Data: 18/04/2019 16:30:00 - Autore: Cleto Iafrate
di Cleto Iafrate - Se il potere emergesse nella sua nuda realtà, difficilmente sarebbe tollerato dal popolo. Da sempre quindi la manipolazione e il controllo dell'azione penale è attività che appassiona chi detiene il potere, in quanto strettamente connessa all'immagine e al consenso.
Non c'è stato periodo storico nel quale tale attività non sia stata praticata, con diversi espedienti, alcuni rozzi ed altri più sofisticati.
E' indubbio che i regimi totalitari ne garantiscano le migliori condizioni d'esercizio. Ad ogni modo, anche le giovani democrazie si "difendono" bene, nonostante le difficoltà dovute alla presenza dei contrappesi previsti dalle loro Costituzioni.
In questa sede analizzeremo tre rimedi esperiti nel corso della storia: il più antico a memoria d'uomo e i due più recenti, di cui uno fallito e l'altro al momento in atto.

La legna, come elemento di condizionamento del verdetto

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Il progenitore del nostro codice di procedura penale è il "Tractatus de maleficiis", scritto nel 1286 da Alberto Gandino da Crema, nel quale uno spazio importante era occupato dall'ordalia. Si tratta di un'antichissima pratica utilizzata per dirimere le vertenze giuridiche che creavano imbarazzo al potere e che, pertanto, non potevano, o non si volevano, regolare con mezzi umani.
Di "ordalia del dio fiume" si parla addirittura nel Codice sumero di Ur-Nammu (2112 - 2095 a.C.).
Ordalia significa "giudizio di dio" ed è una procedura basata sulla premessa che dio aiuta l'innocente. L'accusato veniva sottoposto ad una prova il cui esito, apparentemente incerto, era ritenuto come diretta conseguenza dell'intervento di dio[1] e determinava la sua innocenza o colpevolezza. In Europa una delle più utilizzate era "l'ordalia del fuoco". L'accusato doveva fare un certo numero di passi (solitamente nove) tenendo tra le mani una barra di ferro rovente. L'innocenza era dimostrata dall'assenza di ustioni, ovvero, dalla trascurabilità delle stesse. Il fuoco per arroventare il metallo, determinante per l'esito della prova, però, era preparato sotto il controllo e la supervisione del clero locale che era a stretto contatto con i potenti di Corte. Tante sono state le donne accusate d'infedeltà coniugale o di stregoneria sottoposte alla pratica dell'ordalia. E' assai probabile che l'ordalia venisse in qualche modo "aggiustata", agendo sulla quantità di legna, in modo che il verdetto fosse in linea con i desiderata del potente di turno.
Pure essendo il processo formalmente regolamentato in tutte le sue fasi, nella sostanza la discrezionalità esercitata nel dosare la legna permetteva di alterare il verdetto.
Appare evidente che l'ordalia, più che giudizio di dio, fosse un imbroglio ideato dagli uomini allo scopo di manipolare l'azione penale. Ciò è tanto più vero se solo si considera che i sacerdoti e i potenti di Corte non si sottoponevano al rischi dell'ordalia del fuoco, per loro era prevista "l'ordalia del boccone maledetto". Il principio, formalmente, è lo stesso – ovverosia, dio aiuta l'innocente - nella sostanza, però, la prova è molto differente. Un pezzo di pane, chiamato appunto "boccone maledetto", era posto sull'altare della chiesa. Si portava l'accusato di fronte all'altare e gli si offriva il "boccone maledetto"; e in caso di colpevolezza il boccone gli si sarebbe dovuto bloccare in gola fino a farlo soffocare.
Siamo evidentemente lontani anni luce dalla struttura processuale odierna che richiede tre protagonisti: accusa, difesa e organo giudicante.

