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Data: 24/03/2019 16:00:00 - Autore: Luigino Sergio Prof. Luigino Sergio - La Corte Costituzionale, con sentenza n. 33/2019, depositata il 4 marzo 2019 (Presidente Lattanzi, Redattore Antonini), ha disposto che non vi è obbligo dei comuni di esercitare necessariamente in forma associata (vale a dire attraverso Unioni o convenzioni tra comuni) le funzioni fondamentali. Questo perché il giudice delle leggi, a seguito di ricorso promosso con ordinanza n. 65/2017 dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, nel procedimento vertente tra cinque comuni campani e il Ministero dell'interno, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 14, comma 28, del D. L. 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica) e s. m. i. «[…] nella parte in cui non prevede la possibilità, in un contesto di comuni obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere l'esonero dall'obbligo, che a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, del comune obbligato, non sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell'erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento». La Corte Costituzionale, con la suddetta sentenza, n. 33/2019, ha, altresì, dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, commi 110 e 111, della legge 7 agosto 2014, n. 16, della Regione Campania, rubricata «Interventi di rilancio e sviluppo dell'economia regionale nonché di carattere ordinamentale e organizzativo (collegato alla legge di stabilità regionale 2014)», nella parte concernente le norme d'individuazione della «dimensione territoriale ottimale e omogenea» per lo svolgimento delle funzioni fondamentali, poiché approvate in mancanza della «obbligatoria concertazione con i comuni interessati».
La questione di legittimità costituzionale[Torna su]
Ad avviso del giudice amministrativo rimettente, la normativa statale «si porrebbe in contrasto, nel complesso, con gli artt. 3, 5, 77, secondo comma, 95, 97, 114, 117, primo comma – in relazione all'art. 3 della Carta europea dell'autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985, ratificata e resa esecutiva con legge 30 dicembre 1989, n. 439 – e sesto comma, 118, 119 e 133, secondo comma, della Costituzione»; mentre la normativa regionale campana «contrasterebbe con gli artt. 3, 5, 95, 97, 114, 117, primo comma – in relazione all'art. 3 della Carta europea dell'autonomia locale – e sesto comma, e 118 Cost., per aver pretermesso il necessario coinvolgimento degli enti locali nella individuazione degli ambiti ottimali per l'esercizio associato delle funzioni fondamentali». Esaminando le problematiche emerse dalla normativa statale, si evidenzia che essa prevede l'obbligo da parte dei comuni fino a 5.000 abitanti o fino a 3.000 abitanti se comuni montani, di esercizio in forma associata, tramite Unioni di comuni o convenzioni tra enti locali, delle funzioni fondamentali, previste dal D. L. n. 78/2010, art. 14, comma 27, ovvero, «organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo; organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale; catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente; pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale; attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi; organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi; progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini; edilizia scolastica per la parte non attribuita alla competenza delle province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici; polizia municipale e polizia amministrativa locale; tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettorali, nell'esercizio delle funzioni di competenza statale; servizi in materia statistica». Il suddetto D. L. n. 78/2018, dopo aver disposto, con l'art. 14, comma 29, che «i comuni non possono svolgere singolarmente le funzioni fondamentali svolte in forma associata» e che «la medesima funzione non può essere svolta da più di una forma associativa», ha demandato alle Regioni «nelle materie di cui all'articolo 117, terzo e quarto comma, Cost., l'individuazione della dimensione territoriale ottimale per il predetto esercizio associato» (comma 30) e la definizione del «limite demografico minimo che le forme associate devono raggiungere» (comma 31). Le funzioni fondamentali comunali svolte in forma obbligatoriamente associata, dovevano essere assicurate, dopo continui rinvii del termine per adempiere, entro il 30 giugno 2019, ai sensi dell'art. 1, comma 2-bis, del decreto-legge 25 luglio 2018, n. 91 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative), convertito, con modificazioni, nella legge 21 