaccia.

L'elemento soggettivo è il dolo generico; esso deve comprendere l'ingiustizia del profitto.

Quanto all'elemento oggettivo, la coazione (violenza o minaccia) è il nucleo centrale del reato. Il costringimento del soggetto passivo è quello relativo ossia quello che lascia, in chi lo subisce, una certa libertà.

La minaccia di usare un diritto

La minaccia di un'azione lecita può integrare una condotta riconducibile al reato di estorsione?

Occorre partire dalla considerazione che l'esercizio di un diritto o di una facoltà può rappresentare, alternativamente:

1) l'oggetto della minaccia (ossia il male "giusto" minacciato),

2) lo scopo della minaccia (cioè il fine "giusto").

Preliminarmente va detto che la "minaccia" viene tradizionalmente distinta in:

1) minaccia-fine, intendendosi quella che rileva indipendentemente da un effetto di coartazione della vittima. E' quella minaccia che attenta al bene giuridico della integrità psichica e, quindi, è di per sé un fatto illecito sanzionato dall'ordinamento;

2) minaccia-mezzo, intendendosi quella che rileva solo perché è il mezzo del quale l'agente si serve per coartare la volontà della vittima per il raggiungimento di un certo risultato.

Nel delitto di estorsione viene in rilievo la "minaccia-mezzo" che ha le seguenti caratteristiche:

1) consiste nella prospettazione di un male ingiusto,

2) è finalizzata all'ottenimento in un profitto ingiusto (con danno altrui).

Ciò che a noi interessa – per rispondere alla domanda iniziale - è il caso dell'esercizio di un diritto o di una facoltà, ed in particolare la situazione per cui viene minacciato un male giusto (diritto o facoltà) per conseguire un fine ingiusto. E' questa una situazione penalmente rilevante?

Cominciamo col dire che la prospettazione di un'azione lecita, può integrare una condotta riconducibile al concetto normativo di "minaccia", quando essa sia adoperata al fine di ottenere risultati contra ius.

La giurisprudenza ritiene che la minaccia, anche allorché consista nella prospettazione da parte del soggetto agente dell'esercizio di una facoltà o di diritto, diviene contra ius se l'agente tende ad ottenere risultati non consentiti o prestazioni non dovute, come ad es. il mancato rinnovo del contratto di locazione (cfr. Sent. n. 24437 del 10 marzo 2011). La minaccia assume rilevanza penale se fatta con il proposito di coartare la volontà altrui per soddisfare scopi personali non conformi a giustizia.

La domanda allora è: l'ingiustizia del "fine" travolge e prevale sulla giustizia dell'azione o del mezzo usato?

Dalla giurisprudenza sul tema si ricava che è una minaccia "penalmente rilevante" quella con cui si prospetta l'esercizio di un "mezzo" giuridico legittimo (diritto, ma anche potere pubblico) per uno "scopo" diverso da quello per cui è riconosciuto e tutelato dall'ordinamento. Ed è opinione di chi scrive che in tali casi l'agente perseguirebbe un "risultato iniquo" solo se ampiamente esorbitante o non dovuto rispetto a quello conseguibile attraverso l'esercizio del diritto. Sembra corretto parlare di un "abuso del diritto" da cui consegue un vantaggio ingiusto per l'agente. Ebbene, ciò potrebbe ricadere nella fattispecie di estorsione, sempreché sussistano gli altri elementi essenziali della norma.

Potrebbe integrare, quindi, l'estorsione anche la minaccia di un male giusto qualora tale minaccia sia finalizzata ad ottenere un vantaggio ingiusto perché esorbitante rispetto al diritto o alla facoltà riconosciuta dalla legge.

Ad es. è stata ritenuta sussistente l'estorsione nel caso di concreto esercizio di un'azione esecutiva oppure nella prospettazione di convenire in giudizio taluno (cfr. Sentenza n. 48733 29/11/2012).

Nel caso di cui alla sentenza citata le condizioni che consentivano l'integrazione del delitto sono state così individuate:

- la minaccia era finalizzata al conseguimento di un profitto al quale non si aveva diritto,

- l'agente era consapevole dell'illegittimità o della pretestuosità della propria condotta.

Estorsione aggravata dall'utilizzo del "metodo mafioso"

Partiamo dalle norme. Originariamente vi era l'art. 7 del D.L. 13 maggio 1991 n. 152; esso è stato abrogato dal D.lgs. 1 marzo 2018 n. 21 ed adesso è trasfuso nell'art. 416-bis.1 c.p.

Il nucleo centrale dell'aggravante non è stato modificato per cui la stessa, anche oggi, sussiste qualora si commettano delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo:

1) utilizzando il metodo mafioso,

2) al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dall'art. 416-bis c.p.