Il penultimo tentativo posto in atto dal governo e censurato dalla Consulta

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Il Codice di procedura penale vigente è stato introdotto con DPR 447 del 22 settembre 1988 ed entrato in vigore il 24 ottobre dell'anno successivo. La sua fase di approvazione è stata preceduta da una serie di cautele: il progetto di legge è stato esaminato prima da una Commissione interparlamentare, poi sottoposto alle osservazioni del Consiglio dei ministri e infine all'esame del CSM, dei più alti magistrati, delle associazioni forensi e del mondo universitario.
In esso il segreto istruttorio si trasforma in segreto investigativo, che permane in tutta la fase delle indagini preliminari[2].
La previsione di compiere in segreto determinati atti d'indagine, nella fase delle indagini preliminari, risponde alla logica di evitarne la compromissione.
La violazione del segreto provocherebbe un'alterazione dell'equilibrio dei poteri.
Il vocabolo "segreto" deriva dal verbo "seiungo" ossia, "secerno", "separo". Rispetto a un dato fatto, il segreto separa chi è tenuto a sapere, da tutti gli altri che non devono sapere. E' di tutta evidenza che le possibilità che un fatto rimanga segreto diminuiscano all'aumentare del numero delle persone che ne vengono a conoscenza.
Stante tutte le cautele sopra esposte, mi è sembrato quanto meno incauto, a tacer d'altro, il fatto che nell'agosto del 2016, quando tutti gli italiani erano al mare, il Governo abbia approvato un decreto legislativo che nasconde tra le "Disposizioni transitorie e finali" una deroga al codice di procedura penale. Il codicillo[3] dispone che "i responsabili di ciascun presidio di polizia, trasmettano alla propria scala gerarchica le notizie relative all'inoltro delle informative di reato all'autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale."
Fortunatamente la manovra ordita in agosto dall'Esecutivo è stata subito sventata dal Procuratore della Repubblica di Bari e successivamente dichiarata incostituzionale dalla Consulta, in quanto lesiva delle prerogative di rango costituzionale pertinenti all'Autorità Giudiziaria. Si pensi a tutte quelle indagini che la politica ha interesse a conoscere (corruzione, frode fiscale, appalti, ecc.).
Oggi l'obbligo di riferire sulle indagini in corso è rimasto solo per l'Arma dei Carabinieri -lo prevede l'art. 237 del DPR 90/2010[4]. Ritengo che ciò sia dovuto ad una mera svista del legislatore e che prima o poi anche questa "regia disposizione" sarà ritenuta incostituzionale al pari dell'altra.
Di seguito uno dei passaggi fondamentali del ricorso del Procuratore di Bari: «(…) Gli organi di polizia giudiziaria, nelle loro diverse articolazioni, integrano strutture gerarchicamente dipendenti dal Governo, ragion per cui essi stessi non sono assistiti dalle garanzie di autonomia e indipendenza che caratterizzano, invece, gli uffici del pubblico ministero».
Un'affermazione così categorica è figlia di una profonda conoscenza dello status militis della polizia giudiziaria ad ordinamento militare: Carabinieri e Guardia di Finanza. La specificità militare, infatti, fa dell'organizzazione militare una specie di micro-Stato annidato in seno allo Stato democratico.
A tal proposito, assai significative sono alcune dichiarazioni[5] rese nel corso del precedente mandato dalla Rappresentanza militare della Guardia di Finanza: «Tra le maglie di una disciplina militare svincolata dal principio di legalità, ben si potrebbero insinuare dei pericolosi comportamenti discriminatori nei confronti dei sottoposti per motivi ideologici o politici[6].
Questo organismo ritiene che i rimedi offerti dal legislatore, solo sulla carta, per contrastare eventuali vessazioni e ordini criminosi, siano inadeguati e scarsamente attuabili.
L'inadeguatezza di tali rimedi potrebbe compromettere o quantomeno influenzare il libero articolarsi della dialettica democratica, attraverso cui si stabiliscono i fini dello Stato. E per di più, ci si chiede se, per assurdo, l'ordine promanasse dall'autorità politica di governo[7], l'ordinamento militare avrebbe gli anticorpi per contrastarne l'esecuzione?
Questo organismo ritiene che quegli anticorpi - previsti da norme di rango superiore - siano stati sterilizzati da norme di rango regolamentare, che ne hanno anestetizzati gli effetti.
Ciò in quanto con l'attuale panorama normativo di riferimento, l'eventuale cattiva abitudine di impartire ordini illegittimi è difficile da estirpare, proprio perché l'autorità nei cui confronti andrebbe rivolta la censura è, per così dire, parte e controparte. Le conseguenze di tali vulnera costituzionali si ripercuotono negativamente sul principio d'imparzialità e buon andamento di così delicati apparati dello Stato, la cui attività operativa condiziona la distribuzione del reddito - quella della Guardia di Finanza - e il funzionamento della giustizia - quella dei Carabinieri e della G.di F.; quindi, possono avere effetti non solo sui cittadini-militari ma anche e soprattutto su gli altri cittadini, che militari non sono.
Ma v'è di più. Si consideri che gli appartenenti alle forze di polizia ad ordinamento militare, oltre ad essere inseriti in una catena rigidamente gerarchizzata che si aggancia all'autorità politica, non sono posti nella condizione effettiva di dire "signornò" ai loro superiori. L'organizzazione attuale dell'ordinamento militare relega il militare in una condizione di tale subordinazione e vulnerabilità da rendere il principio dell'obbedienza leale e consapevole nulla più che un mito»[8].