settembre 2018, n. 108. Al netto delle numerose eccezioni d'incostituzionalità avanzate dal giudice rimettente, non tutte condivise dal giudice delle leggi, quest'ultimo ha incentrato la sua attenzione sull'obbligo delle forme associative «della cui legittimità costituzionale […], non è possibile dubitare», nell'espletamento delle funzioni fondamentali da parte dei comuni; anche se, «[…] rimane pur vero che, secondo la giurisprudenza costituzionale, gli interventi statali in materia di coordinamento della finanza pubblica che incidono sull'autonomia degli enti territoriali devono svolgersi secondo i canoni di proporzionalità e ragionevolezza dell'intervento normativo rispetto all'obiettivo prefissato (ex plurimis sentenza n. 22 del 2014)». Ed è proprio il canone della proporzionalità e della ragionevolezza a mostrarsi flebile nella normativa de qua, con la conseguenza che la previsione in modo generalizzato dell'obbligo di gestione associata per tutte le funzioni comunali fondamentali (esclusa la lett. l, del comma 27, dell'art. 14) «sconta, infatti, in ogni caso un'eccessiva rigidità, al punto che non consente di considerare tutte quelle situazioni in cui, a motivo della collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, la convenzione o l'Unione di comuni non sono idonee a realizzare, mantenendo un adeguato livello di servizi alla popolazione, quei risparmi di spesa che la norma richiama come finalità dell'intera disciplina». «L'eccessiva rigidità» dell'intervento del legislatore statale, deriva soprattutto dall'obbligo generalizzato di esercizio delle funzioni fondamentali in forma associata anche nei casi nei quali «a) non esistono comuni confinanti parimenti obbligati; b) esiste solo un comune confinante obbligato, ma il raggiungimento del limite demografico minimo comporta la necessità del coinvolgimento di altri comuni non posti in una situazione di prossimità; c) la collocazione geografica dei confini dei comuni non consente, per esempio in quanto montani e caratterizzati da particolari «fattori antropici», «dispersione territoriale» e «isolamento» (sentenza n. 17 del 2018), di raggiungere gli obiettivi cui eppure la norma è rivolta». Consulta: ingegneria legislativa e geografia funzionale[Torna su]
Ad avviso dei giudici della Corte Costituzionale, si tratta di casi in cui «l'ingegneria legislativa non combacia con la geografia funzionale» che impongono all'autonomia comunale «un sacrificio non necessario», con la conseguenza che le disposizioni controverse non superano «il test di proporzionalità (ex plurimis sentenze n. 137 del 2018, n. 10 del 2016, n. 272 e n. 156 del 2015)». Ne consegue che il suddetto art. 14, comma 28, del D. L. n. 78/2010 «[…] è pertanto illegittimo nella parte in cui non prevede la possibilità, in un contesto di comuni obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere l'esonero dall'obbligo, che a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, del comune obbligato, non sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell'erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento». La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 33/2019 in esame, richiama il legislatore sull'esigenza di porre l'attenzione «a particolari situazioni differenziate», in quei casi in cui esistano casi meritevoli del totale esonero dall'obbligo di gestione associata, come è avvenuto nel caso delle isole monocomune e del comune di Campione d'Italia, laddove si è voluta l'inesigibilità dell'obbligo associativo per le particolari caratteristiche anche di natura geografica dei suddetti enti locali territoriali. Esonero dagli obblighi associativi che vanno estesi, ad avviso del giudice costituzionale, al complesso dei restanti comuni «in modo da evitare che la rigidità della disciplina possa condurre, irragionevolmente, a effetti contrari alle finalità che la giustificano. Ciò detto, il giudice delle leggi richiama l'attenzione anche sulle funzioni fondamentali comunali, elemento centrale e sottostate della decisione in esame, che «risultano ancora oggi contingentemente definite con un decreto-legge che tradisce la prevalenza delle ragioni economico finanziarie su quelle ordinamentali» e critica anche l'attuale assetto ordinamentale degli enti locali, nel quale «le stesse funzioni fondamentali – nonostante i principi di differenziazione, adeguatezza e sussidiarietà di cui all'art. 118, Cost. – risultano assegnate al più piccolo comune italiano, con una popolazione di poche decine di abitanti, come alle più grandi città del nostro ordinamento, con il risultato paradossale di non riuscire, proprio per effetto dell'uniformità, a garantire l'eguale godimento