Data: 16/03/2019 08:00:00 - Autore: Lucia Izzo
di Lucia Izzo - Non spetta l'assegno di divorzio al coniuge "scansafatiche", in grado di trovarsi un lavoro ma rimasto colpevolmente inerte. A questa decisione è giunto, in una recente sentenza, il Tribunale di Treviso che ha negato a una donna i 1.900 euro al mese che la stessa pretendeva dall'ex marito.

Ma non solo: il giudice ha deciso, altresì, di interrompere la corresponsione dei 1.100 euro che la stessa percepiva mensilmente, da oltre un anno. La signora dovrà dunque mantenersi da sola essendo emersa in giudizio "una sua inerzia colpevole nel reperire un'occupazione".

Il caso

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Lui è un professionista con stipendio superiore ai 4mila euro mensili e una casa pagata dall'azienda presso la quale è occupato; lei, invece, è una 35enne di origine sudamericana, laureata in commercio estero e disoccupata. La coppia aveva convolato a nozze nel 2007 e aveva vissuto alcuni anni oltreoceano prima di trasferirsi nel Trevigiano.
Nel 2017 arriva la crisi di coppia e la conseguente decisione di separarsi. Nella successiva causa di divorzio, la ex lamenta di aver abbandonato il suo paese d'origine per rimanere accanto al marito nel corso dei suoi trasferimenti lavorativi. Ancora, sottolinea di aver dovuto lasciare anche il suo lavoro da segretaria poiché "non riusciva a vedere il marito e le mansioni assegnatele non erano soddisfacenti".
In seguito, la signora puntualizza di non essere più riuscita a trovare un'occupazione stabile perché, a detta sua, ai colloqui le venivano contestate le difficoltà nel parlare bene la nostra lingua. Solo grazie ai 1.100 euro mensili che, da oltre un anno, aveva ricevuto dall'ex era riuscita ad andare avanti.

Inerzia colpevole? Niente assegno all'ex disoccupata e in grado di lavorare

Il Tribunale non contesta il manifesto e rilevante divario reddituale tra i due. Tuttavia, ritiene che la donna si sia adagiata e che non vi sia stato "alcun apprezzabile sacrificio della signora, durante la vita coniugale, che abbia contribuito alla formazione o all'aumento del patrimonio", e ciò nonostante le rinunce a cui la stessa andrò incontro.
Seppure la decisione di seguire il marito sia riconducibile a una scelta comune tra i coniugi, si legge nel dispositivo, non vi è alcuna prova che sia stata condivisa anche la decisione della signora di dimettersi dalle attività lavorative in cui era impiegata.

Per quanto riguarda l'avvenire, invece, il Tribunale ritiene la signora perfettamente in grado di badare a sé e di trovarsi un'occupazione: "ha un'età che le consente di reinserirsi nel mondo del lavoro e possiede un titolo di studio facilmente spendibile, a cui si aggiunge anche la conoscenza dello spagnolo quale lingua madre".

Agli occhi dei giudici appare anche poco verosimile la circostanza, addotta dalla donna, dell'essere stata scartata ai colloqui perché non in grado di parlare bene la lingua. Da un lato, si ritiene che il solo invio dei curriculum non basti a dimostrare l'impossibilità di reperire un impiego e, dall'altra, alcuni documenti ottenuti dal Tribunale evidenziano come la donna, a parte un unico tentativo nel 2014, avesse inviato alle aziende la propria candidatura soltanto nel 2018, quindi dopo aver presentato il ricorso di divorzio.

Pertanto, conclude la sentenza, deve ritenersi che la stessa possa reinserirsi nel mercato del lavoro e sia "ravvisabile una sua inerzia colpevole nel reperire un'occupazione". Insomma, l'essere stata una "scansafatiche" è l'unico motivo per cui la donna non ha trovato un lavoro negli anni, non essendosi adeguatamente attiva per cercarla. In conclusione e per tali ragioni non ha diritto all'assegno di divorzio.

Assegno divorzio: come cambia la giurisprudenza

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Una pronuncia "coraggiosa" che trova il plauso dell'Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani: la sentenza, spiega il presidente Gian Ettore Gassani, si richiama ai principi espressi dalla Corte di Cassazione: "L'assegno divorzile si poggia su un principio di solidarietà: non è un atto dovuto. Per ottenerlo non è sufficiente che ci sia un divario economico. La legge impone al coniuge più debole di dare prova in giudizio di aver cercato un lavoro".

Per Gassani, inoltre, "l'orientamento della Cassazione negli ultimi anni ha cercato di limitare la concessione indiscriminata dell'assegno di mantenimento al coniuge più debole, si tratti della moglie o del marito".

Si tiene, invece, maggiormente conto dei mutamenti sociali e della maggiore libertà nella scelta matrimoniale e sulla parità tra i sessi. Quindi, conclude Gassani, "se c'è inerzia da parte di chi richiede l'assegno, il giudice non può riconoscerlo: diventerebbe una rendita parassitaria".

Una conclusione che non appare eccentrica sul piano giuridico e non contrasta con la lettura data in materia di assegno divorzile dalla Corte di Cassazione, in particolare dalla sentenza n. 18287/2018 che ha visto pronunciarsi le Sezioni Unite (leggi Divorzio: il punto sull'assegno dopo le Sezioni Unite) a seguito della sentenza n. 11054/2017. Ma anche risalendo nel tempo, sulla stessa scia si colloca l'ordinanza n. 24324/2015 che ha negato l'assegno di divorzio alla ex nel pieno delle capacità lavorative (e con un reddito proveniente da un canone di locazione di un immobile di proprietà), nonchè l'orientamento delle corti di merito: tra cui un precedente del tribunale di Roma (n. 24007/2016) che ha negato l'assegno ad una quarantenne con una discreta formazione professionale e più di recente del tribunale di Udine (n. 652/2018) che ha respinto la richiesta di assegno divorzile sull'assunto che la parte richiedente (l'ex moglie) non aveva provato l'effettiva ricerca di un'attività lavorativa.

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