Quali sono le norme anestetizzanti gli anticorpi necessari a contrastare gli ordini che non andrebbero eseguiti?

Più che di norme, si tratta di un laccio invisibile che lega i militari alla catena gerarchica, composto da quattro fili strettamente intrecciati tra loro:
1. sanzioni disciplinari;
2. trasferimenti d'autorità;
3. giudizi annuali caratteristici;
4. note premiali.
Ciascun filo è completamente svincolato –è il caso di dire slegato - dal principio di legalità.

Il principio di legalità

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Il principio di legalità costituisce l'argine del potere, cioè stabilisce la subordinazione di qualsiasi potere alla legge, che ne fissa limiti e contenuto. Esso presuppone che a presidio di ogni potere -governativo o amministrativa- vi sia sempre una norma di legge.
Il principio, conquistato con il sangue versato durante la rivoluzione francese, trasformò i sudditi in cittadini. E qualora dovesse venir meno, i cittadini tornerebbero a vivere in una condizione di sudditanza!
Si consideri che agli inizi del secolo scorso Giuseppe Maggiore, illustre esponente della letteratura giuridica dell'epoca, propose di introdurre anche "la volontà del duce" nel nostro principio di legalità, ad imitazione di quello hitleriano.
Egli scrisse: "E' reato ogni fatto espressamente previsto come reato dalla legge penale e represso con una pena da essa stabilita. E' altresì reato ogni fatto che offende l'autorità dello Stato ed è meritevole di pena secondo la volontà del Duce unico interprete della volontà del popolo italiano."[9].
In questa sede ci si occuperà solo del primo dei quattro fili: le sanzioni disciplinari.
Per quanto attiene agli altri tre, si rimanda ad un precedente intervento[10].

La consegna, come strumento di controllo dell'obbedienza della polizia giudiziaria