dei servizi, che non è certo il medesimo tra chi risiede nei primi e chi nei secondi»; differentemente da quanto è stato fatto in altri Paesi d'Europa, come Francia, Germania, Regno Unito, Svezia, Danimarca, Belgio e Olanda, dove l'assetto organizzativo degli enti locali è stato rivisitato, attuando la differenziazione non solo sul piano organizzativo, ma anche su quello funzionale e dove sono state promosse innovative modalità di associazione intercomunale e formule di accompagnamento alle fusioni implementando, comunque, interventi di tipo organico, differentemente da quanto è accaduto nel nostro Paese nel quale si è registrato «un infelice esito dei vari tentativi, pur esperiti nell'ultimo quindicennio», persino nell'approvazione della cosiddetta Carta delle autonomie locali. Il TAR rimettente pone sulle norme censurate questioni di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 133, comma 2 Cost., anche in relazione all'istituzione di nuovi comuni e degli artt. 114 e 119 Cost., con riferimento all'autonomia organizzativa e finanziaria degli enti locali, incrociando l'istituto della gestione associata delle funzioni, con l'istituto della fusione di comuni. Il giudice amministrativo osserva che, malgrado l'esercizio associato di quasi tutte le funzioni fondamentali, imposto per legge, i comuni interessati non risultino formalmente estinti, e ciò nonostante non rimarrebbe in capo al comune quel «nucleo minimo di attribuzioni» che permette la sua qualificazione costituzionale in termini di ente locale autonomo, operando «una riserva costituzionale di esercizio individuale». In buona sostanza, un altro sintomo di incostituzionalità della normativa controversa è dovuto al fatto che sarebbe stato violato l'art. 133, comma 2, Cost. relativamente all'istituzione di nuovi comuni e degli artt. 114 e 119 Cost., con riferimento all'autonomia organizzativa e finanziaria degli enti locali. Di conseguenza, le norme discusse hanno disposto, secondo il TAR rimettente «la traslazione di tutte queste funzioni ad un soggetto nuovo o diverso, spogliandone il precedente titolare», ai fini dell'art. 133, secondo comma, Cost., determinando così una situazione in base alla quale non sarebbe «distinguibile dall'estinzione dell'ente locale per fusione o incorporazione», oltre ad essere mancata la «previsione del coinvolgimento delle popolazioni interessate» richiesta dalla medesima norma costituzionale.
Questioni che la Corte Costituzionale ha ritenuto infondate, in quanto si deve escludere l'esistenza di una «riserva costituzionale di esercizio individuale» delle funzioni fondamentali che renderebbe illegittime le Unioni di comuni e le convenzioni tra comuni a prescindere dalla loro obbligatorietà.
Infine, il TAR rimettente solleva questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 110 e 111, della L. R. della Campania n. 16 del 2014, soprattutto in base all'individuazione degli ambiti ottimali per l'esercizio delle funzioni fondamentali, per i quali la legge regionale avrebbe fatto generico riferimento ai cosiddetti «sistemi territoriali di sviluppo», previsti in ambito urbanistico dalla legge della Regione Campania 13 ottobre 2008, n. 13 (Piano Territoriale Regionale), «senza in merito svolgere adeguata istruttoria attraverso il necessario coinvolgimento degli enti locali interessati».
Il giudice delle leggi ha ritenuto la questione fondata, in relazione agli artt. 5, 114 e 97 Cost. poiché le Regioni, nell'individuazione della «dimensione territoriale ottimale e omogenea» per lo svolgimento in forma obbligatoriamente associata delle funzioni fondamentali, ai sensi del comma 30, art. 14, del D. L. n. 78/2010, come sostituito dall'art. 19 del D. L. 95/2012, prescrive la «previa concertazione con i comuni interessati nell'ambito del consiglio delle autonomie locali».
Di tale concertazione, però, non vi è traccia alcuna né nella legge, né nei lavori preparatori; «né la legge regionale censurata ha previsto un procedimento bifasico, in cui la fonte primaria indicasse criteri generali, demandando poi la concreta individuazione dell'ambito territoriale a un atto amministrativo adottato all'esito della concertazione con i comuni interessati»; con la conseguenza che l'art. 1, commi 110 e 111, della L. R. Campania n. 16 /2014 si pone in contrasto con gli artt. 5 e 114 Cost., nel combinato disposto con l'art. 97 Cost., in quanto non è dimostrato che l'individuazione contenuta nella normativa regionale della dimensione territoriale ottimale e omogenea per lo svolgimento delle funzioni fondamentali, di cui al comma 28 dell'art. 14 del D. L. n. 78/2010, sia stata preceduta dalla concertazione con i comuni interessati.
