Data: 16/05/2019 16:00:00 - Autore: Carlo Casini

Dott. Carlo Casini - Il praticantato è una fase della vita professionale transitoria ma fondamentale in termini formativi e la cui durata è attualmente stabilita dalla legge in 18 mesi (ripartiti in tre semestri di pratica).

La pratica: l'inizio della professione forense

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E' espressamente la Legge Professionale (L. n. 247 del 2012) all'art. 41 co. 11 a prevedere la gratuità del primo semestre di pratica, disposizione che trova ragion d'essere nel pressoché apporto nullo che il praticante può destinare allo studio presso cui esercita la pratica nel primo semestre.

In tutta onestà, a parere di chi scrive è giusto ritenere che in questa fase è inevitabile e fisiologico che il praticante rappresenti più un costo che un beneficio per lo studio legale presso cui intraprende la pratica.

Questo perché, per ragioni che sarebbero più che discutibili, la Facoltà di Legge impartisce nozioni prevalentemente teoriche e astratte rispetto alla concretezza della vita professionale che ha certamente bisogno delle dovute integrazioni pratiche.

Per i motivi di cui sopra, lo studente di legge che si appresta a iniziare la pratica necessiterà di un semestre definibile di "osservazione e assestamento".

In questo periodo il praticante dovrà prender coscienza di come si articola la vita lavorativa in uno studio legale e dovrà "prender confidenza" con i colleghi e i giudici, con gli uffici giudiziari e i funzionari a questi preposti, attraverso le udienze che necessariamente è tenuto a prendere e a trascrivere sul suo libretto di pratica semestre per semestre.

Seguiranno in modo piramidale e progressivo la redazione di atti, pareri ma anche lettere, raccomandate ecc.

La difficoltà maggiore del praticantato è che oltre a quanto sopra descritto, il praticante deve necessariamente implementare la sua formazione teorica in vista dell'esame e della sua carriera e deve necessariamente esercitarsi in vista delle prove scritte, nonché imparare i principi deontologici al rispetto dei quali è sottoposto e vincolato in ugual misura degli avvocati (anche per quanto concerne le sanzioni che ne derivano nel caso di trasgressione), il tutto senza dover far venire meno o scemare il suo apporto nello studio.

Finito il primo semestre di pratica, con il supponibile aumento delle conoscenze e delle capacità del praticante, il dominus dovrebbe corrispondere un riconoscimento economico di cui però non vi sono riferimenti di legge circa la sua quantificazione.

I compensi o le indennità hanno come unici riferimenti quelli sanciti dall'art. 41 co. 11 della Legge Professionale e dall'art. 40 del Codice Deontologico rubricato "rapporti con i praticanti" che devono essere: "commisurati all'effettivo apporto professionale dato nell'esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell'utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato".

Pur riconoscendo le buone intenzioni della norma, la disposizione resta troppo vaga e l'assenza di parametri oggettivi e concreti lascia spazio a casi di abuso tristemente noti.

L'abilitazione: disciplina previgente e attuale

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Arriviamo al punto di maggiore interesse per l'argomento preso in analisi, la possibilità, per il praticante, decorsi i sei mesi, di potersi abilitare al patrocinio (ora solo sostitutivo).

A questo tema bisogna premettere che le modifiche operate alla L. 247 del 2012 nella parte che ci occupa (art. 41 co. 12) sono state molto significative nel ridurre le facoltà del praticante abilitato.

La disciplina previgente sul punto era contenuta nell'art. 8 R.D. 1578/1933, che prevedeva la possibilità per i praticanti di abilitarsi decorso l'anno di pratica, per una durata massima di anni sei ed erano autorizzati ad esercitare nel distretto circondariale del proprio Registro di appartenenza innanzi al Tribunale e al Giudice di Pace, nei limiti e nei modi previsti dalla c.d. "Legge Carotti" all'art. 7.

Quanto sopra descritto trova suo corso nel periodo ante riforma della figura del praticante abilitato, la cui disciplina, come si è già avuto modo di dire, è stata radicalmente cambiata ed è ora contenuta nell'art. 41 co. 12 della Legge professionale n. 247 del 2012.

La prima sostanziale modifica operata dal Legislatore di cui ci si può accorgere icto oculi è concerne la impossibilità per la nuova figura del praticante abilitato di avere cause proprie e di essere inserito nel mandato difensivo.

Nella disciplina previgente quanto sopra detto era permesso al praticante abilitato nei limiti del suo status abilitativo risultando pertanto "procuratore legale" ex art. 82 c.p.c.

Anche i riferimenti temporali sono stati emendati, non essendo più richiesto un anno di pratica per abilitarsi ma bensì sei mesi, in senso opposto, la durata dell'abilitazione è stata abbreviata da sei a cinque anni nella disciplina vigente.

Il "nuovo" praticante abilitato come sostituto processuale

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Il suo ruolo, in termini processuali, nella stesura odierna, è chiaramente confinato allo scopo sostitutivo del suo dominus o di altri avvocati (non essendo tassativamente vietata la sostituzione anche ad esempio di colleghi di studio, naturalmente al fine di implementare la preparazione pratica del praticante abilitato, fermo restando che il tutto avviene sotto la diretta responsabilità del proprio dominus).