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La consegna - semplice o di rigore - è la più grave sanzione disciplinare di Corpo, le altre sono il richiamo e il rimprovero (art. 1352, comma 1, D. Lgs 66/2010).
La legge, nel prevedere la sanzione della consegna semplice, non ha tipizzato gli specifici comportamenti a causa dei quali la sanzione può essere inflitta. Il legislatore, cioè, ha tipizzato le sanzioni, ma ha omesso di tipizzare le violazioni che le stesse censurano. A tal proposito, si è limitato solamente a dire che la consegna punisce le violazioni dei doveri militari e le più gravi trasgressioni alle norme della disciplina e del servizio.
Non v'è dubbio che tali locuzioni linguistiche, per la loro indeterminatezza, si prestano alle più disparate elusioni dei fondamentali diritti del militare[11].
La norma che prevede la consegna parrebbe pensata per consentire al titolare del potere disciplinare di punire chiunque, quando vuole e come vuole. Ai fini sanzionatori, infatti, la volontà del Capo costituisce principio di legalità, proprio come ipotizzato dal prof. Giuseppe Maggiore.
Allo scopo di palesare l'enorme discrezionalità detenuta dall'autorità militare, per tutti, si riportano due soli esempi:
- un militare della Guardia di finanza, quando i regolamenti imponevano un limite d'età per contrarre matrimonio, è stato sanzionato con la consegna "per aver procreato senza autorizzazione dei suoi superiori"[12];
- qualche anno fa un sottufficiale dell'esercito, al quale era stato prescritto di astenersi da attività traumatiche di qualsiasi genere, è stato sanzionato con la consegna "per aver consumato un rapporto sessuale con la propria fidanzata"[13].
Come se tutto ciò non bastasse, si consideri che non v'è un obbligo di "retribuire" con la medesima sanzione le stesse mancanze disciplinari. L'autorità militare esercita un potere discrezionale che può portare a valutazioni che non conducono, necessariamente, alla stessa decisione (sanzione) se ritenuta inopportuna o sconveniente per quella circostanza o per quel manchevole, ciò in quanto la finalità "retributiva" delle sanzioni disciplinari, è solo tendenziale, cioè "un'idea guida per l'autorità titolare della potestà". In altri termini, secondo le norme regolamentari interne, se due militari compiono entrambi una medesima azione censurabile, l'uno può venir legittimamente sanzionato, l'altro no, restando nell'ambito di liceità delle decisioni assunte.
Si consideri, inoltre, che la consegna viene annotata nella documentazione personale; pertanto ha devastanti effetti sulla carriera del militare ed incide negativamente sull'assegnazione degli incarichi, sui trasferimenti, sull'esito dei concorsi interni, sulla concessione delle ricompense, sull'autorizzazione al NOS (nulla osta di sicurezza). Infine, la recidiva nella consegna è valutata per la comminazione della consegna di rigore e tra le cause di cessazione dal servizio permanente, si annoverano "le gravi e reiterati mancanze disciplinari che siano state oggetto di consegna di rigore.
Pertanto la consegna, nonostante sia in contrasto con il principio di legalità, può provocare la risoluzione del rapporto di lavoro, con le immaginabili conseguenze in termini patrimoniali.
Ripetendo: prima che fosse affermato il principio di legalità, i cittadini vivevano in una condizione di sudditanza.
Infatti, l'obbedienza militare avrebbe dovuto essere "leale e consapevole", se l'ordinamento si fosse informato allo spirito democratico della Repubblica, in realtà essa è ancora "cieca e assoluta".
Una siffatta obbedienza della polizia giudiziaria, in assenza di contrappesi, lascia aperte le porte a rischiose ingerenze del potere sull'azione penale.

Il tentativo in atto di sabotare il processo di sindacalizzazione dei militari

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Il contrappeso è stato posto lo scorso anno dalla Corte costituzionale. La notizia è passata in sordina, ma nel 2018 la Corte costituzionale ha finalmente cancellato il divieto di sindacalizzazione dei militari. Abbiamo dunque vissuto per settant'anni in una grave condizione di incostituzionalità di fatto. Circostanza questa che ha pesato anche sull'attuazione dell'art. 109 della Costituzione: come si può disporre direttamente di qualcuno che dipende da un altro per tutto quanto attiene alla sua vita presente e futura?
Dopo questa svolta epocale, però, le forze più retrive di questo Paese si sono coalizzate per sterilizzare la storica sentenza n. 120/2018 - e sabotare così la sindacalizzazione delle forze armate. Si sta tentando di fare approvare una normativa che limiti oltremisura i poteri dei sindacati e li ponga in qualche modo al guinzaglio dei vertici militari.
Il progetto di legge, il cui iter prosegue spedito verso l'approvazione, al momento prevede, oltre ad una serie di limiti e restrizioni, addirittura che le associazioni sindacali siano assoggettate ad autorizzazione ministeriale preventiva, che può essere ritirata in qualsiasi momento, e che in caso di comportamento antisindacale da parte dell'amministrazione, sia essa stessa ad auto-sanzionarsi.
Dietro tutte queste limitazioni c'è l'interesse del potere a mantenere il controllo sull'obbedienza dei militari; non solo del fante o dell'alpino, ma anche del Carabinieri e del Finanziere.
In assenza di contrappesi, che solo un sindacato vero può garantire, la macchina giudiziaria, in astratto, rischia di essere etero-guidata.
La Germania da diversi anni ha concesso i diritti sindacali ai suoi militari, perché ha imparato la lezione durante i processi di Norimberga, nel corso dei quali la difesa più ricorrente utilizzata dai collegi difensivi degli accusati era costituita da due sole parole: "ordini superiori".
Infatti, un Presidente di Corte di Cassazione tedesco mai si sognerebbe di scrivere un libro dal titolo: "La Repubblica delle stragi impunite".
Insomma, nel processo di sindacalizzazione dei militari in ballo non ci sono solo i diritti dei militari, come si vuole lasciare intendere.
In gioco c'è il disincaglio della Costituzione arenatasi settant'anni fa sul terzo comma dell'art. 52!

