Data: 06/05/2019 17:00:00 - Autore: MARIA CONSUELO BRANDAZZI
di Maria Consuelo Brandazzi - L'articolo 813 c.p.c. al comma 2 afferma, expressis verbis, che: "Agli arbitri non compete la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio".

La questione arbitrale

Nella relazione del Greco del giugno 2018, questa norma è definita in frontale contrasto con gli articoli 2, 3 e 4 del Protocollo addizionale alla Convenzione di Strasburgo contro la corruzione (1); e più volte si è espresso sulla necessità che la figura arbitrale, non solo italiana ma anche straniera, sia recepita nel nostro ordinamento alla stregua dell'articolo 357 c.p. (2)
Il Greco rileva appunto che in Italia non viene attribuita rilevanza penale alle condotte corruttive degli arbitri sia interni che stranieri, a ciò chiede si ponga rimedio. Ed infatti, anche recentissimamente, abbiamo avuto sentenze che hanno evidenziato l'enorme falla e mandato assolti arbitri segnatamente corrotti perché, sembrerebbe, la norma non ne prevede la punibilità.

La giurisprudenza

La questione è stata decisa dal Tribunale di Milano con provvedimento del Gip n. 28512/2017 in guisa che: «Il componente di un collegio arbitrale non è considerato pubblico ufficiale e non gli possono essere contestate né la corruzione, né la corruzione in atti giudiziari» (3).
Si è voluto così valorizzare il secondo comma dell'articolo 813 c.p.c. più che le disposizioni del codice penale, in quanto, secondo il giudice, l'arbitrato rappresenta sempre una rinuncia alla giurisdizione pubblica e, seppure il nostro ordinamento equipari la sentenza arbitrale a quella degli organi giurisdizionali, tuttavia: «[…] il rapporto in forza del quale gli arbitri esercitano le loro funzioni è e rimane pur sempre privatistico con possibilità di dolersi di eventuali condotte illecite degli arbitri in sede civilistica».
Il rapporto che si instaura con l'arbitrato viene considerato da tale giurisprudenza un mero mandato, come chiarito dalla stessa Corte di Cassazione con sentenza n. 6736/2014 di talché: «Il rapporto in forza del quale gli arbitri esercitano le loro funzioni è e rimane pur sempre privatistico, […] e non viene meno per il solo fatto che la loro attività sia regolata dalla legge, si traduca nella applicazione della legge, e abbia gli stessi effetti di una sentenza»; espressione apodittica, vuota di contenuti motivazionali.
Come da tempo rilevato da accorta dottrina e rimbalzato alle cronache già nel 2014 con l'intervento del più autorevole quotidiano, segnatamente il Corriere della Sera, si tratta di una enorme falla che raccoglie incredulità: «dettata dall'oggettivo paradosso per cui pagare un arbitro finiva in teoria per non poter mai essere corruzione propria, né corruzione in atti giudiziari, né corruzione tra privati (non avendo l'arbitro neppure la qualifica di amministratore di società)». Sia concesso dunque portare a detrimento di una siffatta visione meramente formalistica di una norma di procedura civile, il richiamo ad attenta dottrina che, acutamente, non si ferma ad una ermeneutica eristica del codice di procedura civile, ma realizza una vera e propria disambiguazione confrontando il dettato civilistico con i caratteri fondanti delle norme penalistiche.