Il giudice delle leggi osserva che il D. L. n. 78/2010, art. 14, comma 30, nell'imporre la concertazione con gli enti locali, integra il principio, affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 229/2001, del necessario coinvolgimento, «per le conseguenze concrete che ne derivano sul modo di organizzarsi e sul modo di esercitarsi dell'autonomia comunale», degli enti locali infraregionali nelle determinazioni regionali che investono l'allocazione di funzioni tra i diversi livelli di governo, «anche di natura associativa», con la conseguenza che «ne deriva in caso di mancata concertazione con gli enti locali, una lesione dell'autonomia comunale riconosciuta e garantita dagli artt. 5 e 114 Cost.».
Considerazioni conclusive[Torna su]
La sentenza della Corte Costituzionale, n. 33/2019, nel censurare la disposizione contenuta nell'art. 14, comma 28, del D. L n. 78/2010, che fa obbligo ai comuni con meno di 5.000 abitanti di gestire in forma associata le loro funzioni fondamentali, è incostituzionale, nella parte dove non consente ai comuni di dimostrare che, nella forma associata, non si conseguono economie di scala e/o di scopo, nell'espletamento delle suddette funzioni fondamentali. Quanto deciso dal giudice delle leggi consente una riflessione che riguarda gran parte dell'assetto riformatore del complesso degli enti locali territoriali, pensato dal legislatore negli ultimi lustri, la cui azione appare ispirata, da un lato alla volontà di conferire centralità all'autonomia locale e dall'altro ad imporre il suo sacrificio, in nome della «spending review» che pervade, significativamente, le scelte politiche che spesso hanno imposto duri sacrifici ai comuni, in modo particolare ai cosiddetti piccoli comuni. Tant'è che Corte Costituzionale non ha mancato di evidenziare (punto 7.6 del provvedimento giurisdizionale in esame) che il vigente disegno costituzionale, «tradisce la prevalenza delle ragioni economico finanziarie su quelle ordinamentali»; e che la stessa autonomia comunale appare essere un «risultato relegato a mero effetto riflesso di altri obiettivi», come, ad esempio, il federalismo fiscale. Eppure, le intenzioni del legislatore, dall'emanazione della legge sull'ordinamento delle autonomie locali (L. 9 giugno 1990, n. 142), fino a quelle del vigente TUEL (D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali) erano apparse volte a dare centralità ad un ragionamento che conducesse i comuni al superamento (possibile e mai obbligatorio) dell'attuale modello organizzativo, consentendo l'applicazione di forme di collaborazione istituzionale, nei modi previsti dall'ordinamento, in primis le convenzioni, ex art. 30 del TUEL e le Unioni di comuni, previste dall'art. 32 del TUEL, per non parlare poi delle forme aggregative, vale a dire delle fusioni di comuni, previste dall'art. 15 del TUEL. Il giudice delle leggi ha intravisto, però, una «eccessiva rigidità» dell'intervento del legislatore, derivante dall'obbligo generalizzato di esercizio delle funzioni fondamentali in forma associata, allorquando «a) non esistono comuni confinanti parimenti obbligati; b) esiste solo un comune confinante obbligato, ma il raggiungimento del limite demografico minimo comporta la necessità del coinvolgimento di altri comuni non posti in una situazione di prossimità; c) la collocazione geografica dei confini dei comuni non consente, per esempio in quanto montani e caratterizzati da particolari «fattori antropici», «dispersione territoriale» e «isolamento». Ma in tale evenienza ad essere censurato, oltre «l'obbligo generalizzato di esercizio delle funzioni fondamentali in forma associata», appare essere l'intero istituto dell'Unione di comuni «della cui legittimità costituzionale […] non è possibile dubitare […]», (punto 7.4 primo periodo, sentenza n. 33/2019), per come è stato disegnato dall'art. 32 del TUEL.