Conclusioni

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Alla luce di quanto fin qui esposto, ciò che stupisce non è tanto il punto di vista espresso dagli Stati Maggiori e dagli avvocati dello Stato nel corso delle audizioni in Commissione difesa, in materia di sindacati militari, in fondo era prevedibile. A stupirmi è l'assoluto silenzio della stampa che non si sa, a parer dello scrivente, se non capisce, oppure obbedisce! Probabilmente la prima ipotesi.
E non sarebbe la prima volta. Anche quando la Corte costituzionale sventò il penultimo tentativo ordito dal governo e descritto nel precedente paragrafo, i più importanti giornali nazionali confusero la norma[14] che estendeva l'obbligo di riferire ai superiori sulle indagini in corso con quella[15] che lo prevedeva. E ancora lo prevede!
Infatti, dagli articoli pubblicati, all'indomani della sentenza della Consulta, da Il Fatto Quotidiano[16], La Verità[17], il Tempo[18] e Il Sole 24 Ore[19] sembrerebbe che il nostro paese sia rimasto esposto al rischio di compromissione delle indagini solo per poco più di un anno: dall'estate del 2016, quando fu inserito il "codicillo", fino al 7 novembre 2018 quando la Consulta lo espunse. Il nostro paese è esposto a quel rischio almeno dal 1859 (cfr. nota n.4).
Solamente il Giornale[20], Repubblica[21] e il Corriere della Sera[22] hanno pubblicato correttamente la notizia e spiegato ai loro lettori che "l'art. 237, primo comma, del D.P.R. 90/2010 rimane in piedi perché non è stato formalmente contestato da nessuno, e dunque resta l'obbligo per i soli carabinieri di riferire ai propri superiori".
Ci si chiede, ma è così difficile capire che un'obbedienza da stato di guerra mal si adatta, in tempo di pace, ad un corpo di polizia giudiziaria che dipende "direttamente" da un altro potere dello Stato?
Le patologie che affliggono l'obbedienza gerarchica di "strutture direttamente dipendenti dal governo" possono "contagiare" le indagini d'interesse per la politica e allontanare così la verità processuale da quella storica.

Cleto Iafrate

Segretario Generale Sindacato Italiano Militari Guardia di Finanza

Leggi gli altri contributi dello stesso autore su Studiocataldi.it e su Ficiesse.it

[1] Lo scrivente precisa, da cattolico, che il dio dell'ordalia non è il Dio di Gesù Cristo. Quest'ultimo, come ha ben chiarito nei Vangeli -O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi? (Lc 12,14)- non è affatto interessato alle nostre vertenze giudiziarie. Tant'è che il quarto Concilio Laterano del 1215 impose ai sacerdoti il divieto assoluto di amministrare le ordalie. La pratica delle ordalie continuò in assenza del clero ancora per qualche secolo, prima di scomparire definitivamente.

[2] "Gli atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari" (art. 329, I comma).

[3] Art. 18, comma 5, D.Lgs. n. 177 del 19 agosto 2016.

[4] Questo il testo del primo comma dell'art. 237: "Indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale, i comandi dell'Arma dei carabinieri competenti all'inoltro delle informative di reato all'autorità giudiziaria, danno notizia alla scala gerarchica della trasmissione, secondo le modalità stabilite con apposite istruzioni del Comandante generale dell'Arma dei carabinieri". Preciso che la datazione dell'art. 237 –riordinato nel DPR 90/2010- si perde nella notte dei tempi. L'articolo riproduce fedelmente il disposto dell'art. 151 Regio decreto 24 dicembre 1911, recante Regolamento generale per l'Arma dei Carabinieri. Il quale, a sua volta, ha recepito, con qualche modifica, il precedente Regolamento di disciplina militare (approvato con R.D. 30 ottobre 1859), che contiene una premessa introduttiva programmatica che ne traccia le linee guida e d'azione. In questo preambolo si afferma che "l'esercito è istituito prima per sorreggere il trono e poi per tutelare le leggi e le istituzioni nazionali". Una copia dell'edizione originale è custodita presso la biblioteca dell'istituto geografico militare di Firenze.