Le due modalità non sono necessariamente alternative, ben potendo la condotta posta in essere consistere contemporaneamente nell'utilizzare il metodo mafioso sia nell'agevolare un'associazione di tipo mafioso. Si vedano le due massime seguenti.

La contestazione in forma alternativa di entrambi i profili che caratterizzano l'aggravante speciale di cui all'art. 7 D.L. n. 152 del 1991, conv. in legge n. 203 del 1991, quali l'utilizzo del metodo mafioso o la finalità di agevolazione mafiosa, non è illegittima, perché in presenza di condotte delittuose complesse ed aperte all'una o all'altra modalità operativa od anche ad entrambe, essa amplia e non riduce le prerogative difensive. In tal caso, la condanna per uno solo dei profili integranti l'aggravante in questione non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza (Sez. 5, Sentenza n. 18635 del 14/02/2017).

Mentre l'aggravante del metodo mafioso ha natura oggettiva, l'aggravante costituita del fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dall'art. 416-bis c.p. ha natura soggettiva, essendo incentrata su una particolare motivazione a delinquere e sulla specifica direzione finalistica del dolo e della condotta a favorire il sodalizio. Detta circostanza aggravante richiede che la condotta del soggetto risulti assistita, sulla base di idonei dati indiziari o sintomatici, da una cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale. Pertanto, va escluso che detta circostanza sia imputabile ai concorrenti a titolo di colpa in quanto, riferendosi ai motivi a delinquere, la disciplina speciale prevista dall'art. 118 c.p. prevale su quella generale prevista dall'art. 59, comma secondo, c.p.

In tema di agevolazione, secondo i giudici della Cassazione (cfr. sentenza n. 38519/2018), l'esistenza di contatti tra un soggetto e gli esponenti di una cosca di per sé non dimostra che il primo sia consapevole della intraneità di costoro nella cosca né il fatto che le condotte delittuose di cui si rende responsabile ed i profitti illeciti conseguiti andassero a vantaggio della medesima cosca. Inoltre, quand'anche fosse acclarata la consapevolezza del soggetto agente circa l'intraneità di alcuni sodali nell'associazione di stampo mafioso dovrebbe comunque essere dimostrata che, per un verso, tale condotta abbia sostanziato un oggettivo ausilio al sodalizio criminale nel suo complesso; per altro verso, e soprattutto, che il soggetto abbia voluto consapevolmente agevolare, oltre che i sodali mafiosi, anche la tutta consorteria.

Quando si discute di questa, duplice, circostanza aggravante il pensiero va al principio di tassatività e, soprattutto, a quello di determinatezza del diritto penale e cioè all'esigenza che il fatto descritto dalla norma sia suscettibile di essere provato in sede processuale.

Il metodo mafioso

In che cosa consista il metodo mafioso e quali siano le molteplici condotte che lo possono integrare è il problema di un diritto che voglia definirsi garantista.

A titolo meramente esemplificativo si pensi che tale metodo è stato ritenuto sussistente:

- nell'evocazione, da parte di un terzo, dell'appartenenza ad una organizzazione malavitosa esercitando una forza intimidatoria estrema, indice del fine di procurare al creditore un profitto ingiusto;

- nell'utilizzo di un messaggio intimidatorio anche "silente", cioè privo di una esplicita richiesta, qualora l'associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l'avvertimento mafioso;

- nell'utilizzo di toni percepiti come mafiosi perché ben conosciuti dall'imprenditoria del luogo, ove la 'ndrangheta agisce, nella gestione delle attività economiche, in modo seriale;

- nella condotta di chi, senza spendere la propria appartenenza ad una "famiglia" mafiosa, si avvale della propria fama criminale;

- nella condotta di chi, presentatosi al titolare di un esercizio commerciale come "amico" delle locali cosche, pretenda il versamento continuativo e/o periodico di somme di denaro.

La giurisprudenza sull'aggravante del "metodo mafioso"

Ai fini della configurabilità della circostanza aggravante di cui all'art. 7, legge n. 203 del 1991 è necessario l'effettivo ricorso, nell'occasione delittuosa contestata, al metodo mafioso, il quale deve essersi concretizzato in un comportamento oggettivamente idoneo ad esercitare sulle vittime del reato la particolare coartazione psicologica evocata dalla norma menzionata e non può essere desunto dalla mera reazione delle stesse vittime alla condotta tenuta dall'agente (Sez. 6, Sentenza n. 28017/2011).