L'incostituzionalità dell'art. 14, comma 28 del D. L. n. 78/2010, vale a dire dell'«obbligo generalizzato di esercizio delle funzioni fondamentali in forma associata», è riconosciuta dal giudice delle leggi «anche» in virtù del fatto che «la norma del comma 28 dell'art. 14 del D. L. n. 78 del 2010 […] pretende di avere applicazione anche in tutti quei casi in cui: a) non esistono comuni confinanti parimenti obbligati; b) esiste solo un comune confinante obbligato, ma il raggiungimento del limite demografico minimo comporta la necessità del coinvolgimento di altri comuni non posti in una situazione di prossimità; c) la collocazione geografica dei confini dei comuni non consente, per esempio in quanto montani e caratterizzati da particolari «fattori antropici», «dispersione territoriale» e «isolamento» (sentenza n. 17 del 2018), di raggiungere gli obiettivi cui eppure la norma è rivolta».
Sembrerebbe che la decisione della Corte Costituzionale si basi sulla categoria della «contiguità territoriale», necessaria, a dire del giudice delle leggi, anche per l'Unione di comuni.
In realtà la contiguità territoriale è richiesta solo per l'istituto della fusione di comuni, previsto dalla L. 7 aprile 2014, n. 56, Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni, art. 1, comma 130, laddove è detto che «i comuni possono promuovere il procedimento di incorporazione in un comune contiguo»; contiguità che non «sarebbe» necessaria per il TUEL, atteso che l'art. 15 dello stesso, rubricato «Modifiche territoriali, fusione ed istituzione di comuni» non la prevede, anche se con ogni probabilità a causa della mancanza di coordinamento con altre disposizioni legislative. Nel caso dell'Unione di comuni (art. 32 del TUEL) non vi è alcun riferimento alla obbligatorietà della contiguità territoriale che è richiesta dalla legge solo «di norma» per potere esercitare in forma associata «funzioni e servizi» comunali, in linea con quanto già prevedeva la L. 8 giugno 1990, n. 142, Ordinamento delle autonomie locali, che all'art 26, comma 1, disponeva che «le Unioni di comuni sono enti locali costituiti da due o più comuni di norma contermini, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza». In definitiva, la caratteristica propria dell'Unione di comuni, per come è stata pensata dal legislatore, è proprio quella dell'assenza della necessaria contiguità territoriale perché i comuni possano lavorare in forma associata; nel senso che anche i comuni territorialmente non finitimi, possono, comunque, erogare servizi ai cittadini e al sistema delle imprese con logiche di efficienza, efficacia e di economicità, vista anche la specifica normativa emanata per le Unioni di comuni con la legge "Delrio", L. 7 aprile 2014, n. 56, Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni, art. 1, commi 105-115, ragione per la quale non appare del tutto pertinente la posizione della Corte Costituzionale assunta con la sentenza in esame nel punto 7.5, quarto periodo. Al netto di quanto sopra riportato, l'art. 14, comma 28, del D. L. n. 78/20190 è costituzionalmente illegittimo, laddove non consente ai comuni la possibilità, di comprovare, per conseguire l'esonero dall'obbligo imposto dal legislatore di esercizio associato delle funzioni fondamentali, che non è possibile realizzare economie di scala e/o di scopo o comunque miglioramenti in termini di efficienza e di efficacia in relazione ai servizi resi al cittadino. Divieto dell'esercizio obbligatorio in forma associata, peraltro, non assoluto, in quanto la sentenza n. 33/2019 non riguarda tutte le situazioni, poiché, «[…] la portata della decisione non coinvolge tutte quelle diverse situazioni in cui le normative impongono obblighi di gestione associata di funzioni e/o servizi alla generalità dei comuni, e quindi sono riferibili a tutti gli enti locali appartenenti a un determinato ambito territoriale, senza che si distingua tra comuni obbligati e non», così come è previsto al punto 7.5, penultimo periodo del provvedimento costituzionale in esame. Ciò detto, quale potrebbe essere lo scenario futuro?[Torna su]