[5] Delibera n. 01/06/XI, approvata all'unanimità dal Consiglio di Base di Rappresentanza del Comando Operativo Aeronavale della Guardia di Finanza.

[6] Torna in mente l'eloquente risposta fornita dal Ministro della difesa di turno alla richiesta di specificare i limiti alla libertà di espressione dei militari: «… i militari debbono accertarsi del pensiero dei superiori, chiedendo l'autorizzazione ad esprimere il proprio » (cfr. interrogazione n. 4/01824).

[7] La direzione amministrativa dello strumento militare -il cosiddetto impiego e gestione del personale- prima che fossero istituiti gli Stati Maggiori era accentrata nelle strutture ministeriali ed era una prerogativa dell'autorità politica, la quale realizzava efficacemente i suoi scopi attraverso lo strumento della disciplina militare. Ancora oggi, in occasione delle nomine delle più alte cariche istituzionali in campo militare, si derogano le rigide procedure di assunzione dell'incarico di comando in relazione al grado rivestito e, a parità di grado, all'anzianità posseduta, privilegiando i criteri discrezionali attribuiti alle autorità decidenti. Le nomine avvengono su scelta politica.

[8] Per leggere il documento nella sua interezza, http://www.ficiesse.it/public/1967_deliberacobar.pdf

[9] G. Maggiore, Diritto penale totalitario nello Stato totalitario; in Rivista italiana di diritto penale, IX [1939], pag. 160.

[10] C. Iafrate, Obbedienza, ordine illegittimo e ordinamento militare in Diritto & Questioni Pubbliche, Palermo.

[11] Si consideri che tra i doveri del militare v'è quello di curare il suo aspetto esteriore, che "deve essere decoroso come richiede la dignità della sua condizione; di "tenere in ogni circostanza condotta esemplare"; di "improntare il proprio contegno al rispetto delle norme che regolano la civile convivenza"; di "astenersi dal compiere azioni e dal pronunciare imprecazioni, parole e discorsi non confacenti alla dignità e al decoro". Le norme di tratto, invece, prevedono che "la correttezza nel tratto costituisce preciso dovere del militare". Le norme denominate "senso dell'ordine", impongono al militare di "compiere ogni operazione con le prescritte modalità , assegnare un posto per ogni oggetto, tenere ogni cosa nel luogo stabilito".

[12] M. Tolone, in «Procreava senza l'autorizzazione dei suoi superiori». La Guardia di Finanza vista dai finanzieri democratici, ed. Kappa Vu.

[13] Cfr. Redazione GrNet, Militare sanzionato disciplinarmente per un rapporto sessuale con la propria fidanzata.

[14] Art. 18, comma 5, del D.Lgs. n. 177/2016.

[15] Art. 237, comma 1, del D.P.R. 90/2010.

[16] Bocciata la legge Renzi che obbligava di avvisare i ministri delle indagini. - Polizia: ai superiori niente più notizie sulle inchieste, di Gianni Barbacetto, edizione del 08 novembre 2018, pagg. 1, 10.

[17] Altra sberla al Bullo. E' incostituzionale la norma che apriva alle spiate di Stato, di Alessandro Da Rold, ediz. 08 novembre 2018, pag. 5.

[18] La Procura di Bari batte il governo: no all'obbligo di informare i superiori, di Ad.Bo., ediz. 08 novembre 2018, pag. 10.

[19] La Consulta «blinda» il segreto investigativo, di Giovanni Negri, ediz. 08 novembre 2018, pag. 34.

[20] Le indagini restino riservate Orlando bocciato, di Luca Fazzo, ediz. 08 novembre 2018, pag. 11.

[21] "Per chi indaga cade l'obbligo di riferire ai propri superiori" la Consulta dà ragione ai pm, di Liliana Milella, Ediz. del 08 novembre 2018, pag. 12.

[22] La Consulta e le indagini della polizia «No all'obbligo di riferire ai vertici», di Giovanni Bianconi, ediz. 08 novembre 2018, pag. 22.


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