Valutando le specifiche competenze per materia, si potrà notare che il perimetro delle cause penali entro cui può sostituire il praticante abilitato è rimasto invariato rispetto a quello previsto nella disciplina previgente.

Interessanti sono invece le modifiche che si evincono in campo civile, non essendo più previsto alcun limite di valore (assenza di limite che non può non destare perplessità, ma che può trovare il giusto contro altare logico nella responsabilità morale e professionale del dominus che dovrebbe certamente farlo astenere dal conferire incarichi troppo complessi in sostituzione).

Inoltre non si può più evincere alcun limite territoriale come stabilito nella disciplina previgente, tanto da ritenere possibile, almeno in via teorica, la sostituzione su tutto il suolo nazionale, anche nel grado di appello.

Quanto all'applicabilità della disciplina previgente, questa resterà la normativa applicabile per tutti gli iscritti al Registro dei Praticanti abilitati ante data del 3 giugno 2016, per tutti coloro che invece si iscriveranno successivamente a tale data, troverà applicazione l'art. 41 co.12 L. 247/2012.

Conclusioni

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Dal quadro summenzionato è chiaramente evincibile che il Legislatore ha tendenzialmente "ristretto" le facoltà processuali del praticante abilitato.

E' ipotizzabile che un simile intervento può trovare la sua ratio nella tutela stessa del praticante abilitato che con la previgente normativa si trovava esposto a numerose responsabilità (in via esemplificativa basti pensare che l'accettazione di un incarico esorbitante i limiti posti dalla c.d. "Legge Carotti" poteva comportare -rectius, comporta- una responsabilità penale ai sensi dell'art. 348 c.p.).

D'altro canto non si può omettere di valutare che un simile intervento comporta degli arretramenti sul piano delle esperienze processuali concretamente espletabili sul campo da parte del praticante abilitato.

In tale ottica, bisogna rilevare come il mercato del lavoro dell'avvocatura già risente di un forte calo e per i giovani le possibilità di esercitare la loro attività in proprio sono sempre più ridotte, anche una volta che hanno ottenuto il titolo.

Il lavoro dell'avvocato è certamente ancorato a una solida preparazione teorica ma necessita anche di implementazioni pratiche che senza la vita professionale "vissuta" (sulla propria pelle) non è possibile apprendere, d'altronde è da questa stessa esigenza che nasce il praticantato come articolato periodo formativo che alterna nozioni teoriche a nozioni pratiche, in questa accezione la disciplina previgente merita sicuramente considerazione e stima.

Inoltre, lo scrivente si pone il dubbio che chi ha beneficiato della vecchia disciplina abbia potuto godere di una pratica più effettiva e concreta con un bagaglio esperienziale che alla fine del periodo di abilitazione non potrà corrispondere a quello dell'odierno praticante abilitato, da intendersi come mero sostituto processuale in confronto.

Con ciò non si vuole negare l'evidente valore formativo anche della mera sostituzione processuale, ma la mancanza della qualifica di procuratore legale ai sensi dell'art. 84 c.p.c. (pur nei limiti abilitativi sopra considerati) non ci permette di poter ritenere equivalenti le due forme di abilitazione.

Come considerazione di fondo, è da criticare l'organicità della disciplina e la scelta di discontinuità operata dal Legislatore, che oramai troppe volte ha dimostrato scarsa attenzione per i giovani in questo campo (con tutti gli scenari negativi che si prospettano a seguito di questa scelta, specialmente futuri), dando vita ad una disciplina che se da un lato frustra le prerogative del praticante, dall'altro gli permette (per quanto attiene all'ambito civile) di esorbitare i limiti dello status abilitativo previgente attinenti al valore della controversia e al luogo di celebrazione del processo, anche se solo in termini sostitutivi e non più di patrocinio abilitato.

Infine, i costi dell'abilitazione sono sostanzialmente rimasti invariati: 16 euro per la marca da bollo, 168 euro da versare all'Agenzia delle Entrate per concessioni governative, 100 euro a titolo di iscrizione e 80 euro a titolo di contributo annuale da versare al COA di appartenenza.

Se questi suddetti costi erano condivisibili alla luce delle facoltà del "vecchio" praticante abilitato, anche alla luce della possibilità di conseguire guadagni propri, (dimezzati rispetto agli avvocati, ma pur sempre in grado di permettere quanto meno di recuperare le spese sostenute –anche con riferimento all'apertura di partita IVA e suo conseguente mantenimento-, a differenza della nuova figura di praticante abilitato, che è impossibilitato con le mere sostituzioni ad avere prospettive di guadagno tali per assolvere quanto sopra), a parere di chi scrive non trovano più ragion d'essere con la disciplina attuale e sarebbe opportuno forse abbassarli.

Si può concludere, dicendo anche che l'abilitazione non costituisce un passaggio obbligato della pratica e sicuramente saranno numerosi gli esempi di persone che hanno raggiunto il titolo da praticanti semplici senza abilitarsi ma superando direttamente l'esame di stato, ma resta comunque uno strumento da tutelare poichè ha indubbi valori formativi di carattere pratico che sono certamente utili nella crescita del giovane professionista.


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