Data: 07/05/2019 19:00:00 - Autore: Marina Crisafi

di Marina Crisafi – Un monaco può certamente fare l'avvocato. E la legge che vieta a chi è in possesso di tale qualifica professionale di iscriversi all'albo forense utilizzando il titolo conseguito in altro Stato membro, a causa dell'incompatibilità tra il suo status religioso e la professione è contraria al diritto dell'Unione Europea. È quanto in sostanza si ricava dalla sentenza depositata oggi dalla Corte di Lussemburgo nella causa C-431/17, Monachos Eirinaios / Dikigorikos Syllogos Athinon (sotto allegata).

La vicenda

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La vicenda ha per protagonista un monaco (Monachos Eirinaios) del monastero di Petra in Grecia, il quale nel 2015 presentava al consiglio dell'ordine degli avvocati di Atene, una domanda di iscrizione nel registro speciale del foro in qualità di avvocato, qualifica professionale acquisita in altro Stato membro. Il Consiglio (Dsa) respingeva la domanda in base alle leggi nazionali che sancivano l'incompatibilità tra l'esercizio della professione di avvocato e lo status di monaco, ritenendo che le disposizioni fossero applicabili anche agli avvocati che desiderano utilizzare il titolo professionale di origine per esercitare la professione in Grecia.

Nello specifico, il Dsa riteneva che "lo status di monaco non consenta a quest'ultimo di presentare, conformemente a tali regole e a tali principi, garanzie quali, segnatamente, l'indipendenza rispetto alle autorità ecclesiastiche da cui dipende, la possibilità di dedicarsi interamente all'esercizio della professione forense, l'attitudine a gestire controversie in un contesto conflittuale, la fissazione del suo studio reale all'interno del circondario del tribunale interessato e il rispetto del divieto di fornire servizi a titolo gratuito".

Il monaco Ireneo impugnava la decisione dinanzi al Consiglio di stato greco, deducendo segnatamente il contrasto tra la legislazione nazionale e le disposizioni della direttiva 98/5, in quanto detta legislazione imporrebbe una condizione non prevista dalla direttiva, e quest'ultimo interrompeva il processo per sottoporre questione pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue.

Chiedeva, in particolare, se l'articolo 3 della direttiva 98/5 "debba essere inteso nel senso che l'iscrizione di un monaco della Chiesa di Grecia come avvocato nell'albo dell'autorità competente di uno Stato membro diverso da quello nel quale egli ha conseguito il suo titolo professionale, allo scopo di esercitare ivi la sua professione con il suo titolo professionale di origine, possa essere vietata dal legislatore nazionale per il motivo che i monaci della Chiesa di Grecia non possono, ai sensi del diritto nazionale, essere iscritti negli albi degli ordini degli avvocati, in quanto non sussistono, a causa del loro status, le garanzie riconosciute indispensabili per l'esercizio dell'attività forense".

La sentenza

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Con l'odierna sentenza, la grande sezione della Corte Ue interpreta la direttiva 98/5/CE, ricordando innanzitutto che la stessa ha lo scopo di facilitare l'esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello nel quale è stata acquisita la qualifica professionale. Detta direttiva, ribadisce ancora la Corte, "istituisce una procedura di reciproco riconoscimento dei titoli professionali degli avvocati emigranti, i quali desiderino esercitare la professione utilizzando il titolo ottenuto nello Stato membro di origine", con l'obiettivo dichiarato di "porre fine alle disparità tra le norme nazionali relative ai requisiti d'iscrizione presso le autorità competenti, da cui derivavano ineguaglianze ed ostacoli alla libera circolazione".

In questo contesto, l'art. 3 della direttiva in parola, "provvede ad armonizzare completamente i requisiti preliminari richiesti ai fini di esercitare il diritto di stabilimento conferito da tale direttiva, prevedendo che l'avvocato che intende esercitare la professione in uno Stato membro diverso da quello nel quale ha acquisito la sua qualifica professionale deve iscriversi presso l'autorità competente di detto Stato membro, la quale è tenuta a procedere a tale iscrizione «su presentazione del documento attestante l'iscrizione di questi presso la corrispondente autorità competente dello Stato membro di origine»".

Per cui "gli avvocati, i quali abbiano acquisito il diritto di fregiarsi di tale titolo professionale in uno Stato membro, quale il ricorrente nel procedimento principale, e che presentino all'autorità competente dello Stato membro ospitante il certificato della loro iscrizione presso l'autorità competente di questo primo Stato membro, devono essere considerati in regola con tutte le condizioni necessarie per la loro iscrizione presso l'autorità competente dello Stato membro ospitante, con il loro titolo professionale ottenuto nello Stato membro di origine".

Nel caso di specie, secondo le autorità nazionali, "l'esercizio della professione forense da parte di un monaco non soddisferebbe le garanzie richieste ai fini di tale esercizio". A tal proposito, afferma la Corte, che è vero che al legislatore nazionale è concesso "prevedere garanzie siffatte" e che la mancanza di conflitti di interesse è indispensabile all'esercizio della professione forense; tuttavia è vero altresì che questa facoltà offerta al legislatore "non può consentirgli di aggiungere ai presupposti richiesti per l'iscrizione presso l'autorità competente dello Stato membro ospitante, determinate condizioni supplementari relative al rispetto di obblighi professionali e deontologici".

Ebbene, concludono i giudici della Grande Chambre, "negare a un avvocato, che desideri esercitare la professione nello Stato membro ospitante utilizzando il suo titolo professionale di origine, la sua iscrizione presso le autorità competenti di detto Stato membro sol perché egli ha lo status di monaco equivarrebbe ad aggiungere una condizione di iscrizione a quelle contenute nell'articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 98/5, laddove un'aggiunta siffatta non è autorizzata da questa disposizione".

Il principio di diritto

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Da qui, il principio formulato dalla Corte, "L'articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 98/5/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 1998, volta a facilitare l'esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica, dev'essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale, la quale vieta a un avvocato avente lo status di monaco, iscritto come avvocato presso l'autorità competente dello Stato membro di origine, di iscriversi presso l'autorità competente dello Stato membro ospitante al fine di esercitare ivi la sua professione utilizzando il suo titolo professionale di origine, a causa dell'incompatibilità tra lo status di monaco e l'esercizio della professione forense, che detta normativa prevede".


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