Ai fini della configurabilità dell'aggravante dell'utilizzazione del "metodo mafioso", prevista dall'art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152 (conv. in l. 12 luglio 1991, n. 203), è sufficiente - in un territorio in cui è radicata un'organizzazione mafiosa storica - che il soggetto agente faccia riferimento, in maniera anche contratta od implicita, al potere criminale dell'associazione, in quanto esso è di per sé noto alla collettività (Nella fattispecie, relativa ad un'estorsione commessa nel territorio calabrese, la Corte ha ritenuto che i toni percepiti come "mafiosi" dalla P.O. - destinataria della richiesta di uno dei due imputati, pregiudicato per reati gravi, di non eseguire lavori ottenuti in appalto, in modo da favorire l'altro imputato - consentissero di ritenere integrato il "metodo mafioso" di cui alla predetta aggravante, essendo tali toni ben conosciuti dall'imprenditoria del luogo, ove la 'ndrangheta agisce, nella gestione delle attività economiche, in modo seriale, con modalità "tipiche" immediatamente distinguibili dalle vittime) (Sez. 2, Sentenza n. 19245 del 30/03/2017).

La giurisprudenza sull'estorsione aggravata dal metodo mafioso

I delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e di estorsione si distinguono in relazione all'elemento psicologico: nel primo, l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia. Ne consegue che integra gli estremi dell'estorsione aggravata dal cd. "metodo mafioso", la condotta consistente in minacce di morte o gravi lesioni personali in danno dei prossimi congiunti del debitore, formulate da terzi estranei al rapporto obbligatorio, estrinsecantesi nell'evocazione dell'appartenenza di uno di essi ad una organizzazione malavitosa, in tal modo esercitando una forza intimidatoria estrema, indice del fine di procurare al creditore un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un preteso diritto, con corrispondente danno per il debitore, indotto ad accondiscendere passivamente alle avverse pretese senza avvalersi degli ordinari rimedi civilistici (Sez. 2, Sentenza n. 33870 del 06/05/2014).

Nel reato di estorsione, integra la circostanza aggravante del metodo mafioso l'utilizzo di un messaggio intimidatorio anche "silente", cioè privo di una esplicita richiesta, qualora l'associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l'avvertimento mafioso, sia pure implicito, ovvero il ricorso a specifici comportamenti di violenza o minaccia (Sez. 2, Sentenza n. 26002 del 24/05/2018).

In tema di estorsione, integra la circostanza aggravante del c.d. metodo mafioso, prevista dall'art. 7 D.L. n. 152 del 1991, conv. nella L. n. 203 del 1991, la condotta di chi, senza spendere la propria appartenenza ad una "famiglia" mafiosa, ma avvalendosi della propria fama criminale, costringa l'aggiudicatario di una gara d'appalto a rinunciarvi (Sez. 2, Sentenza n. 10467 del 10/02/2016).

È configurabile il delitto di estorsione aggravata ex art. 7 D.L. n. 203 del 1991 (conv. in l. n. 203 del 1991), nelle due forme dell'agevolazione di un'associazione mafiosa e dell'utilizzo del metodo mafioso, nella condotta di chi, presentatosi al titolare di un esercizio commerciale come "amico" delle locali cosche, pretenda il versamento continuativo e/o periodico di somme di denaro e l'utilizzazione gratuita dei servizi prestati dal commerciante (Sez. 2, Sentenza n. 43425 del 03/07/2013).

La giurisprudenza sull'aggravante della finalità di agevolare l'attività mafiosa

In relazione al reato di associazione per delinquere "comune" di cui all'art. 416 cod. pen., l'aggravante di cui all'art. 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 159 è ipotizzabile esclusivamente sotto lo specifico profilo della finalità di agevolare l'attività di un'associazione mafiosa e non dell'utilizzo del metodo mafioso, dovendosi necessariamente configurare, nella seconda ipotesi, il diverso reato di cui all'art. 416 bis cod. pen. (Sez. 6, Sentenza n. 25510 del 19/04/2017).

L'aggravante di aver commesso il fatto al fine di agevolare l'attività di un'associazione di stampo mafioso - prevista dall'art. 7 del D.L. n. 152 del 1991, conv, in L. 203 del 1991 - postula l'esistenza effettiva di un'associazione che abbia i caratteri indicati dall'art. 416 bis cod. pen., a differenza dell'altra ipotesi di aggravante, pure prevista dal medesimo art. 7, che richiede soltanto che i reati siano commessi avvalendosi del metodo mafioso (Sez. 2, Sentenza n. 41003 del 20/09/2013).

La circostanza aggravante dell'agevolazione dell'attività di un'associazione di tipo mafioso prevista dall'art.7 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203, in quanto connotata dal profilo del dolo specifico, assorbente rispetto a quello attinente alle modalità di esecuzione dell'azione che denota la diversa fattispecie aggravatrice correlata all'utilizzo del metodo mafioso, ha natura soggettiva, con la conseguenza che è applicabile a ciascun concorrente nel delitto, anche a partecipazione necessaria, solo previo accertamento che il medesimo abbia agito con lo scopo di agevolare l'attività di un'associazione di tipo mafioso, o, comunque, abbia fatto propria tale finalità (Sez. 1, Sentenza n. 54085 del 15/11/2017).


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