Data: 17/05/2019 23:00:00 - Autore: Roberto Cataldi

di Roberto Cataldi - In un mondo sempre più preso da una serie infinita di frivolezze, il ragionamento e la ponderazione sembrano essere stati soppiantati da una sorta di idolatria delle banalità.

Restiamo saldamente ancorati a convinzioni che spesso sono maturate solo sull'onda di un fatto di cronaca o sull'eccitazione impulsiva provocata da ciò che si conosce in modo superficiale. Prevale così una forma di conoscenza che rifiuta l'approfondimento e si ferma al "sentito dire", alla lettura di qualche titolo d'effetto o di qualche post apparso nei social network.

Tutto questo, in ambito politico, porta a un atteggiamento di intransigenza e di rifiuto del dialogo. Una sorta di "narcisismo di maniera" ci ha reso incapaci di guardare oltre il nostro naso, ingabbiandoci dentro le mura dell'incomunicabilità e rendendo impossibile un vero confronto democratico.

Alla base di questo appiattimento generalizzato su pensieri "chiusi", c'è l'irrazionale paura di accettare il confronto nel timore che questo possa destabilizzarci e mettere in dubbio le nostre certezze. Il traguardo da raggiungere, allora, è quello di diventare più grandi della paura e accettare l'idea che i pensieri diversi non sono una minaccia ma un'opportunità.

Partiamo da un esempio. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, padre di una delle linee di pensiero più profonde della tradizione occidentale, in fatto di dialettica, parla di tesi, antitesi e sintesi, come dei tre momenti in cui si articola logicamente lo sviluppo dialettico. La tesi è la semplice affermazione, a cui segue l'antitesi che, come esprime il nome stesso, è l'opposto della tesi, la sua naturale negazione.

Alla fine però c'è la sintesi, ovvero, l'apoteosi della logica e della coerenza, l'unica componente concreta che riunisce ed eleva le opposizioni precedenti. La sintesi costituisce il traguardo, il fine dello sviluppo dialettico ed è l'ultima tappa verso la piena coscienza di sé. Per Hegel, tutto è soggetto ad una trasformazione continua: occorre prima negare se stessi per trovare, infine, una sintesi, una nuova possibilità.

Cosa significa tutto questo per un politico? Significa, innanzitutto, aprire la mente al confronto, sottoporsi a un costante sforzo di revisione e di miglioramento del proprio pensiero, iniziare a confidare sulla forza delle argomentazioni piuttosto che sul "volume" delle discussioni.

Spesso, il bisogno di far valere le proprie ragioni, porta la comunicazione verbale a un livello di aggressività che è fatta di toni accesi, offese e tentativi di prevaricazione. Ma ciò fa perdere di vista il vero fine della politica che dovrebbe essere, invece, quello di realizzare il bene comune e non di difendere ad ogni costo le posizioni prese. Occorre acquisire la consapevolezza che il potere, in democrazia, è sempre un potere "pro tempore" e dunque, per sua stessa natura, revisionabile. Se gli attori della vita politica lo utilizzano solo per imporre la propria, esclusiva, visione del mondo, il risultato non potrà che essere anch'esso fragile e "temporaneo".

Ricordate l'esortazione "Non sono d'accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire"? Queste parole, attribuite alla scrittrice britannica Evelyn Beatrice Hall, sono il concentrato di ciò che dovrebbe essere la vera democrazia. "Darei la vita perché tu lo possa dire" è un'affermazione dirompente che mette in discussione le attuali modalità di dibattito a cui si assiste in ambito parlamentare.

Sembra si siano dimenticati i fondamenti con cui svolgere una discussione costruttiva e positiva per il Paese. Prevale l'astio, lo scontro, la voglia di combattere e di inveire contro l'avversario con la furia incontenibile di una bestia feroce. Eppure questa naturale inclinazione alle crocifissioni altrui, non aiuta a edificare, e neppure ad accrescere la fiducia del cittadino per la politica. Abbiamo dimenticato che il mondo è fatto di una serie infinita di sfumature di colore e ci siamo ridotti a pensare che tutto sia bianco o nero: dopo la tesi e l'antitesi, resta lo scontro e non la sintesi. Prevale così l'insulto sulla ragione.

Facciamo allora una riflessione. C'è chi sostiene che la specie umana disponga di enormi potenzialità ma che di fatto sarebbe in grado di utilizzare solo il 10% delle capacità intellettive di cui dispone. Forse questo non è un reale limite biologico, ma una scelta di pura convenienza. L'ottuso, in questo senso, non è una persona priva di capacità intellettive ma una persona che ha consapevolmente rifiutato di aprirsi al dialogo e al confronto con l'altro. E così, quel 10%, gli basta per sostenere lo scontro, come al tempo della pietra quando i dinosauri, per un meccanismo di autodifesa, avevano imparato a ruggire più forte nell'illusione che chi grida di più vince. Eppure alla fine proprio loro si sono estinti.

Purtroppo, come scriveva sempre Hegel, "tutto ciò che l'uomo ha imparato dalla storia è che dalla storia l'uomo non ha imparato niente" e mai come adesso, di fronte ai ruggiti che sconquassano le aule del Parlamento, dobbiamo intravedere l'impellente bisogno di un'evoluzione, di un cambiamento.



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