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Data: 07/03/2019 16:00:00 - Autore: Roberto Cataldi di Roberto Cataldi - La comunicazione verbale rappresenta un elemento imprescindibile delle interazioni umane, e del vivere sociale. Essa però può risultare efficace solo laddove risponde a determinate dinamiche e persegue determinati obiettivi. Sappiamo che l'uso distorto della comunicazione può portare a delle vere e proprie aberrazioni. Come scrisse Victor Hugo, con la parola si possono "muovere le masse, dominare le assemblee, agitare gli imperi" ma questo non significa altro che passare "dalla ragione delle idee al dominio dei luoghi comuni". Quale può essere, dunque, un uso corretto delle parole che possa essere allo stesso tempo efficace senza scadere nella retorica o cedere alla tentazione di inseguire le banalità dell'uomo di massa? Sappiamo innanzitutto che le parole possono essere interpretate, fraintese, ma un loro uso corretto può avere la forza della persuasione e determinare persino cambiamenti nel pensiero collettivo. Quando le parole non sono interpretabili ma rispondono al requisito della chiarezza e della veridicità, hanno il grande potere di creare comunicazioni interessanti, coinvolgenti senza bisogno di dover urlare o di ricorrere all'enfasi. Solitamente se sentiamo il bisogno di urlare, vuol dire che c'è qualcosa di debole nelle nostre argomentazioni. Noi tutti siamo stati in qualche modo influenzati dalle parole utilizzate nel modo corretto. Persino quando eravamo seduti sui banchi della scuola. Chi non ha un buon ricordo di un bravo professore? Se lo ricordiamo è perché evidentemente, insegnando, è riuscito a creare una comunicazione interessante, a renderla interrelazione umana e non sterile esercizio dell'arte dell'oratoria. Ogni giorno riceviamo una serie infinita di comunicazioni che arrivano dai media, dalle pubblicità, dal mondo politico ed anche da una miriade di messaggi social che caratterizzano oggi il modo prevalente di comunicare delle nuove generazioni. Qualunque sia l'ambito sociale in cui le parole prendono forma, è indispensabile che esse creino interazione e coinvolgimento. Proviamo allora a calarci in uno dei luoghi in cui la comunicazione verbale è per definizione caratterizzante: il Parlamento. Di per sé dovrebbe trattarsi del contesto ideale per le interazioni verbali e per il dialogo. Eppure nella realtà si scopre che è proprio quello il luogo in cui le parole si perdono nel nulla anche se in questo caso la mancata interazione affonda le sue radici in una distorsione delle dinamiche che regolano il dibattito politico. Assistere a un intervento di un parlamentare di fronte a un'aula disinteressata perché consapevole del fatto che qualsiasi argomentazione non potrà cambiare l'esito del voto è disarmante per chi ama il dialogo e crede nella centralità Parlamento. In Aula si assiste quotidianamente a un "vaniloquio" improduttivo invece che a un dibattito costruttivo nel senso socratico del termine. Socrate considerava l'apertura al dialogo fondamentale perché avrebbe aiutato a "correggere gli errori" per poi giungere a una verità condivisa che però a sua volta sarebbe potuta essere nuovamente messa in discussione. Non si tratta di cedere al relativismo, intendiamoci, ma di considerare che non si può avere mai la pretesa di possedere la verità assoluta e che la verità non è fatta di antitesi troppo nette ma di verità da mettere continuamente in discussione. E' questa del resto la base di un ordinamento giuridico che rimaneggia continuamente le sue regole e che diventa in questo modo un "diritto vivente" e non cristallizzato nel dogmatismo, nell'intransigenza o nel fondamentalismo. Restando nell'ambito parlamentare occorre comprendere le ragioni che sono alla base di questo progressivo degradarsi del dibattito d'Aula al punto da meritare a volte l'appellativo di "vaniloquio". Una delle possibili ragioni è probabilmente legata alla necessità di mantenimento del potere che fa prevalere la logica del gruppo, del voto compatto per non rischiare di compromettere la stabilità del Governo. Si è arrivati al punto di considerare grave il fatto che un solo provvedimento della maggioranza possa non aver trovato l'approvazione dell'assemblea. E qui il discorso si sposta inevitabilmente sul ruolo del Parlamento. La nostra Costituzione attribuisce la centralità della vita politica e istituzionale del Paese alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica. I padri costituenti vollero, con questa scelta, indicare nei rappresentanti eletti dal popolo l'anima della nostra democrazia, segnando uno spartiacque con la storia dell'Italia che aveva visto nella monarchia prima e nella dittatura fascista poi, quanto fosse pericoloso il comando di una sola persona e quante tragedie avesse causato. Dal dopoguerra in poi il sistema politico ha sempre gelosamente custodito e preservato questa centralità del Parlamento, per non ridurlo a mero esecutore degli ordini che arrivano dal Governo. Basti pensare che quando negli anni '70 l'esecutivo era saldamente in mano alla Democrazia Cristiana, partito che sfiorava il 40% dei consensi, si approvavano leggi come quelle sul divorzio e sull'aborto contro le quali la DC era fermamente contraria. Il Parlamento funzionava dunque, e faceva il suo lavoro. Dopo la fine della cosiddetta Prima Repubblica invece, complice un sistema elettorale che ha promosso a deputati un gran numero di persone scelte dalle segreterie dei partiti e un contestuale venir meno dei sistemi di selezione meritocratica degli eletti e dei governanti (scuole di formazione, esperienze amministrative, riconosciute capacità intellettuali o professionali) nelle aule si è finito con il parlare di fronte un numero impressionante di ascoltatori passivi pur sapendo che solo se ci sono ascoltatori attivi si può dar luogo alla possibilità di un dialogo e di uno scambio costruttivo di opinioni. Stiamo parlando del confronto hegeliano tra tesi ed antitesi che porta alla ricerca di quella sintesi che potremmo chiamare "creazione del nuovo". Se questo è lo stato delle cose, non è difficile comprendere perché nelle aule del Parlamento si respiri un'aria appesantita dall'astio e dal preconcetto. Si ha l'impressione di assistere solo a una battaglia tra fazioni contrapposte che non hanno alcuna intenzione di comprendersi e di dialogare avendo come principale obiettivo non tanto la realizzazione del bene comune ma il tornaconto elettorale. Paradossalmente stiamo parlando di luoghi che dovrebbero costituire il contesto ideale per il dialogo. Eppure nel tempo si è sviluppata la consuetudine del vaniloquio appunto, del monologo fine a se stesso e che non può avere alcuna possibilità di fare breccia nelle menti e nei cuori di chi ascolta. Il Parlamento che, come suggerisce la parola stessa, dovrebbe essere il luogo del confronto e del dibattito, ha metabolizzato dinamiche alterate che rendono l'uso delle parole quasi superfluo e spesso solo autoreferenziale. Dominano l'indifferenza, il preconcetto e l'incapacità di accettare un confronto leale e costruttivo. Eppure l'ascolto, l'apertura al confronto, sono ingredienti indispensabili non solo in ambito politico. Sono elementi indispensabili per la crescita della personalità, per il raggiungimento di una più compiuta consapevolezza e per la maturazione dei propri convincimenti. Il bambino diventa a poco a poco consapevole del fatto che ascoltando può imparare e crescere. Egli non ha preconcetti perché ha sete di informazioni, la sua curiosità lo spinge ad ascoltare e contestualmente a lanciarsi sempre verso nuove sfide e sperimentazioni, anche azzardate. Inizia a camminare e ad esplorare il mondo acquisendo a poco a poco conoscenza e consapevolezza. Ma chi ama questo genere di consapevolezza si rende conto che entrare nelle aule parlamentari e non essere ascoltati ha lo stesso effetto di una testata contro il muro. A questo punto emerge prepotentemente la questione delle priorità. Come si possono mettere insieme tanti pensieri divergenti e raggiungere una determinata soluzione? Solo ed esclusivamente attraverso una vera ed onesta comunicazione verbale che, in questo contesto specifico, prende il nome di dibattito a scopo costruttivo. Un dibattito che non ha l'obiettivo di affondare la lama nell'altro, ma che sia in grado di trovare soluzione ai problemi del Paese. Non possiamo negarlo, il vaniloquio è la realtà del momento. Ma se ogni parlamentare fosse realmente libero di esprimere se stesso sulla base della propria onestà intellettuale e senza la minaccia che la bocciatura di un solo provvedimento possa mettere in crisi l'esecutivo, probabilmente il dibattito porterebbe a risultati migliori per un Paese che oramai è in costante difficoltà da svariati decenni.
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