Innanzitutto, può essere ipotizzato uno sfondo fatto di ristagno delle forme associative comunali, con la possibile conseguenza di un tentativo di ritorno al passato da parte degli amministratori comunali, generalmente (ma non mancano affatto situazioni di virtuosità) poco propensi al trasferimento delle funzioni alle Unioni di comuni (poco importa se fatto in modo obbligatorio a facoltativo). Sono molti gli enti locali territoriali che hanno costituito Unioni comunali e che hanno previsto l'esercizio congiunto di funzioni, ma solo sulla carta e per conseguire gli incentivi statali e regionali previsti dalla legge; "fenomeno" questo che oltre ad evidenziare un contrasto con il principio di buon andamento, costituisce un andazzo deprecabile da parte della p.a. locale, il cui futuro è, invece, legato al deciso rilancio di un diverso assetto organizzativo, basato proprio sulla Unione di comuni e sulla fusone intercomunale. In stretto punto di diritto, la Costituzione, all'art. 136, prevede che: «quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali»; e la L. 11 marzo 1953, n. 87, Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale, all'art. 30, commi 1, 2, 3, analogamente dispone che: «la sentenza che dichiara l'illegittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione, entro due giorni dal suo deposito in Cancelleria, è trasmessa, di ufficio, al Ministro di grazia e giustizia od al Presidente della Giunta regionale affinché si proceda immediatamente e, comunque, non oltre il decimo giorno, alla pubblicazione del dispositivo della decisione nelle medesime forme stabilite per la pubblicazione dell'atto dichiarato costituzionalmente illegittimo. La sentenza, entro due giorni dalla data del deposito viene, altresì, comunicata alle Camere e ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario adottino i provvedimenti di loro competenza. Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione». La palla passa ora alle Regioni che hanno legiferato in merito alle forme associative e aggregative comunali, la cui normativa specifica rimane, allo stato, in piedi, come suole dirsi. Come si comporteranno ora, solo come esempio, i sindaci della Regione Puglia, nella quale la L.R. 1° agosto 2014, n. 34, Disciplina dell'esercizio associato delle funzioni comunali, all'art. 4 prevede l'obbligo di esercizio associato delle funzioni fondamentali e dispone che «i comuni con popolazione fino a 5 mila abitanti, ovvero fino a 3 mila abitanti se già appartenenti alle soppresse comunità montane, con esclusione del comune di Isole Tremiti, il cui territorio coincide integralmente con quello delle omonime isole, sono obbligati a esercitare in forma associata, mediante unione di comuni o convenzione, tutte le funzioni fondamentali, come individuate dall'articolo 19 del D. L. n. 95/012, con esclusione di anagrafe e stato civile, secondo la disciplina ivi prevista, nonché quella dettata dalla presente legge». Le Regioni dovranno uniformarsi alla decisione della Corte Costituzionale, modificando la propria legislazione, nella parte in cui prevede l'obbligo di esercizio associato, mediante Unione di comuni o convenzione, di tutte le funzioni fondamentali; oppure lasciare inalterato il testo legislativo e attendere l'eventuale dimostrazione «[…] al fine di ottenere l'esonero dall'obbligo, che […] non sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell'erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento»; salvo che i comuni non decidano, in modo del tutto volontario e cioè a prescindere dalla sentenza della Corte Costituzionale, n. 33/2019, di esercitare, comunque, in modo congiunto le funzioni fondamentali comunali. Non sembra sollevare particolari problemi, invece, la decisione del giudice delle leggi, in relazione all'incostituzionalità dell'art. 1, commi 110 e 111, della legge della Regione Campania, 7 agosto 2014, n. 16, recante «Interventi di rilancio e sviluppo dell'economia regionale nonché di carattere ordinamentale e organizzativo (collegato alla legge di stabilità regionale 2014)» che è «in contrasto con gli artt. 5 e 114 Cost., nel combinato disposto con l'art. 97 Cost., non risultando dimostrato che l'individuazione ivi contenuta della dimensione territoriale ottimale e omogenea per lo svolgimento delle funzioni fondamentali, di cui al comma 28 dell'art. 14 del D. L. n. 78 del 2010, sia stata preceduta dalla concertazione con i comuni interessati», così come disposto dal comma 30 dell'art. 14 del D. L. n. 78/2010.
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