Autonomia del codice di procedura penale

L'articolo 357 c.p. fornisce la nozione di pubblico ufficiale: "Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria, o amministrativa. […]". Questa nozione è stata voluta dal legislatore del 1990 che, di fronte alla teoria della concezione soggettiva risalente al 1930 in base alla quale è pubblico ufficiale colui che vanta un rapporto di pubblico impiego, ha preferito sostituire a quella la teoria della concezione oggettiva, per la quale è pubblico ufficiale colui che esercita in concreto una funzione pubblica, che può essere legislativa, amministrativa o giudiziaria. Avendo il legislatore moderno palesemente aderito alla concezione oggettiva, la qualifica di pubblico ufficiale «dipende esclusivamente dall'esercizio di una attività avente le caratteristiche della pubblica funzione, a nulla rilevando il vincolo di dipendenza da un ente pubblico» (4).
In apparente contrasto vige l'articolo 813, comma 2 c.p.c. che dispone: "Agli arbitri non compete la qualifica di pubblici ufficiali o di incaricati di pubblico servizio". Dictum preso a prestito anche dal recente decreto di archiviazione del procedimento da parte del Gip del Tribunale di Milano del 24 ottobre 2017.
Tuttavia, l'articolo 824-bis c.p.c. dispone che il lodo sottoscritto ha gli effetti della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria; la stessa Consulta ha preso atto che l'arbitrato rituale mutua dalla giurisdizione pubblica quelli che, potremmo definire, sono gli arnesi dello strumentario ad essa tipico, così da pervenire ad un risultato analogo, in termini di efficacia sostanziale, a quella della pronuncia in sede giurisdizionale.
Le stesse Sezioni Unite hanno sostenuto che: «La disciplina attuale dell'arbitrato pare contenere sufficienti indici sintomatici per riconoscere natura giurisdizionale al lodo arbitrale, equiparandolo dunque alla sentenza del giudice ordinario». Il primo passaggio che dunque sollecita parte della dottrina per colmare l'evidente vuoto di tutela, è quello di chiarire se possa attribuirsi al codice penale una propria autonomia nelle sue definizioni.
Ora, quale utilità potrà mai rivestire, nella sfera penale, il richiamo all'articolo 813 c.p.c., laddove informa che agli arbitri non compete la qualifica di pubblici ufficiali o di incaricati di pubblico servizio, ove attribuissimo totale indipendenza alla nozione di agente pubblico che il codice penale individua con l'articolo 357 per l'ambito che gli compete?
Non è questo un caso in cui chiameremmo il giudice penale ad applicare il codice penale, e quello civile ad applicare la procedura civile, senza esitazioni e senza promiscuità?
Trattandosi di ordinamento giuridico specifico, la legge penale deve rimanere autonoma nell'individuazione dei suoi percorsi, senza subire inquinanti giuridici prestati dall'ordinamento civilistico. Il faro a cui dovrebbero tendere l'ermeneutica e l'applicazione della legge penale, è quello costituzionale dell'uguaglianza di trattamento, e a questa riferirsi per risolvere qualsiasi antinomia; imboccata così la via, sarebbe allora fin troppo facile attribuire all'arbitro corrotto la medesima responsabilità penale addebitata al funzionario pubblico o a quello privato, scelta che trova valore e fondamento anche nel significato teleologico dello stesso articolo 357 c.p., dato che questo ha ormai orientato il tiro verso la sostanza e non più verso la forma.
Parte della dottrina (5) ritiene invero che il giudice penale non può utilizzare fonti diverse da quelle che, secondo chi scrive, costituiscono "i suoi giusti arnesi"; in questo caso le fonti sono appunto gli articoli 357 e 358 c.p., utilizzabili pertanto verso tutte le figure esaminate dal codice, qualsiasi sia la funzione, pubblica o privata, svolta dall'indagato. Ciò è tanto vero se si osserva che l'art. 357 c.p. è preciso nell'esordio: "Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali …". Quindi il giudice penale dovrebbe trattare gli arbitri alla stregua di questa chiarissima e inequivocabile norma che, a partire dal 1990, ha voluto privilegiare l'aspetto sostanziale della funzione.
Per contro, l'articolo 813 di procedura civile non specifica che il secondo comma possegga rilevanza penalistica oltre a quella civilistica propria.

Valore ed equiparazione del lodo alle sentenze

A parere della dottrina minoritaria, con incondizionata adesione da parte di chi scrive, il problema che non si possa qualificare l'arbitro come un pubblico ufficiale, in quanto vi osta l'articolo 813 c.p.c., e anche perché sarebbe legato alle parti da un rapporto di natura privatistica, è un falso problema, in quanto andranno invece privilegiate le caratteristiche sostanziali della sua attività (6).
La stessa Corte costituzionale individua una serie di norme che consentono di equiparare la funzione arbitrale a quella del giudice (7).
Ad esempio: vale anche nel lodo la previsione della prescrizione così come indicata dagli articoli 2943 e 2945 c.c.; o la previsione della trascrizione come disciplinata dalle varie norme del codice civile; l'atto che introduce il procedimento arbitrale è esattamente equiparato a quello della domanda giudiziale; inoltre, secondo la Cassazione (8), al pari del giudice l'arbitro può ricorrere al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea; inoltre l'articolo 819-bis c.p.c. autorizza gli arbitri a sollevare la questione di costituzionalità, mentre l'articolo 824-bis rende il lodo sottoscritto ed omologato efficace al pari della sentenza.
Ed invero, non si capisce perché, nell'ambito dei delitti, debbano valere le definizioni civilistiche in luogo di quelle poste dalla legge penale, con il rischio di snaturarle entrambe, giungendo a risultati illogici e discriminanti come nel caso considerato.
Maria Consuelo Brandazzi
Praticante avvocato in Perugia
consuelobrandazzi@virgilio.it
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(1) Ci si riferisce al Protocollo addizionale alla Convenzione penale sulla corruzione (ETS 191), che affianca anche diversi altri interventi allegati alla Convenzione madre, come ad esempio la Raccomandazione sul codice di condotta per i funzionari pubblici (Racc. n. R 2000-10), la Raccomandazione sulle regole comuni sulla corruzione nel finanziamento ai partiti e nelle campagne elettorali (Racc. n. 2003-4), i Venti principi guida contro la corruzione (Ris. 97-24), la Convenzione civile sulla corruzione (ETS 174).
(2) Che così dispone: "Nozione del pubblico ufficiale. Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria, o amministrativa.
(3) G. NEGRI, Non è reato corrompere un arbitro, Il sole 24Ore, 14 aprile, 2018.
(4) L. TRAMONTANO, Codice penale spiegato, La Tribuna, 2011. L'autore spiega, ad esempio, che sono pubblici ufficiali anche i giudici popolari o i collaboratori del giudice come i periti nominati, pur non essendo, nessuno dei due, dipendenti pubblici.
(5) C. BENUSSI, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, in G. Marinucci, E Dolcini (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte speciale, II ed., Padova, 2013, p.45; M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei privati. Le qualifiche soggettive pubblicistiche. Commentario sistematico, IV ed., Milano, 2015, p. 298.
(6) M. GAMBARDELLA, Corruzione degli arbitri e riforma del processo civile, in Penale contemporaneo, 3 dicembre 2014, p. 4.
(7) Corte cost., 19 luglio 2013, n. 223.
(8) Cass. Civ. Sez. Un., 25 ottobre 2013, n. 24153.

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